I SOGGETTI PENALMENTE RESPONSABILI NELLA DISCIPLINA NELLA SICUREZZA DEL LAVORO

Indice

CAPITOLO I

LE LINEE EVOLUTIVE DELLA NORMATIVA IN TEMA DI IGIENE E SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO *

 

1. La prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali *

2. La nozione di infortunio sul lavoro *

3. La nozione di malattia professionale *

4. La legge n°80 1898: il primo intervento in materia.

L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. *

5. Gli articoli 437 e 451 del codice penale *

6. Le disposizioni costituzionali e la normativa codicistica *

7. I decreti emanati negli anni '50 *

8. Gli interventi degli anni '70 *

8.1 la legge 20 maggio 1970 n°300 - lo statuto dei lavoratori *

8.2. La legge 23 dicembre 1978 n° 833: la riforma sanitaria. *

 

CAPITOLO II

LA NUOVA NORMATIVA IN MATERIA DI PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI E MALATTIE PROFESSIONALI *

 

1. Il quadro della disciplina comunitaria in materia antinfortunistica *

2. La direttiva-quadro 12 luglio 1989 n° 391 *

3. L’elemento di maggiore novita’: il nuovo concetto di prevenzione. Un sistema di gestione dinamico della sicurezza del lavoro in azienda *

4. La normativa italiana: il d.lgs. N° 626/1994 di recepimento della direttiva-quadro n°391/1989 *

5. I profili innovativi del decreto legislativo *

5.1 l a moltiplicazione delle posizioni di garanzia *

5.2 la valutazione dei rischi e la programmazione della sicurezza *

5.3 la gestione partecipata della sicurezza *

5.4 segue: in particolare il diritto all'informazione *

5.5 segue: il diritto ad un’adeguata formazione *

5.6 segue: consultazione e partecipazione in senso stretto *

5.7 l’attuale significato del principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile *

 

CAPITOLO III

LA RIPARTIZIONE INTERSOGGETTIVA DELL’OBBLIGAZIONE DI SICUREZZA NEL NUOVO QUADRO LEGALE *

 

SEZIONE I

L’INDIVIDUAZIONE DEI GARANTI DELLA SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO*

 
 

1. I reati in materia di igiene e sicurezza del lavoro come reati propri *

2. Segue: le fattispecie omissive in materia antinfortunistica *

3. I garanti della sicurezza: ripartizione delle posizioni di garanzia in base al principio di effettivita', regola cardine nell’individuazione dei soggetti passivi degli obblighi prevenzionistici *

 
 

SEZIONE II

I GARANTI DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI NELLE IMPRESE PRIVATE *

 
 

1. Il datore di lavoro e l’obbligazione di sicurezza: la definizione e i connessi problemi di identificazione di questa figura *

2. La responsabilita’ penale del datore di lavoro nelle organizzazioni complesse *

3. L’individuazione dei destinatari dell’obbligo di sicurezza in caso di appalto *

3.1 segue: il d.lgs. N° 494 del 1996: la sicurezza nei cantieri *

3.2. Segue: il subappalto *

4. La nozione di dirigente nel nuovo quadro normativo *

4.1 alcune figure tipiche: il direttore tecnico ed il direttore amministrativo *

4.2 segue: il direttore dei lavori. Il direttore di cantiere ed il direttore di stabilimento *

4.3 segue: il direttore di reparto o capo-reparto *

4.4 segue: il direttore dei lavori per conto del committente *

5. Il preposto ed il problema della sua responsabilita’ penale *

5.1 alcune figure tipiche: il capo-squadra, il capo-cantiere, l’assistente edile ed il capo-reparto *

6. Il ruolo del lavoratore nel nuovo sistema di sicurezza del lavoro *

6.1 la nozione di "lavoratore subordinato" *

6.2 obblighi e responsabilita' del prestatore di lavoro *

7. Le posizioni di garanzia esterne al rapporto di lavoro subordinato: progettisti- fabbricanti- venditori- noleggiatori- concedenti in uso- installatori e montatori di impianti e macchine *

7.1 la responsabilita’ penale del costruttore-venditore dell’impianto e del datore di lavoro-acquirente *

8. Il servizio di prevenzione e protezione: la figura cardine del nuovo sistema di sicurezza nei luoghi di lavoro *

8.1 le tre diverse tipologie: il servizio interno *

8.2 segue: il servizio esterno *

8.3 segue: l’esercizio diretto *

8.4 il responsabile del servizio di prevenzione e protezione *

8.5 il ruolo del servizio di prevenzione e la sua responsabilita' penale *

9. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza: il problema della sua individuazione *

9.1 le attribuzioni del r.l.s. *

9.2 garanzie e tutele *

9.3 responsabilita' del r.l.s. sul piano disciplinare, civile e penale *

10. Il medico competente: la nozione *

10.1 attribuzioni e responsabilita’ di questo garante della sicurezza in azienda *

 
 

SEZIONE III

I DESTINATARI DELL’OBBLIGAZIONE DI SICUREZZA NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI *

 

 

 

1 L'applicabilita' del d.lgs. N° 626/94 alle pubbliche amministrazioni e le deroghe all'applicazione generalizzata *

2. Il datore di lavoro nel settore del pubblico impiego *

2.1 responsabilita' penale dell’organo di direzione politica dell’ente pubblico *

3. La dirigenza amministrativa: ruolo e responsabilita’ nell’applicazione del d.lgs. N°626/94 *

4 il preposto *

5. Il lavoratore *

6. Il servizio di prevenzione e protezione *

7. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza *

8. Il medico competente *

 
 

ALLEGATO I *

BIBLIOGRAFIA *

 

 


CAPITOLO I

LE LINEE EVOLUTIVE DELLA NORMATIVA IN TEMA DI IGIENE E SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO 

1. LA PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI SUL LAVORO E DELLE MALATTIE PROFESSIONALI

Il termine "prevenzione" etimologicamente deriva da prevenire, termine che nel linguaggio comune assume vari significati, tra cui quello di impedire, nel senso di prendere le precauzioni necessarie perché una data cosa non avvenga. Ci si riferisce all'azione o serie di azioni con cui ci si cautela da un male futuro o lo si evita1.

Il cd. "sinistro da lavoro" é l'evento che, in dipendenza del rischio inerente ad una determinata prestazione lavorativa, produce in colui che lo ha subito una lesione ed un conseguente stato di inabilità tale da richiedere le prestazioni riparatorie previste dalla legge e garantite tramite l'assicurazione: queste ultime costituiscono il contenuto della nozione di prevenzione intesa in senso ampio. Queste dapprima assumono la forma dell'assistenza sanitaria: vengono quindi fornite cure mediche dopo che si é verificata una lesione dell'integrità fisica del lavoratore; in una seconda fase, invece, le conseguenze derivanti dal sinistro vengono fronteggiate in modo differente: il lavoratore viene indennizzato mediante prestazioni di denaro per il danno subito durante lo svolgimento delle proprie mansioni2. E' infatti solo con i decreti emanati negli anni '50 che si fa strada il concetto di "prevenzione in senso stretto".

L'evento dannoso connesso alla prestazione lavorativa può assumere due forme caratteristiche, entrambe prese in considerazione dal legislatore: l'infortunio dovuto a "causa violenta" e la malattia professionale dovuta a fattori od agenti nocivi, che producono i loro effetti sulla salute dell'uomo in modo lento, progressivo e che quindi risultano individuabili a distanza di anni dal momento in cui il lavoratore ha incominciato ad operare nell’ambiente insalubre3.

La sicurezza e l'igiene del lavoro vengono prese in considerazione e disciplinate dal diritto civile e dal diritto penale: il diritto penale del lavoro, in particolare, si occupa della tutela di vari aspetti della prestazione lavorativa tra i quali assume particolare rilievo il suo svolgimento in un "ambiente sicuro e salubre", che non presenti quindi rischi per la vita, integrità fisica e la salute: vengono protetti quindi alcuni beni di rilevanza anche costituzionale, che possono subire un pregiudizio durante lo svolgimento dell'attività lavorativa.

Dunque in linea generale si può dire che l'espressione sicurezza del lavoro implichi lo svolgimento di una prestazione di lavoro in condizioni tali che questi beni non siano messi in pericolo o subiscano un pregiudizio4: l'obiettivo che si vuole raggiungere è un ambiente di lavoro sicuro a tutela di chiunque possa essere coinvolto dalle situazioni di rischio che si possono verificare.

La nozione di sicurezza del lavoro5 può meglio definirsi concependola come un fenomeno di impresa6, come il risultato, quindi, di una serie di decisioni relative al problema dell'integrità psico-fisica dei lavoratori, prese nell’ambito di una politica d’impresa: i fenomeni caratterizzanti il contenuto della sicurezza del lavoro dipendono infatti dalle modalità di utilizzazioni del fattore lavoro nei processi produttivi di impresa: si instaura quindi un sistema di relazioni tra le variabili uomo, macchina e ambiente7.

Oggetto di indagine sono quindi specificatamente le relazioni non conformi alle condizioni di rischio igienico, cioè l'igiene del lavoro e la malattia professionale (sicurezza dell'ambiente di lavoro), di prevenzione degli infortuni (sicurezza del lavoro in senso stretto), di alienazione (sicurezza della qualità della vita lavorativa)8 . Questa però è un'impostazione del problema che facendo riferimento ad un concetto di sicurezza come risultato di operazioni di gestione nell'ambito di un sistema aziendale di tipo chiuso non è del tutto corretta9.

Una diversa prospettiva è infatti maggiormente adeguata a comprendere la reale natura del fenomeno: la sicurezza deriva non solo dalla combinazione interna dei fattori capitale e lavoro, ma anche dagli scambi tra il sistema aziendale e l'ambiente esterno10. Vengono quindi prese in considerazione le condizioni di rischio determinate dal contesto aziendale tra le quali rivestono un'importanza preminente il sistema di organizzazione del lavoro (ritmi, orari e cariche di lavoro) e le condizioni di rischio provenienti dall'ambiente esterno tra le quali l'inquinamento ambientale esterno ed il rischio incorporato nel prodotto-servizio ceduto da un'altra impresa; non bisogna però concepire i due momenti della misurazione del rischio e della successiva decisione della sua eliminazione, che costituiscono il nucleo della materia in esame, come determinati esclusivamente dall’obiettivo di massimizzazione del profitto: questo, che è l'interesse di cui è portatore il detentore del capitale investito in una determinata impresa, si scontra con gli interessi confliggenti dei singoli dipendenti e del sindacato dei lavoratori: la sicurezza può intendersi dunque come un problema di incrocio tra le aspettative di una pluralità di soggetti, tra i quali anche la magistratura e gli organi statali di controllo, e la decisione di eliminazione del rischio che ne consegue riguarda i rischi ritenuti in un determinato momento non accettabili11. Il sistema uomo-macchina-ambiente è quindi sicuro quando i rischi riscontrati si mantengono al di sotto di questa soglia di tollerabilità12.

Non viene quindi utilizzata la nozione corrente di sicurezza13, che si richiama all'apparente significato letterale dell'espressione e che fa riferimento ad un'assoluta mancanza di rischio in un determinato ambiente, ma un concetto relativo di sicurezza che ha il pregio di metterne in evidenza l'aspetto dinamico: il grado di rischio e di conseguenza la sicurezza variano in funzione dell'importanza attribuita all'integrità psico-fisica del lavoratore e del processo di apprendimento esperienziale accumulato dai vari attori coinvolti.

Il sistema di tutela della sicurezza del lavoro, rappresentando un limite alla libertà di iniziativa economica che è dotata di garanzia costituzionale ex art. 41 1° comma14, necessita anch'esso di un fondamento costituzionale che si può rinvenire nell'art. 32 Cost.; nel 2° comma dell'art. 4115 troviamo poi un bilanciamento di interessi nel quale sicurezza, libertà e dignità umana sono considerati prevalenti e quindi idonei a giustificare limitazioni alla libertà di iniziativa economica16.

Su questa materia si è appuntata da più di un secolo, e cioè dalla rivoluzione industriale, l'attenzione dei legislatori dei vari paesi europei seppure con una intensità variabile a seconda del momento storico: se infatti si da uno sguardo alla legislazione in materia, si può notare un incremento a livello quantitativo ed una modifica della tecnica di redazione delle norme.

Si verifica anche un deciso cambiamento di rotta: dapprima domina la logica della riparazione del danno subito dal lavoratore, poi si assiste all'emergere, per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro, del concetto di prevenzione in un primo tempo statica, poi dinamica: ciò segna il passaggio da un sistema di prevenzione oggettiva- tecnologica ad un sistema di prevenzione soggettiva incentrato sull'uomo, sull'informazione e formazione delle persone che operano nei luoghi di lavoro, sulla loro idoneità psico-fisica17.

Con il recepimento della direttiva comunitaria n° 391/1989 da parte della legge n° 626/1994 si fa strada anche in Italia il concetto di "sicurezza partecipata", che vede impegnati in modo attivo anche i lavoratori a cui si chiede di cooperare al raggiungimento dell'obiettivo della sicurezza con il datore di lavoro che ne rimane comunque il principale garante18; il lavoratore da destinatario passivo delle misure protettive ne diviene un partecipe e consapevole co-determinatore: il datore di lavoro è obbligato infatti ad informarlo in modo adeguato e puntuale riguardo alle condizioni di rischio e ai mezzi per fronteggiarlo19 e a formarlo in maniera sufficiente in materia di sicurezza e salute20.

La formazione implica un diverso modo di intendere il contributo del lavoratore alla propria e all'altrui sicurezza, che si caratterizza non soltanto in termini di astensione da condotte pericolose od inosservanti, ma anche in termini di collaborazione attiva21: i riflessi positivi dell'abbandono di una visione conflittuale e non collaborativa della sicurezza si possono riscontrare nella progressiva affermazione di una vera e propria cultura della prevenzione22.

Il d.lgs. 626/1994 presenta poi un'ulteriore novità nel modo di affrontare la problematica della sicurezza del lavoro: più che di tutela della sicurezza attraverso prescrizioni capaci di elidere il pericolo si può ora parlare di gestione della sicurezza attraverso interventi modulati, costanti e flessibili, i quali costituiscono il miglior modo di signoreggiare la situazione di rischio impedendone la degenerazione in pericolo23.

2. LA NOZIONE DI INFORTUNIO SUL LAVORO

Il legislatore italiano nei suoi molteplici interventi in materia non ha mai fornito della nozione di infortunio un’esplicita definizione1; gli interpreti non hanno quindi un preciso punto di riferimento: unico aiuto nella loro opera di delimitazione di questo concetto é costituito dall’art.2 del R.D.L. 17 agosto 1935 n°17652, che detta gli estremi dell’evento che possa definirsi infortunio sul lavoro: una manifestazione violenta, la sua attinenza alla prestazione lavorativa, la determinazione di una perturbazione nella personalità psico-fisica dell’operaio, quale una lesione personale le cui conseguenze si protraggano per un determinato periodo di tempo oppure la sua morte.

La dottrina definisce la causa violenta come il fatto esterno che si verifica accidentalmente ed incide in modo repentino sull’integrità fisica della persona3. La giurisprudenza precisa poi che lo sforzo fisico idoneo ad integrare una causa violenta di infortunio sul lavoro non deve essere necessariamente caratterizzato dalla eccezionalità, imprevedibilità dei suoi effetti, né deve necessariamente esulare dalle condizioni tipiche del lavoro a cui il soggetto sia addetto, essendo sufficiente un’erogazione di energia fisica, concentrata nel tempo, finalizzata a vincere una resistenza o forza contraria, alla cui azione rapida ed intensa possa riconnettersi una lesione in base ad un rapporto causale che, soprattutto se specificatamente contestato, deve formare oggetto di adeguata motivazione da parte del giudice civile, che riconosca al lavoratore il diritto al risarcimento, e penale4.

L’infortunio deve poi essersi verificato in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa, la quale deve essere quindi stata la causa dell’evento dannoso o per lo meno deve aver avuto un’influenza o correlazione diretta o indiretta nella realizzazione del fatto lesivo5. Ogni sinistro può dirsi dunque avvenuto in tale situazione quando la prestazione lavorativa abbia determinato il rischio, senza però che sia necessario un rapporto di causalità diretta e senza che debba verificarsi necessariamente durante l’orario di lavoro6; la nozione di occasione deve essere tenuta distinta da quella di causa: mentre quest’ultima costituisce elemento costitutivo del processo causale che porta all’infortunio, la prima, più ampia per contenuto, é solo una circostanza o condizione concomitante, che però non può consistere in una semplice concomitanza di tempo e luogo, ma deve rappresentare la circostanza che determina l’esposizione del lavoratore al rischio, o che comunque provoca un aggravamento dello stesso.

Il sinistro avvenuto nelle condizioni previste dalla legge e dotato delle caratteristiche prima esaminate costituisce l’evento che fa sorgere l’obbligazione risarcitoria: le conseguenze dell’infortunio costituiscono infatti ciò che viene chiamato "danno professionale": quest’ultimo comprende due nozioni, complementari: la lesione e l’inabilità. Con il primo termine si fa riferimento al lavoratore come organismo fisico, con la seconda espressione al lavoratore in quanto elemento produttivo, alla limitazione quindi della sua capacità lavorativa7.

3. LA NOZIONE DI MALATTIA PROFESSIONALE

Prendiamo ora in esame il complesso problema della repressione dei fatti che abbiano determinato una malattia professionale: il legislatore non ha fornito, né nel d.p.r. n° 303/56 né nel d.lgs. n° 626/94, una definizione della nozione di malattia professionale: occorre quindi richiamare la definizione che di essa viene data in campo clinico, medico-legale.

Come già anticipato essa viene contrapposta all'altra modificazione patologica destinata anch'essa a comportare la morte o l'inabilità permanente o temporanea del lavoratore, l'infortunio sul lavoro, definito "un evento dannoso avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro"1. La causa violenta e l'occasione di lavoro differenziano l’infortunio sul lavoro dalla malattia professionale: questa "non ha un'origine occasionale, ma é causata dal lavoro; essa é dovuta a causa lenta, cioé all'azione reiterata e diluita nel tempo di noxae patogene proprie di determinate lavorazioni e non ha il carattere dell'accidentalità e dell'imprevedibilità, essendo anzi un evento prevedibile e legato al lavoro"2.

La giurisprudenza precisa che si tratta di uno stato di aggressione dell'organismo del lavoratore, eziologicamente connesso all'attività lavorativa, a seguito del quale deriva un’alterazione dell'organismo stesso, comportante a sua volta una riduzione della capacità lavorativa3; é inoltre affermazione costante in dottrina che l'infortunio viene prodotto da un'azione lesiva che opera con rapidità, in un periodo di tempo convenzionalmente non superiore ad un turno di lavoro, mentre la malattia professionale insorge in conseguenza di un'azione lesiva che opera con gradualità in un arco cronologico prolungato che supera le otto ore4. Nel primo caso si ha la cosiddetta causa violenta o concentrata, nel secondo la c.d. causa diluita o lenta. Queste considerazioni sono state recepite in toto in campo previdenziale, sia dalla dottrina giuslavoristica, che dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.

Con il regolamento generale per l'igiene del lavoro, approvato con il r.d. 14 aprile 1927 n° 530 viene data copertura assicurativa alle prime sei malattie professionali. Viene, dunque, in ambito civile, accolto "il sistema della lista": vengono cioé prese in considerazioni solo quelle sindromi tassativamente indicate in specifiche tabelle5. Questo numerus clausus viene, nel corso degli anni, ampliato dallo stesso legislatore: l'ultima tabella é stata redatta nel 1994. Tale opzione legislativa creava disparità di trattamento tra i lavoratori e non riusciva ad assicurare una tutela adeguata alla gravità del fenomeno. Sul punto é intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale 18 febbraio 1988 n° 179, che seppur con grande ritardo, comune peraltro ad altri Stati della Comunità Europea, ha riconosciuto la fondatezza dell'asserita incostituzionalità del sistema di lista ed ha pertanto introdotto "il cosiddetto sistema misto", già raccomandato dalla Comunità Europea fin dal 19626. Costituiscono dunque malattie professionali ai fini della sussistenza della relativa indennità non solo, come si riteneva in precedenza, le malattie ricomprese nelle tabelle allegate al d.p.r. n° 1124/1965 e contratte nell'esercizio e a causa delle lavorazioni specificate nelle tabelle stesse, ma ogni malattia di cui sia comunque provata la causa di lavoro: pertanto l'Inail é tenuto ad indennizzare anche malattie diverse da quelle nelle suddette suddette, cioé derivanti da lavorazioni diverse da quelle specifiche o da un agente patogeno non indicato nelle stesse o che si siano manifestate oltre il termine indicato7. Al riguardo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che la distinzione tra le malattie comprese nelle suddette tabelle e quelle escluse dalle stesse rileva non ai fini della natura della malattia e della sussistenza del diritto al relativo trattamento economico e normativo, ma sul piano probatorio: mentre per le malattie tabellate opera a favore dell'assicurato la presunzione dell'esistenza di un rapporto di causalità tra il lavoro e la malattia, per le malattie diverse da quelle tabellate ovvero riconducibili a lavorazioni diverse da quelle descritte da tali tabelle l'assicurato deve fornire la causa di lavoro8 9.

Occorre ora chiarire se la nozione di malattia professionale così individuata nel settore previdenziale possa essere trasferita anche in campo penalistico. Dopo le modifiche apportate dalla citata sentenza della Corte Costituzionale non esistono più ostacoli all'utilizzo della nozione giuslavoristica: occorre comunque ricordare come già in passato fosse affermazione costante in dottrina che la nozione di malattia professionale in campo penale non potesse esser ristretta negli angusti confini rappresentati dalle citate tabelle, ma dovesse invece ricomprendere anche le malattie-infortunio, cioé quelle sindromi patogene collegabili all'ambiente e all'organizzazione di lavoro10. Infatti in ambito penalistico era già stato da tempo abbandonato quell'orientamento che considerava professionali solo le malattie di cui il lavoro fosse la causa specifica e diretta11. Si assiste quindi al passaggio dalla classica malattia professionale a fenomeni diversi, più diffusi: la patologia riscontrabile tra quanti lavorano é in larga parte provocata da processi morbosi, definiti malattie paraprofessionali o work related, che rappresentano le principali cause di morbilità e mortalità anche nella restante popolazione12.

L'aspetto più problematico riguarda dunque l'accertamento del nesso causale tra malattia e prestazione lavorativa: la Corte di Cassazione, che ha avuto modo di affrontare questo tema in varie occasioni, lo ha risolto utilizzando anche in materia di malattie professionali la teoria della equivalenza delle condizioni o della "conditio sine qua non", temperata dall'affermazione dell'esclusione del nesso eziologico nel caso di intervento di un fattore dotato di forza tale da determinare da solo l'evento: quindi per affermare la sussistenza del rapporto di causalità é sufficiente che l'agente abbia posto in essere una condizione produttiva dell'evento, in modo tale che quest'ultimo risulti essere conseguenza anche di quella condotta e non soltanto di circostanze aventi una sufficienza causale esclusiva13.

Nel caso quindi di reato di lesione personale colposa costituita da una malattia professionale il rapporto di causalità sussiste anche quando la malattia sia stata concausata da fattori estranei all'ambiente di lavoro, quali, in caso di silicosi, l'assunzione di fumo da tabacco o, per un'ipoacusia da rumore, una otopatia extraprofessionale o la presbiacusia14.

Le concause possono essere di due tipi: possono essere cause professionali, come una pregressa esposizione al fattore nocivo in altra azienda, o causa extra-professionali, come quelle appena citate. Esse, come d'altronde la causa lavorativa, devono essere comunque effettivamente provate per poter assumere un ruolo nella determinazione della malattia.

Il datore di lavoro potrà essere ritenuto penalmente responsabile a condizione che abbia omesso di predisporre misure di prevenzione la cui attuazione avrebbe impedito l'insorgenza della malattia: non é quindi sufficiente l'insorgenza di una malattia con possibile eziologia professionale15. E’ infatti affermazione costante in giurisprudenza che si può configurare la responsabilità del datore di lavoro, quale garante della salute della sicurezza del lavoratore, deceduto a causa ad esempio di un tumore contratto sul luogo di lavoro per assorbimento di amianto, solo in caso di mancata adozione di idonee misure di prevenzione: la prova dell’esistenza della causalità omissiva va accertata rigorosamente sulla base di leggi scientifiche, universali e statistiche, in modo tale da limitare il potere discrezionale del giudice; essa sussiste se, sulla base di tali leggi, può affermarsi che l’azione dovuta e non tenuta avrebbe evitato con alto grado di probabilità il verificarsi dell’evento. La condotta omissiva rileva quindi ai fini della responsabilità penale, in quanto causa penalmente rilevante del danno, qualora essa abbia, con una probabilità vicina alla certezza accertata col rigore di leggi scientifiche, accelerato il processo causale, dando luogo uno sviluppo tale da potersi ritenere "conditio sine qua non" dell’evento dannoso15bis

A questo proposito é comunque difficile, in particolare in relazione ai tumori professionali, dimostrare l'associazione lavoro-neoplasia: infatti al di là dei tumori monocausali, la cui specifica localizzazione evoca una un'eziologia professionale, il tumore si presenta spesso come patologia di non nota origine professionale o come patologia policausale. In questi casi é necessaria un'attenta valutazione della situazione che riguarda il singolo lavoratore. Dovrà essere presa in considerazione la persuasività scientifica dell’associazione tra il fattore di rischio e la malattia apparsa nel lavoratore, la coerenza cioé con le conoscenza sull’argomento. Altro parametro indicato dalla Corte di Cassazione é la congruità del periodo di esposizione all'agente nocivo, che varia a seconda della malattia16.

Occorre ora chiarire se per affermare la responsabilità penale del datore di lavoro sia necessario che il giudice pervenga in ordine al nesso causale lavoro-malattia professionale ad un giudizio di mera possibilità o di assoluta certezza. In più occasioni la Suprema Corte ha affermato che, in sede penale, non basta individuare il rischio ambientale, ma occorre dimostrare l'esistenza di un rapporto di derivazione necessaria, diretta e certa, tra i fattori lavorativi e le malattie insorte e quindi escludere la possibilità di una diversa ed autonoma eziologia del processo morboso, poiché, a differenza dell'ambito civilistico-previdenziale, in cui deve prevalere il criterio di favore per il lavoratore, in campo penale l'affermazione di responsabilità postula certezze, tra le quali ad esempio quella relativa al legame eziologico tra la condotta dell'imputato e l'evento dannoso. Si tratta comunque, precisa la giurisprudenza, "non di una certezza assoluta, tale da escludere qualsiasi possibilità, anche teorica e remota, di concepire il verificarsi dell'evento al di fuori di quella condotta, ma di una ragionevole certezza, che, pur senza escludere in assoluto, in via teorica ed astratta, la possibilità di un diverso meccanismo causale, non lasci tuttavia spazio ad ipotesi alternative dotate anch'esse di qualche ragionevolezza e concretezza, come quelle dell'insorgenza e dello sviluppo di processi morbosi tumorali per cause del tutto indipendenti dalla pur accertata insalubrità dell'ambiente lavorativo"17.

Altro problema, che é necessario risolvere prima di giungere ad un'affermazione di responsabilità penale, é costituito dall'accertamento del momento consumativo del delitto di lesione personale colposa consistente in una malattia professionale.

In dottrina ed in giurisprudenza si sono fronteggiate le due tesi opposte: secondo la prima il reato in questione rivestirebbe carattere permanente18, in base alla seconda esso avrebbe carattere istantaneo19. Entrambe le soluzioni presentano dei difetti. Negli anni é maturata in giurisprudenza un diverso orientamento che si é ormai consolidato: il delitto di lesioni personali colpose si consuma con il verificarsi della lesione, la malattia, senza che rilevi il successivo svilupparsi del danno. Tutto ciò presuppone che, a seguito del verificarsi dell'evento, non si sviluppi un'ulteriore condotta colposa dello stesso soggetto; qualora invece si verifichi una simile evenienza occorre stabilire se la nuova condotta abbia determinato un ulteriore evento, consistente ad esempio in un indebolimento permanente o in una malattia insanabile o persino nell'aggravamento di un indebolimento permanente già verificatosi prima della nuova condotta colposa; nel caso in cui la nuova condotta colposa produca un ulteriore evento si realizza un reato, che si consuma nel momento in cui l'ulteriore evento si verifica20.

E' infatti affermazione costante che per individuare il momento consumativo non basta accertare se e quando il lavoratore abbia subito una malattia, ma occorre verificare se e quando una eventuale ed ulteriore condotta colposa del datore di lavoro abbia determinato un aggravamento della malattia21. In relazione però all'individuazione della data di insorgenza o aggravamento della malattia mentre, in un primo tempo, veniva affermato da parte della giurisprudenza che in caso, ad esempio, di ipocausa da rumore il delitto di lesione personale colposa si consuma non del giorno degli esami, che per la prima volta forniscono la prova positiva dell'insorgenza o dell'aggravamento del danno acustico, ma nel giorno successivo agli eventuali, precedenti, esami che ancora non hanno dato tale prova22, nelle ultime sentenze emanate a partire dal 1991 si é affermato un indirizzo di segno opposto, favorevole a collocare la consumazione del reato in coincidenza della data del primo accertamento dell'insorgenza e/o dell'aggravamento del danno acustico23 24.

Entrambe i gruppi di sentenze citate concordano però su di un altro importante punto: nel reato di lesione personale colposa consistente in una malattia professionale sussiste il nesso causale tra quest'ultima e la nocività dell'ambiente di lavoro, allorché il danno, pur insorto prima del rapporto di lavoro, si sia aggravato nel corso dello stesso25. L'agente nocivo dunque rileva non solo come causa scatenante, ma anche come causa concorrente nell'aggravamento di una malattia già sviluppata, non importa se sia già manifestata o meno; dunque dal momento che un'esposizione continuata al fattore, ad esempio, cancerogeno, dopo l'innesco biologico della malattia contribuisce ad aggravarla, poiché attenua sensibilmente la possibilità di guarigione o di miglioramento, diventa punibile, oltre all'imprenditore che determina la nascita della malattia, anche l'eventuale altro imprenditore che cagioni l'aggravamento della stessa26.

4. LA LEGGE N°80 1898: IL PRIMO INTERVENTO IN MATERIA. L’ASSICURAZIONE OBBLIGATORIA CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO.

Fino alla fine del secolo scorso il problema della tutela dell'integrità psico-fisica dei lavoratori non veniva preso in considerazione nonostante i numerosi infortuni che nei decenni successivi alla rivoluzione industriale si erano verificati, in particolare nelle miniere e nelle fonderie. Ciò dipendeva dalla notevole differenza di "forza contrattuale" che contraddistingueva i datori di lavoro e i lavoratori in quel particolare momento storico1: gli imprenditori organizzavano in piena autonomia il processo produttivo senza prestare attenzione al problema della sicurezza.

Il modello tayloristico di organizzazione del lavoro prevedendo una struttura gerarchica piramidale con al vertice l'imprenditore comportava il completo asservimento dell'uomo alle esigenze produttive2: non si presta quindi attenzione al problema della prevenzione degli infortuni. E' solo nel 1883, anno in cui in Germania viene introdotta la prima assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, che si incomincia a prendere consapevolezza del fatto che il danno alla salute di chi lavora costituisce un problema di rilevanza pubblica3.

Successivamente anche in Italia la legge n°80 del 18984 introduce l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni5. In precedenza e cioè nella vigenza del codice civile del 1865 il diritto al risarcimento del danno da lavoro presupponeva la dimostrazione della colpa aquiliana del datore di lavoro6 da parte del lavoratore7; si trattava di una prova assai difficile, che il più delle volte comportava una vera e propria immunità dell'imprenditore.

L'assicurazione contro gli infortuni rappresentò il rimedio a questa situazione: "una soluzione equa e razionale non si ottiene altrimenti che abbandonando le norme inflessibili del diritto privato per far posto a criteri di equità sociale"8. Colui che, in quanto imprenditore, ha la massima autonomia e si appropria degli utili che derivano dall'attività dei lavoratori deve anche provvedere a rimuovere i danni che possono loro derivare: questa è la filosofia che porta all'adozione della l. n° 80/1898. L'imprenditore, che introduce nella società il rischio, che è insito nell'attività lavorativa, deve sopportarne le conseguenze negative che il lavoratore subisce9: egli diventava quindi "ipso facto et ipso iure", per il solo fatto di vestire tale qualifica, colpevole degli infortuni che si verificano all'interno della fabbrica10.

Viene abbandonato in questo modo il concetto di responsabilità fondato sulla colpa e si introduce un concetto di responsabilità oggettiva dell'imprenditore limitata alla copertura del premio assicurativo giustificato dal ricorso al concetto di rischio professionale11.

Questa scelta di campo a favore della logica della riparazione del danno se da un lato comporta un ristoro economico per il lavoratore infortunato contribuisce dall'altro al consolidarsi dell'ideologia della casualità ed imprevedibilità dell'infortunio sul lavoro, mettendo in ombra il concetto di responsabilità soggettiva dell'imprenditore non solo in ordine al risarcimento dei danni, ma anche riguardo alla predisposizione di condizioni di lavoro più sicure e ostacolando così la nascita di una cultura della prevenzione che ha invece bisogno che rimanga in primo piano il concetto di responsabilità soggettiva: il criterio di imputazione basato sulla colpa deve essere poi preferito a quello che si fonda sul dolo perché, come concorda la più autorevole dottrina12, permette da un lato di fondare la responsabilità in concreto, dall'altro di apprestare agli interessi tutelati l'ambito di tutela preventiva, prima che repressiva, più ampia possibile, compatibilmente coi principi costituzionali in materia13.

Prevale in questo periodo la logica della monetizzazione del rischio, che appare agli inizi del secolo una conquista: risolveva infatti il problema dell'onere probatorio e garantiva contro il rischio di insolvibilità del datore di lavoro. "Vengono affrontati costi per risarcire non per prevenire"14: il ristoro economico ha comunque carattere forfettario inferiore al danno effettivamente patito15.

Il rischio professionale in questa prima fase corrisponde non al rischio da lavoro genericamente considerato, ma unicamente a quello a cui il lavoratore è esposto nell'esercizio di determinate attività pericolose in quanto tali16; con l'avvento della Costituzione17 e della nuova normativa in materia18 si ha invece l'abbandono del "principio del rischio professionale" e si afferma progressivamente, parallelamente al concetto di rischio ambientale19, "la nuova nozione di rischio professionale che non designa più una teoria ed una formula storica di giustificazione dell'assicurazione contro i danni inevitabili che subiscono i prestatori di lavoro pericoloso, assume invece un diverso significato, esprimendo la possibilità del verificarsi di un evento dannoso, qualificato dal suo essere professionale, causato cioè dall'attività lavorativa, ed al quale la legge fa conseguire la specifica tutela previdenziale20.

L'indennizzo ha ancora carattere forfettario, ma ora non preclude più al lavoratore la possibilità di ottenere secondo i criteri generali di diritto comune il pieno risarcimento del danno in caso di responsabilità del datore di lavoro: la tutela previdenziale non ha più oggi, infatti, una funzione indennitaria.

L'istituto dell'esonero da responsabilità civile21 viene dichiarato costituzionalmente legittimo, anche se parte della dottrina e della giurisprudenza propendevano per la sua soppressione22; nella sostanza è stato però ridotto ai minimi termini, cioè alle fattispecie di minore gravità, nelle quali secondo il diritto comune non può essere affermata la responsabilità23.

Fuoriescono infatti dall'ambito assicurativo, concretizzando un indebito aggravamento del rischio, tutti quei comportamenti imputabili a violazione del dovere di svolgere l'attività imprenditoriale nel rispetto delle norme di sicurezza24.

5. GLI ARTICOLI 437 E 451 DEL CODICE PENALE

Una prima innovazione nel campo della sicurezza sul lavoro si ha con l'emanazione del nuovo codice penale1: con gli articoli 437 (rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro)2 e 451 (omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro)3 l'attività di prevenzione acquista un'autonomia concettuale: infatti l'attenzione del legislatore è rivolta ora direttamente al bene della sicurezza sul lavoro e alla sua tutela.

La previsione di questi due delitti sono state inserite come nuove fattispecie penali nel Codice Rocco: la ragione di queste nuove incriminazioni risiede nella volontà di garantire una forte ed efficace tutela alla sicurezza del lavoro, integrando il sistema normativo precedente che si fondava sul Codice Zanardelli e sul r.d. n°51 19044.

Ciò che viene punito è la condotta commissiva od omissiva5 tenuta, che ha dato origine ad una situazione di pericolo6: le norme non prevedono alcun evento naturalistico come elemento essenziale del reato, si tratta quindi di reati di pura condotta commissiva od omissiva; il verificarsi di un infortunio o di un disastro sul lavoro costituisce mera circostanza aggravante dei delitti in questione.

Si tratta di reati di pericolo presunto7: l'attitudine del comportamento omissivo o commissivo a costituire una situazione di pericolo non deve essere dimostrata caso per caso, poiché questa valutazione è stata già effettuata dal legislatore sulla base dell'esperienza e di un giudizio di probabilità e di possibilità già compiuti in relazione alle conseguenze che in genere derivano dall'omissione di determinate cautele e dalla rimozione di particolari dispositivi8.

L'art.437 c.p. vuole evitare l'infortunio sul lavoro9, si tratta quindi di una prevenzione di primo grado; l'art.451 invece punisce condotte che possono aggravare un infortunio che si è già verificato: si può dunque parlare di una prevenzione di secondo grado10: vengono comunque contemplate anche in questo secondo caso condotte che incidono sulla sicurezza del lavoro e quindi anche questa seconda norma rientra nella materia in esame.

Per individuare in modo corretto il soggetto attivo dei reati in questione11 non bisogna limitarsi al dato letterale: infatti, nonostante la locuzione generica "chiunque" utilizzata nelle due norme, la dottrina concorda nel considerare le condotte di rimozione e danneggiamento, siano esse dolose o colpose, reato comune, mentre ritiene che in presenza di un'omissione di cautele antinfortunistiche si debba parlare di reato proprio in quanto l'omissione postulando il riferimento ad un obbligo giuridico può essere commessa solo dal destinatario di esso12.

Infatti il concetto di omissione implica l'esistenza di un obbligo di attivarsi e poiché questo non riguarda indistintamente tutti, ma solo coloro in capo ai quali viene posto dalla legge, il reato omissivo può essere imputato solo a questi; secondo parte autorevole della dottrina oltre al datore di lavoro ed in concorso con lui anche il venditore, il costruttore o il noleggiatore possono essere soggetti attivi sia nella fattispecie commissiva che omissiva13.

6. LE DISPOSIZIONI COSTITUZIONALI E LA NORMATIVA CODICISTICA

Con la promulgazione della Costituzione repubblicana del 19481 si compie una svolta in materia di sicurezza e igiene del lavoro: infatti dalla lettura degli articoli 32 e 412 emerge chiaramente il riconoscimento della tutela della salute, considerata, da un lato, come diritto fondamentale dell'individuo ed interesse della collettività e, dall'altro, come limite all'esercizio dell'attività economica privata; tali principi costituzionali trovano poi puntuale applicazione in sede di legislazione ordinaria sia codicistica che speciale3.

Il codice civile contiene una norma, l'art. 2087 c.c.4, che, pur antecedente alla Carta Costituzionale, ne costituisce uno strumento attuativo, poiché fa confluire nella disciplina del rapporto di lavoro i principi costituzionali in materia di tutela della persona umana ed in particolare di salvaguardia della salute dei lavoratori5: la sua introduzione può essere considerata un passo decisivo verso il pieno ed effettivo riconoscimento del diritto alla salute nei luoghi di lavoro.

La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell'attribuire carattere assoluto al diritto del lavoratore alla sua integrità fisica, ponendo la norma in esame in stretta connessione con i citati articoli della Costituzione6.

L'art.2087 c.c. é sicuramente la norma chiave in materia di tutela delle condizioni di lavoro7, poiché con essa si gettano le basi di un nuovo modo di concepire la prevenzione: ne viene ribadita l'autonomia concettuale rispetto alle finalità assicurative8 e l'obbligo di sicurezza in essa contenuto viene attratto nell'orbita contrattuale .

Ciò segna una svolta rispetto al passato: la giurisprudenza e la dottrina dominanti inquadravano infatti il rapporto di lavoro nella categoria di origine romanistica della locazione d'opera9 come mero scambio tra lavoro e mercede e di conseguenza qualificavano come extra-contrattuale la responsabilità dell'imprenditore10.

Sull'articolo in esame si è aperto, subito dopo la sua introduzione nell'ordinamento, un dibattito interno alla dottrina in ordine alla qualificazione della posizione soggettiva che il lavoratore poteva vantare nei confronti del datore di lavoro: la dottrina prevalente riconosce in capo al lavoratore il diritto soggettivo a svolgere la sua prestazione in un ambiente sicuro che non leda il suo diritto, dotato di rilievo costituzionale, alla salute11; ma non sono mancate interpretazioni volte ad attribuirgli una situazione di vantaggio classificabile come interesse legittimo in quanto connessa con un preminente interesse pubblico12.

La tesi dominante non nega che la materia in esame si inserisca in un contesto pubblicistico, vista la rilevanza anche extra-contrattuale del bene-salute, ma l'esistenza di un rapporto tra Stato e datore di lavoro, l'obbligo, cioé, gravante su quest'ultimo e sanzionato penalmente consistente nel rispettare la normativa in materia di sicurezza adottando le cautele antinfortunistiche necessarie non esclude che si possa instaurare anche un rapporto diretto tra datore di lavoro e lavoratore e che quindi quest'ultimo possa vantare un diritto soggettivo13 all'osservanza delle norme sulla sicurezza14, a fronte del quale sussiste a carico dell'imprenditore15 un dovere generale di sicurezza.

L'art.2087 c.c. contempla "un facere" il cui oggetto non è predeterminato, l’obbligo di sicurezza il cui assolvimento implica un intervento costante del datore di lavoro; si tratta quindi di un’obbligazione di risultato a contenuto aperto16: costituisce così la "norma di chiusura del sistema antinfortunistico"17 che ha il pregio di poter colmare le inevitabili lacune di una normativa che non è in grado di prevedere tutti i possibili fattori di rischio e di preservare le misure di sicurezza dall'obsolescenza, prevedendone un aggiornamento automatico, detto anche perenne, di pari passo con l'innovazione tecnologica18.

Il datore di lavoro é tenuto dunque non solo ad applicare le norme contenute nelle leggi vigenti in materia, ma anche a predisporre e far rispettare le ulteriori misure che si rivelino necessarie per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro prendendo in considerazione tre parametri, la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica19.

Un punto dell'art.2087 c.c. che ha suscitato le critiche di parte della dottrina, accolte recentemente dalla Corte Costituzionale, riguarda l'esatta determinazione del significato dell'espressione "fare tutto il possibile per prevenire il danno", che la giurisprudenza, prendendo spunto dal dato letterale di alcune norme non sempre facilmente intelligibili, tra cui la norma in esame, utilizza per affermare la responsabilità in caso di infortunio.

La dottrina è divisa tra chi concordando con l'indirizzo giurisprudenziale prevalente20 propende per una interpretazione rigorosa e chi21 considera "barbarie del diritto" obbligare l'imprenditore a dimostrare per andare esente da responsabilità civile e penale di aver fatto tutto ciò che era possibile per evitare l'evento dannoso.

Questa seconda posizione è stata accolta dalla Corte Costituzionale, dalla cui sentenza n° 312/1996 si può dedurre un principio valido per tutta la materia prevenzionistica.

La tecnica utilizzata dal legislatore consistente nel riferimento alle "misure concretamente attuabili" deve rispettare l'indefettibile principio costituzionale di necessaria determinatezza delle previsioni della legge penale.

La soluzione indicata è quella di fornire in sede applicativa una lettura tale da limitare in maniera considerevole la discrezionalità dell'interprete, cioè "restringere in un'interpretazione costituzionalmente vincolata le potenzialità della disposizione", ritenendo che "il legislatore si riferisce alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate ed ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standards di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive": viene così esclusa la costituzionalità di una norma penale che assegni all'impresa il compito di realizzare innovazioni finalizzate esclusivamente alla sicurezza22.

L'imprenditore rimane comunque il garante dell'integrità fisica del lavoratore secondo il modello di "buon imprenditore", che implica una diligenza qualificata23: non può essere quindi accolta la posizione di chi sostiene che l'art.2087 c.c. non avrebbe carattere innovativo, limitandosi a specificare obblighi già ricavabili dall'ordinaria disciplina del contratto24.

Nell'art.2087 c.c. viene accolta una concezione del vertice decisionale e dei processi decisori diversa da quella che contraddistingue il d.p.r. n°547/55 ed il d.lgs. n°626/94: l'attività di valutazione e programmazione è di competenza di un soggetto isolato, posto al vertice dell'azienda; non vengono infatti presi in considerazione i rapporti dialettici che precedono le decisioni in materia di sicurezza del lavoro, diversamente da ciò che è previsto nei più recenti interventi legislativi25.

Un ulteriore interrogativo si pone all'attenzione degli interpreti: esso riguarda la rilevanza da attribuire all'articolo in esame nell'ordinamento penale; la dottrina è concorde nel considerare l'inottemperanza al disposto di questo articolo violazione di legge, integrante gli estremi della colpa ex art.43 c.p.26.

Infatti si sostiene, anche in giurisprudenza, che la locuzione "norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro" che ritroviamo nell'art. 590 c.p. vada intesa come comprensiva non solo di quelle specificatamente dirette a tal fine, ma di ogni altra che in genere tende a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui deve svolgersi27.

Quindi, pur non essendo l'art.2087 c.c. sorretto da autonoma sanzione penale, gli si attribuisce rilevanza penale in quanto ogni comportamento ad esso contrario concorre ad integrare i reati di omicidio e lesioni ex art.589 e 590 c.p.

Se si confronta il sistema italiano con quello degli altri paesi europei (Germania, Spagna, Inghilterra e Francia ad esempio) si può notare come il nostro ordinamento giuridico sia stato il primo a prevedere in modo espresso a carico dell'imprenditore un obbligo positivo a contenuto aperto28.

Su questo quadro ha però inciso la direttiva CE(E) del 12/6/1989 n°391 che all'art.6 prevede che il datore di lavoro sia chiamato ad aggiornare costantemente le misure prevenzionali per tener conto dei mutamenti delle circostanze e dell'evoluzione della tecnica: questo comporterà nei prossimi anni l’introduzione nei vari Stati membri di un’obbligazione flessibile simile a quella che è presente nel nostro ordinamento .

Bisogna però sottolineare che pur essendo la formulazione dell'art.2087 c.c. tale da assicurare in linea teorica l'obiettivo della "massima sicurezza tecnologicamente possibile" sul piano concreto ha fallito il suo scopo, quello cioè di adattamento automatico della legislazione vigente ai mutamenti tecnologici: infatti la norma è stata utilizzata per alcuni decenni non in sintonia con le finalità protettive e prevenzionali ad essa sottesa; non é stata infatti considerata dal datore di lavoro come punto di riferimento da tener presente per assicurare un adeguato livello di sicurezza nella sua azienda. La norma in esame non viene intesa, come invece sarebbe dovuto accadere, come uno stimolo per un'opera di costante ricerca di un miglioramento delle condizioni di sicurezza, in cui viene svolta la prestazione lavorativa. Il datore di lavoro preferisce quindi correre il rischio che si possa verificare un infortunio e dover quindi risarcire il danno subito dal lavoratore, considerando tutto ciò come facente parte del "rischio d'impresa", una perdita quindi equiparabile a quelle che vengono inserite nelle varie voci del passivo del bilancio aziendale: l'infortunio costituisce un rischio che l'imprenditore ha già messo, per così dire, in conto.

Egli preferisce dunque correre il rischio di dover pagare una somma di denaro nel caso in cui il lavoratore si infortuni a causa della mancata predisposizione delle cautele antinfortunistiche che la particolarità del lavoro, l'esperienza e lo sviluppo tecnologico suggerivano invece di adottare29.

L'obiettivo della prevenzione è stato così relegato in secondo piano a causa di una serie di cause: la difficoltà di ipotizzare un'esecuzione in forma specifica dell'obbligo violato, la strategia del sindacato che privilegia la "logica della monetizzazione del rischio"30, la situazione di debolezza del lavoratore licenziabile, fino al 1966, ad nutum; la possibilità poi di risolvere il contratto, unico strumento di tutela del lavoratore, produceva effetti paradossali: egli infatti perdeva così la sua fonte di sostentamento economico.

Solo alla fine degli anni '60 si ricominciò a parlare di prevenzione nell'ambito del più ampio movimento di riforma, fondato sul rilancio dei valori sanciti nella Costituzione e di critica del sistema capitalistico di organizzazione del lavoro31.

In conclusione, l'art.2087 c.c. ha costituito e costituisce tutt'ora32 la norma di chiusura dell'intero sistema normativo riguardante la sicurezza sul lavoro, una norma-principio dunque a cui l'interpretazione giurisprudenziale ha, di volta in volta, ricondotto i molteplici obblighi che gravano sul datore di lavoro33.

 

7. I DECRETI EMANATI NEGLI ANNI '50

A partire dalla metà degli anni '50 si può notare una notevole produzione normativa in materia di sicurezza ed igiene del lavoro: infatti il governo, in base alla legge delega del 12 febbraio 1955 n°51, fu autorizzato ad emanare norme generali e speciali .

L'apparato prevenzionistico viene dunque arricchito da tre decreti a contenuto generale:

- il d.p.r. 27 aprile 1955 n° 547, recante norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro;

- il d.p.r. 19 marzo 1956 n° 302, contenente norme integrative di quelle emanate con il precedente decreto;

- il d.p.r. 19 marzo 1956 n° 303 , in cui vengono dettate le norme generali per l'igiene del lavoro.

Altre norme relative a specifiche attività lavorative sono contenute in numerosi decreti emanati a partire dal 19561.

Questo corpus normativo, derivante da una stratificazione che abbraccia quasi un decennio, costituisce un importante momento di transizione nel tipo di approccio giuridico con l'infortunio verificatosi nei luoghi di lavoro.

In precedenza l'unica forma di tutela rispetto ad esso, considerato un evento ineluttabile e connaturato al processo produttivo, era rappresentato dal "ristoro economico" del danno subito: lo strumento adottato era dunque assicurativo; si passa ora dalla tutela contro il rischio professionale alla presa di coscienza dell'evitabilità dell'infortunio e della malattia professionale2.

A partire dagli anni '30 gli studi di Mayo3 misero in crisi la concezione tayloristica del lavoro, fino ad allora dominante, improntata alla massimizzazione del profitto.

Le ricadute del nuovo approccio sui problemi della sicurezza e della salute furono notevoli: si ebbe il passaggio da un concetto di infortunio inteso come evento individuale a quello di infortunio inteso quale problema sociale, dunque riguardante non più solo il singolo individuo, ma anche il gruppo di lavoro, l'azienda e l'intera società4. Dalla dottrina vengono però messi in luce i limiti di questo primo attacco alle vecchie certezze in materia: affiorava dunque la necessità di affrontare questi problemi abbracciando una teoria diversa da quella delle "relazioni umane", prediligendo un approccio globale in cui l'attenzione non venisse più riposta sul singolo lavoratore, ma sul rapporto tra l'individuo e l'ambiente in cui è inserito: sull'onda di questa sensibilità nasce negli anni '40 una nuova disciplina, l'ergonomia5.

Le nuove acquisizioni vengono però utilizzate solo come strumento di ottimizzazione dell'utilizzo della forza lavoro: le conseguenze di questa impostazione non sono positive; infatti le condizioni si aggravano perché se da un lato si ha una diminuzione dello sforzo fisico grazie anche alle nuove tecnologie, dall'altro aumentano i disagi connessi alla ripetitività delle mansioni ed agli alti ritmi esecutivi imposti.

La situazione nelle fabbriche negli anni '50 e '60 non era quindi soddisfacente: su questo quadro hanno inciso in modo notevole i decreti degli anni '55 e '56 in cui si possono distinguere obblighi positivi (o comandi) ed obblighi negativi (o divieti)6. Si distinguono quindi obblighi propri di sicurezza (il divieto di utilizzo di impianti pericolosi e quelli relativi all'assetto dei luoghi di lavoro, all'adozione di strumenti protettivi o di attrezzature di soccorso), obblighi di vigilanza e controllo7, infine obblighi di informazione e istruzione nonché di scelta delle maestranze. I decreti in esame segnano da un lato una specificazione dell'obbligo generale di sicurezza ex art.2087 c.c. e irrigidiscono i canoni di diligenza nell'adempimento dell’obbligazione di sicurezza8 e dall'altro svolgono un'importante funzione integrativa degli articoli 437 e 451 c.p.: infatti queste due norme sanzionano penalmente condotte commissive ed omissive, in cui però non si é provveduto ad individuare in modo puntuale i destinatari delle prescrizioni di legge; solo grazie ad una lettura congiunta dei decreti degli anni '50 e delle norme del codice penale é possibile interpretare in modo corretto l'espressione "chiunque" contenuta negli articoli n°437 e 451 c.p.9.

Infatti le varie fattispecie penali contenute nei vari decreti in materia di sicurezza sul lavoro vengono ricondotti nella categoria dei reati propri di pericolo astratto10, i cui precetti quindi hanno come destinatari soggetti individuati direttamente dalla legge; la ratio della previsione di tale tipologia di reati risiede nell'attribuzione da parte del legislatore a determinati soggetti di posizioni di garanzia dell'integrità psico-fisica dei lavoratori11.

Tre sono le principali categorie di soggetti destinatari degli obblighi di prevenzione: il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti il cui ambito di responsabilità è stabilito dalle "rispettive attribuzioni e competenze"12; inoltre in alcune norme sono contemplati i costruttori, i venditori, i noleggiatori, i concedenti in uso delle attrezzature destinate ad essere utilizzate durante il processo produttivo ed i lavoratori13.

La dottrina14 e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il legislatore abbia fatto riferimento, nell'individuare i soggetti responsabili, alle funzioni dagli stessi esercitate: secondo il principio di effettività la mera qualifica formale, qualora non sia accompagnata dalla titolarità di poteri sufficienti ad attuare le misure prescritte e a garantirne l'osservanza, non é sufficiente per radicare la responsabilità penale in capo ad uno dei vari soggetti garanti della sicurezza sul lavoro15.

I d.p.r. n°547/55, n°302 e 303/56 accolgono un concetto di prevenzione tendenzialmente oggettiva, definita anche tecnologica; infatti privilegiano un tipo di intervento indirizzato a migliorare le condizioni oggettive di svolgimento dell'attività lavorativa: il datore di lavoro, principale, ma non unico garante della sicurezza, deve realizzare un ambiente di lavoro obiettivamente sicuro, mediante l'adozione di accorgimenti tecnici16, che assicurino la sicurezza strutturale di impianti ed edifici, idonei a prevenire anche l'eventuale imprudenza, negligenza o imperizia del lavoratore17.

Le misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro impongono dunque determinate cautele in funzione del luogo di lavoro, ad esempio del cantiere, nel suo complesso e non delle specifiche mansioni di ogni singolo lavoratore: rientra infatti nel "id quod plerunque accidit" che i lavoratori, ad esempio anche solo per imprudenza o negligenza, si muovano nell’ambito di esso occasionalmente al di fuori del posto loro assegnato; pertanto l’attuazione delle misure antinfortunistiche riguarda ogni luogo in cui i lavoratori possano transitare, non solo per svolgere le diverse mansioni loro affidate, ma anche al di fuori dell’adempimento delle incombenze lavorative18.

Uno spazio residuale viene poi lasciato alle cautele, cioè obblighi di fare o non fare rivolti ai garanti della sicurezza e agli stessi lavoratori, consistenti in comportamenti informati a criteri di prudenza19.

Queste misure devono essere considerate tassative, non possono cioè essere sostituite da altre ed i costi per realizzarle od il contrasto con le esigenze produttive non rappresentano un valido motivo per non adottarle20; la giurisprudenza é stata ed é estremamente rigorosa nell’applicazione delle norme prevenzionistiche, delle quali afferma appunto la "tassatività", senza alcuno spazio per valutazioni di opportunità, in ordine alla sostituzione con misure ritenute più convenienti. Ove l’adozione di cautele efficaci siano incompatibili con il funzionamento o l’impiego in determinate lavorazioni di una macchina ne consegue il divieto assoluto di utilizzare la macchina o di adibirla a quei compiti21: l’impossibilità di predisporre una misura antinfortunistica non assume quindi mai carattere esimente22.

La specifica legislazione antinfortunistica introdotta con i citati decreti presenta delle carenze che si possono individuare nella mancanza di flessibilità di gran parte delle norme, le quali contengono misure tecniche rigide e particolareggiate non in grado di regolare convenientemente i nuovi processi produttivi e lavorativi, che vengono introdotti di pari passo con lo sviluppo tecnologico e nell'indeterminatezza di alcune disposizioni che fanno riferimento a parametri, quali la sufficienza, l'idoneità e la riduzione al minimo, non facilmente individuabili e comunque applicabili con ampi margini di discrezionalità23.

L'altro limite che contraddistingue la normativa in esame è rappresentato dal tipo di concezione del rischio e del danno alla salute: non viene posta in luce l'azione nociva autonoma dell'organizzazione del lavoro ed i diversi fattori di pericolo vengono presi in considerazione quanto alla loro potenzialità di danno da un punto statico, in modo isolato gli uni dagli altri. Invece la dottrina più attenta mette in rilievo che l'azione sinergica in uno stesso ambiente di lavoro di diversi fattori di pericolo e l'inserimento di ciascuno di questi in una determinata organizzazione del lavoro (ritmi, orario e carichi di lavoro ) producono un aumento di pericolosità di ognuno di essi e quindi una loro maggiore potenzialità di danno24.

Se a questa situazione si aggiunge il fatto che l'imprenditore determinava le necessarie misure antinfortunistiche senza coinvolgere i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali25 non si può che concordare con la valutazione non del tutto positiva che la dottrina dominante ha dato dei vari decreti emanati negli anni '50, che sono rimasti fino al recente d.lgs.n°626/94 sostanzialmente l'unica fonte in materia di sicurezza sul lavoro: era opinione comune che il sistema così delineato non offrisse al prestatore di lavoro idonee garanzie26.

 

8. GLI INTERVENTI DEGLI ANNI '70

8.1 LA LEGGE 20 MAGGIO 1970 n°300 - LO STATUTO DEI LAVORATORI

Le critiche che la più attenta dottrina aveva mosso ai decreti degli anni cinquanta trovano sostegno e concretizzazione, a partire dalla fine degli anni ‘60, nel movimento sindacale.

L'azione del sindacato per alcuni decenni è stata condizionata da fattori per così dire strutturali: la situazione economica ed il "ritardo culturale" che contraddistingueva i vertici sindacali1; infatti i rappresentanti dei lavoratori nel timore di mettere in pericolo i posti di lavoro erano propensi a seguire una politica di monetizzazione del rischio (facendo inserire nei contratti clausole che prevedevano speciali indennità proporzionate alla nocività dell'ambiente di lavoro) e di salario indiretto (consistente nella previsione di riposi compensativi e pause).

Solo in coincidenza con i rinnovi contrattuali del 1969-1970 (il cosiddetto autunno caldo) si ha un nuovo approccio ai problemi della sicurezza e della tutela della salute, favorito dalla contemporanea convergenza di alcuni fattori positivi, quali i mutamenti a livello politico ed economico, il maggiore peso acquisito dal sindacato, l'opera di vigilanza e repressione sempre più pressante svolta dagli organi statali di controllo e della magistratura2.

Il nuovo modello si basa sul rifiuto della monetizzazione, sulla non accettazione della presunta immutabilità dell'organizzazione del lavoro, su una maggiore considerazione dei valori costituzionali che possono essere efficacemente perseguiti grazie ad un'azione sinergica del legislatore, degli apparati amministrativi (Ispettorato del lavoro) e organi giudiziari3.

Viene accolta una nuova metodologia di analisi dei fattori di rischio e di danno alla salute: il campo di indagine ora non comprende più solo i fattori ambientali (gas, polveri, microclima); viene infatti studiata l'incidenza della fatica fisica e nervosa nella dinamica causale dell'eventuale infortunio sul lavoro4.

Si fa strada anche una nuova teoria del rischio ambientale: agli interventi pubblici ed agli obblighi di prevenzione incentrati sui singoli fattori di rischio5 e nocività si affianca una più complessa e programmata attività di prevenzione diretta a controllare nel suo complesso il processo produttivo e l'ambiente di lavoro; viene dedicata particolare attenzione al fattore-organizzazione del lavoro quale autonomo fattore di pericolo6. La battaglia del sindacato viene combattuta quindi su più fronti: l'ambiente di lavoro, i ritmi di lavorazione, l'abolizione del cottimo, diminuzione della ripetitività dei compiti svolti.

Questa nuova filosofia viene recepita a livello legislativo dalla legge n°300/19707 e poi sviluppata dalla riforma sanitaria del 1978: la svolta è sicuramente radicale8. Tutto questo costituiva infatti un notevole salto di qualità rispetto al passato, ma non forniva, secondo una parte della dottrina, i presupposti per un vero e proprio cambiamento verso un approccio globale alla problematica della prevenzione: se l'imprenditore viene spinto ad operare in tal senso per la presenza di forti pressioni ambientali e non per un reale condivisione di impostazione del problema le conseguenze in materia non possono essere soddisfacenti9.

L'art. 9 St.lav.10 ha comunque rafforzato il diritto alla salute11 che sino al quel momento si configurava come diritto individuale del singolo lavoratore ex art.2087 c.c., attribuendogli anche una dimensione collettiva12: la salute è infatti un diritto dell'individuo ed interesse della collettività (così lo definisce la Costituzione nell'art.32); in particolare si tratta di un interesse comune di quei lavoratori che fanno parte della stessa "comunità di rischio", soggetti, cioè, agli stessi pericoli provocati dallo stesso ambiente di lavoro.

Viene in questo modo assicurata l'effettività della pretesa dei lavoratori alla sicurezza, mediante l'attribuzione ai loro rappresentanti del potere di controllo e promozione rispetto all'adozione delle misure prevenzionistiche13.

L'espressione utilizzata dal legislatore nell'art. 9 St.lav. per identificare i soggetti a cui é attribuita la legittimazione ad esercitare i diritti di controllo e la possibilità di svolgere l'attività promozionale in materia di sicurezza sul lavoro é ambigua: infatti la legge attribuisce questi diritti ai lavoratori, i quali però devono esercitarli mediante loro rappresentanze; non sono quindi essi stessi titolari "uti singuli". Questo sembra essere l'unico punto su cui non vi é contrasto in dottrina: i maggiori problemi interpretativi nascono invece in ordine all'esatta individuazione della nozione di "rappresentanti dei lavoratori": la dottrina si é infatti divisa tra chi tende ad identificarli con le rappresentanze sindacali aziendali o, in loro mancanza, con la Commissione interna di cui all'Accordo interconfederale del 196614 e chi preferisce leggere nell'articolo in esame un richiamo ad un istituendo "comitato specifico", composto da membri anche esterni, non cioè dipendenti dell'azienda, forniti di adeguata competenza tecnica e scientifica15.

Altra questione di difficile interpretazione riguarda l'esatta individuazione dell'oggetto del controllo, a causa della presenza dell'Ispettorato del lavoro, anch'esso con funzioni ispettive e di controllo: la dottrina prevalente attribuisce all'espressione "norme per la prevenzione degli infortuni e malattie professionali" un significato onnicomprensivo, comprendente quindi sia le disposizioni di legge che eventuali clausole dei contratti collettivi16.

Per quanto riguarda la seconda parte dell'art. 9 St.lav. il legislatore, partendo dal presupposto che i lavoratori possono più agevolmente di ogni altro soggetto, compreso il datore di lavoro, individuare le situazioni di rischio e nocività presenti nell'ambiente di lavoro, ha voluto garantire l'attiva partecipazione dei lavoratori alla ricerca e all'attuazione delle misure antinfortunistiche, che l'art.2087 c.c. impone all'imprenditore di adottare17.

Vengono, quindi, gettate le basi per una partecipazioni attiva dei lavoratori al processo di tutela della propria salute. In precedenza era prevalso più o meno consapevolmente nei lavoratori un sentimento di indifferenza e rassegnazione che si estrinsecava in un pernicioso atteggiamento di passiva accettazione dello "status quo"18: da questa situazione poteva derivare, nelle migliori delle ipotesi, uno spirito conflittuale e rivendicativo che si esauriva in una richiesta di indennità in caso di lavori nocivi e pericolosi.

Ora viene compiuto un tentativo per superare quest'ottica sostanzialmente rinunciataria, che ha impedito che si diffondesse una cultura della prevenzione. In più occasioni la Corte di Cassazione ha sottolineato che i lavoratori sono ora considerati dal legislatore soggetti attivi in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro; il ruolo delle organizzazioni sindacali diventa "partecipativa"19: per tutelare il diritto alla salute, che possiede anche una dimensione collettiva, è necessario il coinvolgimento di tutte le parti sociali.

Le potenzialità racchiuse nell'art. 9 St.lav. non sono state pienamente utilizzate a causa di una serie di circostanze di carattere politico e sociale: le rappresentanze previste dall'articolo in esame sono state assorbite20, non rispettando così l'intenzione del legislatore, in quelle di cui all' art.19 St.lav., le R.s.a. (rappresentanze sindacali aziendali), frustrando in questo modo le speranze che erano state riposte in strumenti esterni all'azienda21: la conseguenza di questa interpretazione è la trasformazione del potere unilaterale propositivo e di controllo in tema di prevenzione in un potere di natura contrattuale.

Il progetto sotteso allo Statuto dei lavoratori, consistente in una partecipazione diretta dei lavoratori alla realizzazione di un ambiente di lavoro sicuro, era sicuramente ambizioso e necessitava di grandi sforzi da parte di tutte le parti interessate per poterlo attuare; anche se non è stato pienamente realizzato bisogna sottolinearne l'importante valenza politica: è stato comunque compiuto un passo avanti sulla strada che porta alla piena tutela della salute nei luoghi di lavoro22. Comunque alla domanda se la tutela del lavoratore così apprestata sia soddisfacente non si può che dare una risposta, almeno in parte, negativa23.

8.2. LA LEGGE 23 DICEMBRE 1978 N° 833: LA RIFORMA SANITARIA.

A distanza di qualche anno è stato compiuto con la legge n°833/1978 un ulteriore tentativo di risistemazione di tutta la materia: questa provvedimento ha inserito tra gli obiettivi principali della legge di riforma sanitaria la sicurezza del lavoro1; infatti si è ormai convinti che nell'ambito della sicurezza del lavoro oggetto di tutela sono interessi di cui è portatore non soltanto il singolo lavoratore, ma qualsiasi persona.

La nuova legge contiene da un lato una conferma ed uno sviluppo di principi che già avevano destato l'attenzione di gran parte della dottrina e del movimento sindacale, dall'altro l'introduzione di novità nel modo di concepire la tutela della salute nei luoghi di lavoro: si conferma il definitivo abbandono della logica della "monetizzazione del rischio" e viene considerato come obbiettivo l'abbattimento non solo delle cause di rischio e di nocività specifiche dell'ambiente di lavoro, ma anche quelle determinate dagli ambienti di vita in generale2.

Il principale elemento di novità3 è rappresentato infatti dal considerare in modo unitario la tutela della salute nei luoghi di lavoro e la salvaguardia dell'ambiente circostante4.

Vengono di conseguenza trasferite al Servizio sanitario nazionale le funzioni di tutela della salute del lavoratore prima demandate all'Ispettorato del lavoro: le UuSsLl sono quindi diventate l'organo competente in materia5.

Questo ha provocato però "una sanitarizzazione della materia antinfortunistica" e quindi un pregiudizio al ruolo squisitamente tecnico che dovrebbe distinguere l'organo di controllo in materia di sicurezza del lavoro: infatti come mette in evidenza quella parte della dottrina che critica questo punto della nuova legge, non possono non essere sottolineate le differenze che contraddistinguono la tutela della "sicurezza civile" da quella della "sicurezza sul lavoro"6.

Dal momento che la sicurezza del lavoro ha una sua specificità e suscita problematiche ad essa peculiari desta perplessità la scelta del legislatore di inserire nell'ambito del Servizio Sanitario Nazionale, deputato alla tutela della salute della generalità dei consociati, il controllo sull'applicazione della normativa antinfortunistica7.

Degno di nota é il fatto che ora contribuiscono all'elaborazione e all'attuazione delle misure antinfortunistiche non solo i tradizionali soggetti, datori di lavoro e rappresentanze sindacali8, ma anche organi pubblici di vigilanza, le UuSsLl appunto9: si é discusso in dottrina se a questi ultimi venga trasferito il potere di adottare prescrizioni e ordini, dal momento che il 4° comma dell'art.21 prende in esame solo la facoltà di diffida. La dottrina prevalente risponde positivamente a questo quesito, tenendo conto dell'ultimo comma dell'art.20, in base quindi a considerazioni di ordine sistematico: qui sono previsti interventi delle UuSsLl per l'introduzione di nuove misure in materia di salubrità dell'ambiente dell'ambiente, non previste da specifiche norme di legge; in sostanza si utilizza un'espressione non precisa dal punto di vista tecnico-giuridico per indicare lo stesso potere tradizionalmente ritenuto di compentenza dell'Ispettorato del lavoro. La nuova autorità, alla quale viene assicurato un certo grado di discrezionalità nelle scelte operative, deve, in definitiva, adoperarsi per assicurare con provvedimenti di vario tipo l'effettiva applicazione della normativa esistente, secondo quanto la tecnica di volta in volta consente10.

Questi interventi di prevenzione all'interno dell'ambiente di lavoro, concernenti la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di misure di prevenzione necessarie ed idonee a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori, connesse alla particolarità del lavoro e non previste da specifiche norme di legge, sono effettuati sulla base delle esigenze verificate congiuntamente con le rappresentanze sindacali aziendali ed il datore di lavoro, secondo le modalità previste dai contratti collettivi applicabili nell'unità produttiva: l'UuSsLl può dunque prendere una decisione in materia solo a conclusione di un una specie di procedimento preparatorio-istruttorio che deve svilupparsi, al fine di constatare le specifiche caratteristiche dell'ambiente e le puntuali esigenze che ne derivano, in contraddittorio con le parti sociali; in particolare dovranno essere consultate, come dice espressamente la norma, le r.s.a., cioè "le rappresentanze istituzionali" dei lavoratori all'interno dell'azienda, che sostituiscono "le rappresentanze tendenzialmente aperte" (ne potevano far parte anche tecnici ed esperti non lavoratori dell'impresa) a cui l'art.9 St.lav. conferiva il diritto dal contenuto simile "... di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione delle misure idonee a tutelare la salute dei lavoratori"11.

Quest'ulteriore possibilità che è stata offerta ai lavoratori per far sentire la loro voce in materia di salute e sicurezza sul lavoro non viene però pienamente sfruttata: a causa del mutato clima sociale e della crisi economica che colpisce l'Italia tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 l'attenzione dei sindacati si concentra su altri punti ritenuti maggiormente cruciali: il costo del lavoro, la conservazione dell'attuale livello occupazionale.

Un altro fattore, che ha impedito che l'ambiziosa e difficile riforma sottesa alla legge n°833/1978 si realizzasse è costituito dalla mancata attuazione della delega, contenuta nell'art.24, che era stata conferita al governo per riordinare l'intera disciplina normativa: un testo unico in materia, rispettoso delle direttive contenute nella legge, avrebbe sicuramente contribuito a realizzare una tutela del bene-salute maggiormente efficace12.

CAPITOLO II

LA NUOVA NORMATIVA IN MATERIA DI PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI E MALATTIE PROFESSIONALI

 1. IL QUADRO DELLA DISCIPLINA COMUNITARIA IN MATERIA ANTINFORTUNISTICA

L'azione comunitaria in materia di tutela dell'ambiente di lavoro intesa in senso ampio come comprensiva di tutti gli interventi direttamente e indirettamente connessi alla salute, alla sicurezza e al benessere psicofisico del lavoratore1 ha radici assai lontane e si é sviluppata, nell'arco degli ultimi decenni, con l'ausilio di strumenti diversi (non solo direttive, ma anche raccomandazioni e decisioni)2.

La prima direttiva comunitaria in materia risale al 1959: si tratta della direttiva n°221, contenente norme relative alla protezione sanitaria della popolazione e dei lavoratori contro i pericoli derivanti dalle radiazioni ionizzanti, ma la CE(E) soltanto dalla fine degli anni settanta incomincia a dar vita ad una produzione normativa specifica in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro attraverso tutta una serie di direttive3, tra le quali ricopre la massima importanza la prima direttiva quadro n°1107/1980, sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti dall'esposizione agli agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a cui fanno seguito tutta una serie di direttive ulteriori più specifiche relative a singoli agenti di rischio4.

Questa prima direttiva-quadro é caratterizzata da un'impostazione diversa rispetto alle direttive denominate di "seconda generazione"5, la seconda direttiva-quadro n°391/19896 e le dodici direttive "figlie" riguardanti particolari settori o aspetti della materia della sicurezza del lavoro7: infatti essa fa proprio l'obiettivo della "massima sicurezza ragionevolmente praticabile": questa espressione lascia trapelare una visione dei rapporti tra le due esigenze contrapposte, la tutela della salute e le considerazioni di ordine economico, in cui sono queste ultime ad essere privilegiate, mentre nel preambolo della direttiva n°391/1989 si dice espressamente che "il miglioramento della sicurezza, dell'igiene e dalla salute dei lavoratori durante il lavoro rappresenta un obiettivo che non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico"8.

Si può poi cogliere una differenza qualitativa tra le due direttive in esame prendendo in considerazione il modo in cui viene affrontato il problema del rapporto tra datore di lavoro e lavoratori: mentre la prima direttiva-quadro si limita a riconoscere a questi ultimi diritti di informazione e consultazione9, nella seconda, in particolare negli art.11 e 12 vengono presi in considerazione il diritto dei lavoratori a fare proposte in tema di sicurezza sul lavoro, il diritto ad una formazione sufficiente e adeguata, nonché ad una partecipazione equilibrata; tramite queste norme viene delineato un sistema di relazioni industriali per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro e ciò costituisce la principale novità introdotta in materia10.

Con l'inserimento dell'art.118 A nel Trattato CE(E) ad opera dell'Atto Unico Europeo del 1987 si verifica una svolta nella produzione normativa comunitaria: dopo questa modifica il Consiglio dei ministri della Comunità Europea può deliberare a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione, in cooperazione con il Parlamento e previa consultazione del Comitato economico e sociale, "per promuovere il miglioramento in particolare dell'ambiente di lavoro, per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori". Si tratta di una deroga di importanza decisiva al principio dell'unanimità nelle decisioni del Consiglio sancito dall'art.100 A per le disposizioni fiscali, quelle relative alla libera circolazione delle persone e, per quel che riguarda il nostro particolare campo di indagine, quelle relative ai diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti11.

Non é però facile individuare il campo di applicazione dell'art. 118 A: nella norma si parla di "ambiente di lavoro" e la dottrina dominante propende per una concezione diversa e più ampia rispetto a quella tradizionale, adottandone un'interpretazione estensiva che supera gli aspetti meramente igienistico-sanitari, per investire la stessa organizzazione del lavoro nel suo complesso: secondo questa prospettiva anche tematiche quali orario e turni di lavoro sembrano legittimamente riconducibili nell'ambito del concetto di sicurezza dell'ambiente di lavoro12.

Il legislatore comunitario nell'emanare le direttive n°383/1991, n° 36/92, n°85/1992 rispettivamente in materia di lavoro interinale e a tempo determinato, di orario di lavoro e di tutela della maternità accoglie questa impostazione: fa riferimento infatti all'art. 108 A e non all'art. 100 A del Trattato CE(E); questa soluzione é stata considerata legittima da due sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee13.

La questione é di notevole rilevanza costituendo la sicurezza dell'ambiente di lavoro l'unica materia della politica sociale comunitaria in relazione alla quale il Trattato attribuisce al Consiglio la possibilità di deliberare a maggioranza qualificata: essa costituisce quindi un capitolo non secondario di quell'armonizzazione delle legislazioni sociali che rappresenta il presupposto di un'integrazione europea non esclusivamente e riduttivamente economico-commerciale14: le due correnti di pensiero che su questo punto si fronteggiavano erano ben consapevoli delle conseguenze che sarebbero derivate da un'interpretazione più o meno restrittiva della norma in esame.

Alla fine, come si é detto, é prevalsa una visione lata del concetto di ambiente di lavoro, interpretazione che non può dirsi scorretta15 innanzitutto perché risulterebbe particolarmente difficile intervenire sui particolari rischi a cui sono esposte certe categorie di lavoratori, perché poco sindacalizzati ed "uti singuli" in una posizione di accentuata debolezza soggettiva nei confronti del datore di lavoro, senza delineare un quadro d'insieme della relativa disciplina.

Intervenire sull'ambiente di lavoro, infatti, é operazione vana se il quadro istituzionale e l’intero sistema delle relazioni industriali non convergono nel loro complesso verso l'obiettivo, consistente nella realizzazione di una maggiore sicurezza nel luogo di lavoro. Sono quindi necessarie un’adeguata attività formativa dei lavoratori, maggiore partecipazione dei dipendenti e di loro rappresentanti specializzati, una tutela speciale per certi soggetti a rischio (donne in maternità e lavoratori atipici) e garanzie minime in relazione alla gestione del tempo di lavoro16.

Un'interpretazione restrittiva inoltre non sarebbe in linea con le istanze sottese all'introduzione dell'Atto Unico e al progetto di istituzione di uno spazio sociale europeo17; al contempo condizionare l'emanazione dei provvedimenti comunitari in materia di politica sociale all'approvazione di tutti gli Stati membri (la Gran Bretagna ha notoriamente in questa materia una posizione diversa dagli altri partners europei) vorrebbe dire far dipendere la legislazione comunitaria in questo campo dal "veto britannico": in questo modo non si potrebbe realizzare quel processo di armonizzazione18 necessario per evitare i rischi di "social dumping" a cui inevitabilmente darebbero luogo differenti livelli di protezione nell'ambito di un mercato unico europeo di ormai imminente e definitiva realizzazione19: questi pericoli sono peraltro stati presi in considerazione nel preambolo della direttiva-quadro n°391/198920, che é stata emanata in sede di attuazione della dichiarazione programmatica contenuta nell'art.1921 della Carta sociale dei diritti fondamentali dei lavoratori del 198922.

Un'inversione di tendenza si é verificata in occasione del vertice di Maastricht del dicembre 1991 in cui la diversità della posizione del Regno Unito in materia sociale è apparsa evidente tanto che mentre il Protocollo sulla politica sociale é stato firmato da tutti i dodici paesi partecipanti23, all'Accordo collegato al Protocollo non ha aderito la Gran Bretagna, la quale quindi pur continuando a dare il suo contributo all'elaborazione della politica sociale europea non parteciperà alle deliberazioni del Consiglio e quindi al momento decisionale.

Il "filibusting" ed il "social dumping" che il riconoscimento della dimensione sociale tra gli elementi normativi costitutivi dello spazio europeo tende ad evitare24 trovano dunque, nelle intese di Maastricht, forse una consacrazione limitatamente, per ora, al caso britannico25.

2. LA DIRETTIVA-QUADRO 12 LUGLIO 1989 N° 391

Dall'analisi della Direttiva in questione traspare in effetti l'ambizioso intento del legislatore comunitario di delineare un modello articolato e tendenzialmente compiuto di protezione della salute nei luoghi di lavoro, fornendo risposte e strumenti che, coerentemente alla categoria giuridica-formale alla quale la norma appartiene (si tratta infatti di una direttiva quadro), assumono la valenza di indicazioni metodologiche e di principio, mantenendo tuttavia un elevato grado di analiticità.

Questa seconda direttiva-quadro ha suscitato un ampio dibattito nei singoli Stati europei: in Italia vengono espresse anche feroci critiche e c'é chi arriva ad affermare che "il legislatore comunitario sembri innalzare bandiere di tipo ideologico proponendo regole secondo modelli ed afflati sesantottini"1: parte minoritaria della dottrina italiana mette poi esclusivamente in evidenza della direttiva in esame il suo aspetto per così dire "garantistico", rispetto alla legislazione italiana allora vigente, cioé quella serie di articoli che prevedono ulteriori obblighi a carico in particolare del datore di lavoro ed un inasprimento delle sanzioni in caso di violazione degli stessi2.

La direttiva invece, secondo l'opinione dominante, si caratterizza per un impostazione di fondo decisamente innovativa rispetto anche ai precedenti provvedimenti comunitari in materia: il legislatore comunitario rinuncia a collocare la direttiva esclusivamente all’interno di un filone tecnico-regolamentare, consapevole dell'inutilità di inasprimenti normativi che, se non completamente ignorati, vengono solo parzialmente applicati e partendo dal presupposto, che troverà poi riconoscimento normativo nel Trattato di Maastricht, che il rafforzamento della coesione economica deve procedere di pari passo con quella sociale, affinché si possa raggiungere "un progresso economico e sociale equilibrato" (così si esprime infatti l'art.B del Trattato sull'Unione Europea) in conformità ad una concezione per cui sviluppo economico e consenso sociale si alimentano a vicenda3.

La direttiva n°391/1989 non opera più infatti solo sul piano verticale come faceva la precedente normativa comunitaria, ma soprattutto sul piano orizzontale dei rapporti endo-aziendali: contribuisce a disciplinare una nuova politica delle relazione industriali all'interno dei luoghi di lavoro improntata sul modello partecipativo4.

Si possono quindi individuare tre principi che possono essere compendiati nella formula comunemente usata di "nuova cultura della prevenzione":

a) viene accolto il principio dell'adeguamento del lavoro all'uomo5: si afferma cioé in modo definitivo una nozione integrale di salute, comprensiva sia del benessere fisico che psichico; viene quindi preso in considerazione come incidente sulla qualità della vita lavorativa anche il fattore-stress e ci si pone l'obiettivo dell'eliminazione o quantomeno della riduzione della monotonia e della ripetitività della prestazione lavorativa6;

b) viene instaurato un collegamento per così dire organico tra la tutela dell'ambiente esterno e la tutela dell'ambiente interno: si é infatti consapevoli della complessità degli interessi coinvolti nella tutela dell'ambiente di lavoro; si tratta di interessi non solo interni alla comunità aziendale, ma pure esterni, quale ad esempio l'ambiente salubre, imputabili alle comunità locali; il baricentro quindi della regolamentazione normativa é l'ambiente di lavoro nel suo complesso, sia sotto forma di controllo della pericolosità diffusa sia nel suo rapporto con l'esterno, mentre l'intervento sulle singole posizioni di lavoro é considerato come residuale7;

c) viene riconosciuto ai lavoratori e ai loro rappresentanti, oltre ad essere informati circa i rischi per la sicurezza per la loro sicurezza i mezzi per fronteggiarli e a ricevere un'adeguata formazione su quelle tematiche, anche il diritto ad essere messi in condizione di contribuire con "una partecipazione equilibrata" all'adozione delle necessarie misure di protezione8.

Presupposto di questo nuovo modo di rapportarsi con la problematica degli infortuni e delle malattie malattie professionali é la convinzione che la sicurezza del lavoro sia un problema in relazione al quale gli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro sono tutt'altro che confliggenti9.

3. L’ELEMENTO DI MAGGIORE NOVITA’: IL NUOVO CONCETTO DI PREVENZIONE. UN SISTEMA DINAMICO DI GESTIONE DELLA SICUREZZA DEL LAVORO IN AZIENDA

Se analizziamo la seconda direttiva-quadro n°391/1989 possiamo notare come il legislatore comunitario sia consapevole che la nozione di sicurezza nei luoghi di lavoro abbia anche, oltre a quella individuale, una dimensione collettiva: infatti appresta una disciplina puntuale delle prerogative delle rappresentanze dei lavoratori, prendendole in considerazione in vari articoli.

E' ormai acquisizione della giurisprudenza1 e della più attenta dottrina dei vari Stati europei il considerare il diritto alla salute, oltre che come diritto alla vita e alla integrità fisica, anche come diritto ad un ambiente salubre: vengono in rilievo situazioni giuridiche non connotabili esclusivamente sul piano individuale, ma riferibili a tutti i soggetti che vivono ed operano nella realtà ambientale esercitando i diritti di cui godono non solo singolarmente, ma anche per il tramite di soggetti collettivi in cui sono organizzati2. La dimensione collettiva dell'interesse alla sicurezza del lavoro determina, pertanto, l'esigenza che la tutela di quell'interesse sia affrontata appunto sul piano collettivo, più che su quello individuale.

Si tratta d'altronde di una scelta obbligata dal momento che l'esperienza ha confermato la scarsa efficacia di un apparato strumentale che si sviluppi in senso esclusivamente individuale: é evidente quindi l'importanza del ruolo giocato, oltre che dagli stessi lavoratori, da coloro che sono chiamati a rappresentare le istanze della singola "comunità di rischio".

Mentre infatti nella direttiva n°1107/1980 non si andava oltre la soglia dell'informazione-consultazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, più ampio è il ventaglio degli strumenti atti a garantire un più elevato livello di protezione, che vengono loro riconosciuti, se si analizza la versione definitiva della direttiva n°391/19893.

Nel preambolo della direttiva, in particolare nell'XI° considerando, si afferma infatti esplicitamente che "per garantire un miglior livello di protezione é necessario che i lavoratori e/o i loro rappresentanti siano informati circa i rischi per la sicurezza e la salute e circa le misure occorrenti per ridurre o sopprimere questi rischi; é inoltre indispensabile che essi siano in grado di contribuire, con una "partecipazione equilibrata", conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali, all'adozione delle necessarie misure di protezione".

Troviamo un richiamo alle modalità di partecipazione in vari punti della direttiva: negli art.1 2°comma, art.3 lettera c, art.6 3°comma lett.c e 4°comma, art.10 e 114; affinché però la partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti sia veramente efficace é necessaria una loro formazione, sotto forma di informazioni ed istruzioni, sufficiente ed adeguata che deve essere periodicamente ripetuta5.

In sostanza si può dire che il tema della sicurezza é affrontato dal legislatore comunitario in termini fortemente partecipativi, superando impostazioni conflittuali, ma anche logiche di semplice informazione6: l'idea-base é quella della consultazione non soltanto dei rappresentanti, i quali hanno una funzione specifica in materia, ma anche direttamente degli stessi lavoratori. Non ci si limita però a questo: si parla infatti di una "partecipazione equilibrata", cioé di un quid, seppur indefinito, in più rispetto alla semplice consultazione e comunque diverso dalla tradizionale contrattazione collettiva.

Ciò emerge da una più approfondita analisi del testo normativo: l'aver prefigurato il rapporto tra consultazione e "partecipazione bilanciata" in termini tra di loro nettamente alternativi e reciprocamente escludentesi rivela la sostanziale differenza tra i due metodi partecipativi; si tratta quindi di un concetto indeterminato non facilmente inquadrabile in schemi precisi. E' una nozione che tuttavia presuppone uno stadio avanzato di democrazia industriale anche nell'area della sicurezza sul lavoro7.

Questa situazione di incertezza circa il reale contenuto dell'espressione in esame è aggravata dal fatto che, in applicazione del principio di sussidiarietà, che regola i rapporti tra legislazione comunitaria e diritto interno dei vari Stati membri, viene introdotta "una clausola di compatibilità" con le singole realtà nazionali; la ratio di questa scelta normativa é di palmare evidenza: non si é voluto imporre una soluzione in un campo, quale é la partecipazione alla gestione aziendale, che costituisce una sorta di codice genetico dei singoli sistemi nazionali di relazioni sindacali; le differenziazioni sono tali che appare impossibile adottare in questo caso la tecnica dell'armonizzazione attraverso l'indicazione di un modello dettagliato di partecipazione.

Sembra comunque emergere dalla direttiva un'indicazione di favore verso un modello di partecipazione codeterminativo, seppur regolato nei dettagli dai vari legislatori nazionali, tenendo presente le singole realtà locali8.

Il dibattito che ha portato all'inserimento, nella direttiva n°391/1989, del diritto ad "una partecipazione equilibrata" in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro si inserisce in quello più ampio che ha ad oggetto i vari metodi di coinvolgimento delle parti sociali nella gestione delle problematiche riguardanti la gestione dell'impresa9: la consapevolezza delle potenzialità insite in questo nuovo metodo d'azione è un'acquisizione recente.

Nei decenni che hanno preceduto l'emanazione della direttiva in esame i corsi d'azione prevalenti e normali apparivano la ricerca della massimizzazione delle utilità individuali e l'agire in conformità a norme e prescrizioni prestabilite all'interno di organizzazioni gerarchiche, piuttosto che la propensione a cooperare con la controparte secondo logiche di reciprocità, delegando ed assumendo responsabilità entro ambienti partecipativi10.

Infatti il metodo partecipativo o cogestionale veniva ritenuto utilizzabile solo in fasi specifiche dell'azione sociale ed in particolari ambiti per lo più ristretti della vita sociale e la cui importanza per il funzionamento delle società moderne nel loro complesso si pensava fosse destinata a ridursi progressivamente: si era convinti infatti che il processo di modernizzazione dell'economia avrebbe dato spazio ai meccanismi impersonali del mercato e al modello delle organizzazioni razionali basate sulla gerarchia e su di una divisione formalizzata e chiara dei compiti.

Negli ultimi anni sono invece progressivamente apparsi sempre più chiari i benefici effetti dal punto di vista economico e sociale che possono derivare dalla cooperazione intesa come incentivo ad un mutamento dello status quo, in vista in particolare di un riassetto produttivo dell'azienda.

Bisogna operare, all'interno della nozione ampia di cooperazione, una summa divisio: da una parte la partecipazione diretta dall'altra quella rappresentativa, mediata cioé dall'intervento dei sindacati; si può poi ulteriormente individuare, a seconda del tipo di coinvolgimento dei lavoratori, una forma a carattere consultivo ed una a carattere decisionale.

Per partecipazione diretta si intende11 infatti l'insieme delle opportunità ed iniziative previste a livello legislativo o comunque promosse dal management o da esse appoggiate mediante le quali si consultano i dipendenti, individualmente o in gruppo, o si delegano loro responsabilità e spazi di decisione riguardo allo svolgimento dei propri compiti, all'organizzazione del lavoro e/o alle condizioni di lavoro12: infatti il definirla come sostanzialmente promossa solo dal datore di lavoro non sarebbe corretto13.

Questa definizione ricomprende quindi le due nozioni di "consultative partecipation" e di "delegative partecipacipation": nella prima i dipendenti individualmente o in gruppo sono messi in condizione di poter esprimere il loro punto di vista in un contesto però in cui il management conserva il diritto di accettare o respingere i pareri dei lavoratori; nel secondo caso, detto anche partecipazione a carattere discrezionale, responsabilità per aspetti che tradizionalmente sono stati considerati terreno decisionale dell'imprenditore vengono affidate ai dipendenti che vengono pertanto autorizzati a programmare ed eseguire autonomamente l'organizzazione e lo svolgimento della propria prestazione lavorativa.

Questo nuovo modo di affrontare i problemi che derivano dalla gestione quotidiana di un'azienda comporta vantaggi, ma anche rischi per tutti gli attori coinvolti: il management, i lavoratori e i sindacati14.

Questi ultimi sottolineano come in questo modo possano perseguirsi soprattutto obiettivi di tipo sociale e mettono quindi in evidenza le opportunità di allargare il contenuto delle mansioni, ridurre fatica e noia durante le ore di lavoro, assicurare più responsabilità e potere discrezionale ai lavoratori, ampliarne la formazione professionale; le associazioni degli imprenditori tendono a dar maggior peso a ragioni di tipo economico ed organizzativo, quali la necessità di razionalizzazione dei costi, flessibilità organizzativa e di riforma dei comportamenti sia dei dirigenti che del personale, in vista di un'introduzione di nuove tecnologie e di un'adeguamento della produzione alla variabilità della domanda e della conseguente riorganizzazione dei processi produttivi, anche per far fronte ad una concorrenza che si fa sempre più dura15.

La direttiva-quadro n°391/1989 ha indicato un modello ampio di partecipazione che accoglie sia casi di partecipazione diretta che indiretta o rappresentativa: infatti in vari punti contempla, come destinatari dei vari diritti di informazione e consultazione, alternativamente o contemporaneamente i lavoratori e i loro rappresentanti. Essi poi, come sembra ricavarsi da un'analisi approfondita, che tenti di leggere tra le righe del dato normativo, non si limitano ad esprimere un parere, ma partecipano attivamente alla fase decisionale: questa loro compartecipazione a scelte che tradizionalmente vengono annoverate tra le prerogative del datore di lavoro non costituisce per quest'ultimo però motivo di esenzione da responsabilità: infatti l'art.5 3° comma afferma in modo esplicito che: "gli obblighi dei lavoratori nel settore della sicurezza e della salute durante il lavoro non intaccano il principio della responsabilità del datore di lavoro"16.

Il vero fulcro del problema é però l'atteggiamento con cui viene affrontato questo nuovo sistema di relazioni industriali: infatti l'effettivo sviluppo di prassi di partecipazione diretta richiede, dal lato del management, un processo decisionale trasparente ed una disponibilità autentica a dividere con altri le proprie responsabilità e, da parte dei dipendenti e dei loro rappresentanti, una propensione a contribuire attivamente alla soluzione dei problemi produttivi intesi in senso ampio in un contesto di reale ed in qualche misura fiduciosa condivisione degli obiettivi aziendali; in realtà é molto probabile che gli uni finiscano per diffidare invece dei metodi partecipativi o per introdurli con molte riserve, e gli altri per reagirvi passivamente o con sospettosa indifferenza.

In questo modo verrebbe vanificata la vera novità che la direttiva comunitaria ha inteso introdurre: essa infatti non riguarda il contenuto dell'obbligo di prevenzione, ma le sue modalità di gestione. Siamo in presenza di un vero e proprio obbligo di strategia pianificata che comprende due profili profondamente innovativi e strettamente connessi l'uno all'altro: la programmazione della sicurezza17 e la previsione di uno sviluppo procedimentale dell'obbligazione di sicurezza in cui ricoprono grande importanza proprio i vari obblighi di informazione, esame congiunto, acquisizione di pareri e consultazione dei lavoratori, previsti negli articoli 10, 11 e 12, a cui il datore di lavoro deve adempiere prima di poter prendere una decisione in materia di salute e sicurezza sul lavoro18.

4. LA NORMATIVA ITALIANA: IL D.LGS. N° 626/1994 DI RECEPIMENTO DELLA DIRETTIVA-QUADRO N°391/1989

Il decreto legislativo del 19 settembre 1994 n°6261, successivamente modificato dal d.lgs. 19 marzo 1996 n°242, recepisce, seppur con grande ritardo2, la direttiva-quadro n°391/1989 e le prime sette direttive figlie ad essa collegata contenenti specifiche norme per determinati settori o aspetti della sicurezza, dando così attuazione alla delega contenuta nell'art.43 della legge comunitaria del 19 febbraio 1992 n°1423.

In questo modo non si é data soltanto la dovuta esecuzione ad un obbligo internazionale, ma si é cercato, per la prima volta, di inquadrare in modo preciso e sistematico i doveri e le funzioni dell'imprenditore, dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori, introducendo così elementi di chiarezza legislativa, che permettano di porre in evidenza con maggior precisione, rispetto alla precedente legislazione, le responsabilità di tutti coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nell'attività d'impresa.

Gli istituti fondamentali del sistema comunitario di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro erano già stati delineati dalla direttiva n°391/1989 con norme che, almeno in parte, potevano ritenersi di immediata applicazione, indipendentemente quindi dal loro formale recepimento nell'ordinamento interno; dopo l'emanazione del provvedimento di recepimento può dirsi ormai superato il dibattito relativo al carattere "self-esecuting" della direttiva: di conseguenza l'attenzione di tutti gli operatori del settore dovrà essere appuntata sulle norme introdotte dal decreto legislativo, rispetto alle quali la normativa comunitaria rimarrà sullo sfondo, salvo riemergere, in base all'ormai riconosciuta prevalenza nella gerarchia delle fonti, nel caso in cui si prospettassero un conflitto tra essa e le norme nazionali o difficoltà di interpretazione di queste ultime.

Il d.lgs. n°626/94 infatti vede la luce dopo un lungo e travagliato iter legislativo non per una particolare sensibilità per la materia da parte del legislatore italiano, quanto per la necessità di dare attuazione alla normativa comunitaria4: se si tiene presente la complessa vicenda che ha caratterizzato la nascita di questo provvedimento si può meglio comprendere perché la prima sperimentazione della nuova normativa ha creato numerosi problemi proprio in sede applicativa: la necessità di rispettare le scadenze imposte ed il ritardo ormai cronico con cui si é giunti all'elaborazione della normativa hanno impedito che questa fosse il frutto di un'ampia e consapevole collaborazione, soprattutto sul piano tecnico-scientifico, di tutti i soggetti interessati.

Il problema principale che si pone all'attenzione degli interpreti riguarda il rapporto tra la normativa introdotta con il recente intervento legislativo, improntato su di un modello di prevenzione soggettiva del fenomeno infortunistico, e l'insieme delle norme introdotte dai precedenti provvedimenti in materia, in particolare nei d.p.r. 547/55, 164/56 e 303/56, che puntano invece su quella che viene definita prevenzione tecnologica, dal momento che l'art.98 del d.lgs.n°626/94 afferma che "restano in vigore, in quanto non specificatamente modificate dal presente decreto, le disposizioni vigenti in materia di prevenzione degli infortuni e igiene del lavoro"5.

Ad una lettura superficiale del testo di quest'ultima norma la strada sembra essere semplice: il criterio di coordinamento tra le diverse discipline e di individuazione della parte della "vecchia" normativa che rimane in vigore sembra essere rappresentato dall'abrogazione esplicita. Però la tecnica del richiamo e dell'abrogazione esplicita di norme previgenti non é sempre utilizzata; in molte occasioni bisognerà seguire la strada più impervia dell'abrogazione tacita, strada sempre percorribile, anche se non espressamente richiamata, in base all'art.15 delle preleggi: saranno quindi i giudici a dover accertare l'eventuale abrogazione di alcune vecchie disposizioni o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge disciplina l'intera materia già regolata dalla legge anteriore. Infatti l'espressione contenuta nell'art.98 deve essere intesa nel senso che il decreto n°626/94 non si sostituisce integralmente alla legislazione prevenzionistica precedente, ma intende abrogare caso per caso le disposizioni precedenti incompatibili con la nuova disciplina6.

In questa prospettiva si inserisce l'esigenza dell'emanazione di un testo unico7 che riordini l'intera materia della salute e sicurezza sul lavoro, nella quale si é verificato un problematico aumento della complessità del quadro normativo: oltre infatti ai decreti prevenzionali degli anni '50 e al nuovo decreto legislativo rimangono in vigore l'art.2087 c.c., lo Statuto dei lavoratori e la legge di Riforma sanitaria; il quadro é arricchito dalla presenza di una copiosa giurisprudenza che ha svolto in molte occasioni un opera di supplenza legislativa e di creazione del diritto, creando ad esempio istituti come la delega di funzioni ed il sistema di responsabilità negli appalti che trovano la loro disciplina normativa solo nel recente decreto legislativo.

Infine bisogna tener presente la contrattazione collettiva, il cui ruolo il decreto n°626 ha contribuito a rilanciare, delegando ad essa la disciplina di alcuni aspetti della materia antinfortunistica.

In definitiva, nonostante i difetti8, alcuni già disciplinati ed altri su cui verrà appuntata la nostra attenzione nel prossimo capitolo, si può affermare che il d.lgs.n°626/94 abbia contribuito ad assicurare una più elevata qualità del della vita nei luoghi di lavoro9: esso costituisce una grande novità in materia. La dottrina maggioritaria10 sostiene infatti che il precedente sistema é stato profondamente modificato, se non altro perché viene esplicitato quanto prima era il risultato di una faticosa operazione di adeguamento sistematico, a cui si è giunti in via d'interpretazione giurisprudenziale e dottrinale: se si concorda con questa impostazione non può non stupire l’affermazione contenuta nella circolare del Ministero del lavoro del 7 agosto 1995, secondo la quale il d.lgs.n°626 "non avrebbe comportato che modifiche limitate alla precedente normativa, in quanto improntato solo su di una diversa impostazione nel modo di affrontare il problema della sicurezza".

Il legislatore italiano, consapevole infatti che la non soddisfacente situazione della tutela della sicurezza fisica dei lavoratori non dipende tanto da un'inadeguatezza normativa quanto da fattori di tipo economico-strutturale, istituzionali e culturali, cerca di incidere proprio su questi aspetti, dettando una disciplina organica per i casi, ad esempio, di presenza di più imprese nello stesso cantiere o di subappalto, in particolare nel settore dell'edilizia e cercando di rimuovere i ritardi culturali in materia propri di tutti i soggetti sociali coinvolti.

Una cultura della prevenzione potrà essere raggiunta solo tramite una formazione che sia in grado sia di fornire ai soggetti, dirigenti e preposti innanzitutto, tenuti a dare concreta attuazione alle disposizioni in materia di sicurezza gli strumenti conoscitivi necessari per rispettarle e farle rispettare, sia di far aumentare negli stessi lavoratori la consapevolezza dei rischi a cui sono sottoposti: ciò dovrebbe contribuire a debellare quell'atteggiamento, quanto mai diffuso, di sottovalutazione delle misure di prevenzione che, ad esempio, porta i lavoratori che operano nei cantieri a rifiutare l'uso del casco adducendo motivi futili (perché scomodo o perché provoca la caduta dei capelli).

Il giudizio invece sull'influenza del d.lgs.n°626/94 sui fattori istituzionali, l'altra causa cioé del basso livello di protezione contro gli infortuni sul lavoro, non può essere positivo: esso non riesce a modificare una situazione che non é sicuramente oggi soddisfacente: mancano infatti strutture ed organismi che abbiano i mezzi per compiere in modo adeguato i loro compiti in materia di omologazione dei macchinari e delle attrezzature; inoltre la maggior parte delle Unità Sanitarie Locali, alle quali compete il controllo in ordine al rispetto della normativa prevenzionale, non si sono ancora dotate di un apposito servizio ispettivo 11

5. I PROFILI INNOVATIVI DEL DECRETO LEGISLATIVO

5.1 LA MOLTIPLICAZIONE DELLE POSIZIONI DI GARANZIA

Poiché il tema dei soggetti garanti in materia di salute e sicurezza sul lavoro sarà oggetto di più attenta analisi nel cap.III ci limitiamo, in questa sede, a delle considerazioni di carattere generale e rinviamo al prossimo capitolo per l'approfondimento delle specifiche problematiche.

Tra le principali novità del d.lgs.n°626/94 possiamo sicuramente annoverare l'aumento dei soggetti chiamati ad operare per la tutela della salute sui luoghi di lavoro; tra di essi troviamo il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti, i costruttori, installatori, venditori, noleggiatori e i comodanti in uso di macchine ed impianti in genere, già presi in considerazione dai decreti degli anni '501, il medico competente, già previsto nel d.lgs.n°277/1991, ai quali si aggiungono ora i progettisti dei luoghi o posti di lavoro e degli impianti2, il responsabile del Servizio di prevenzione e protezione ed il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Nell'art.5 vengono poi precisati i vari obblighi che gravano sul lavoratore: nel 1° comma si dice infatti che "deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni od omissioni ..."; emerge dal testo di questa norma un ruolo del lavoratore diverso da quello di "attore non protagonista" che gli veniva riservato nella precedente normativa. Non gli si chiede più solo di eseguire ciò che altri, il datore di lavoro o i dirigenti, hanno stabilito, ma di contribuire "all'adempimento di tutti gli obblighi imposti dall'autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro"3.

Non più, dunque, da una parte lavoratori, intesi come creditori passivi di sicurezza poco responsabilizzati e partecipi delle modalità pratiche per assicurarne l'attuazione e, dall'altra, datori di lavoro obbligati ad adottare misure e cautele tassativamente prescritte dalla legge, ma un'organizzazione programmata della sicurezza che vede protagonisti attivi e responsabili tanto gli uni che gli altri.

Viene quindi accolto, recependo così l'impostazione del legislatore comunitario, un modello improntato su di una nozione di sicurezza diffusa4.

Questa propagazione degli obblighi di sicurezza porta ad un complesso intreccio delle posizioni di garanzia non soltanto in senso orizzontale, ad una moltiplicazione cioè dei soggetti obbligati a rispettare le varie prescrizioni, ma anche in senso verticale: vari soggetti devono infatti sorvegliare che altri soggetti adempiano ai loro obblighi di garanzia e protezione5.

L'efficacia dunque dell'intervento a protezione delle condizioni di lavoro deriva dall'interazione tra una pluralità di soggetti6, tra i quali devono essere annoverati anche organi pubblici con compiti di vigilanza, consulenza ed autorizzazione per lo svolgimento di determinate attività quali le Unità Sanitarie Locali, vigili del fuoco, Ispettorato del lavoro7.

Il d.lgs.n°626/94 infatti ha inteso allargare la sfera operativa della particolare disciplina relativa alle attività di controllo ad altri soggetti oltre alle UuSsLl, che ne rimangono le principali artefici; per attività particolarmente rischiose, da individuare con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri del Lavoro e della Sanità, l'attività di vigilanza può essere esercitata anche dall'Ispettorato del lavoro che ne informa preventivamente l'UuSsLl territorialmente competente8.

Si tratta di un sistema integrato che si fonda su di una ripartizione di responsabilità in base ai poteri e alle competenze di ciascuno dei soggetti che vengono presi in considerazione, secondo "il principio di effettività": per individuare i soggetti a cui ricondurre il debito di prevenzione si fa riferimento, di volta in volta, alla concreta assegnazione dei compiti. Il concreto svolgimento di una determinata mansione prevale, in caso di contrasto, sulla qualifica formale: si ha quindi una perfetta correlazione tra poteri e obblighi di prevenzione degli infortuni.

La ratio di questa scelta legislativa deve rinvenirsi non solo nella diffusività dell'obbligazione di sicurezza e nella conseguente sua ripartizione tra più soggetti, ma anche nella previsione di sanzioni penali per punire la trasgressione della maggior parte delle disposizioni in materia: una delle conseguenze del trasferimento in ambito giuspenalistico della materia della sicurezza del lavoro é l'utilizzo del criterio di imputazione della responsabilità proprio di quello specifico settore del diritto in base al quale la responsabilità penale é personale9 .

5.2 LA VALUTAZIONE DEI RISCHI E LA PROGRAMMAZIONE DELLA SICUREZZA

E' innanzitutto necessario risolvere una questione preliminare: é mutato il contenuto dell'obbligo di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali?

Parte della dottrina tende a dare grande risalto ai richiami all'integrità dell'ambiente esterno contenuti nella definizione di prevenzione di cui all'art.2 lett.g e nell'art.4 comma 5 lett. n.

In base alla prima norma citata infatti "si intendono per prevenzione il complesso delle disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell'attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno"; in base alla seconda invece "il datore di lavoro, il dirigente ed il preposto ... prendono appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possono causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno".

Altri Autori pongono maggiormente l'attenzione sul fatto che in più parti del decreto, ad es. nel art.3, si usano le espressioni ambiente di lavoro e luogo di lavoro1.

E' comunque opinione prevalente in dottrina che il d.lgs.n°626/94 abbia apportato al contenuto dell'obbligo di sicurezza soltanto specificazioni piuttosto che vere e proprie innovazioni; ciò che é invece mutato é il modo di gestire l’obbligazione di sicurezza.

Infatti il dato pregnante della seconda direttiva-quadro n°391/89 CE(E) e del d.lgs. di attuazione n°626/94 é costituito dal tentativo di coniugare i problemi della sicurezza con quelli dell'organizzazione del lavoro, per il tramite della consultazione e della partecipazione dei lavoratori. Tra le misure generali di tutela elencati nell'art.32 riveste particolare importanza l'obbligo, previsto nella lett.d, di programmare la prevenzione "mirando ad un complesso che integri in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche produttive e organizzative dell'azienda nonché l'influenza dei fattori dell'ambiente di lavoro"3.

L'importanza accanto a quelle tecniche delle misure organizzative e procedurali ai fini della prevenzione é sottolineata in molti punti del decreto sia tra gli obblighi generali del datore di lavoro (art.4 comma 5 lett.b) che nella parte speciale riguardante la movimentazione manuale dei carichi (art.48), l'uso dei videoterminali (art.53), di agenti cancerogeni e biologici (art.64 e 79).

Si può notare peraltro la mancanza del riferimento, invece contenuto nella direttiva n°391/89, alle condizioni di lavoro e alle relazioni sociali: non sembra però che questa esclusione debba essere intesa come un'esclusiva attenzione ai profili organizzativi e produttivi, dal momento che, in altra parte del decreto, si afferma che nell' "affidare i compiti ai lavoratori si deve tener conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza"4. In particolare per le mansioni comportanti l'uso dei videoterminali deve essere assicurata una loro distribuzione che consenta di evitare il più possibile la ripetitività e la monotonia delle operazioni5: vengono quindi presi in considerazione anche i profili soggettivi riguardanti la persona del lavoratore; si tratta infatti dell'attuazione, nell'ordinamento interno, di quanto sancito dall'art.6 par.2 lett.d della direttiva comunitaria, in base al quale "il lavoro deve essere adeguato all'uomo".

Al riguardo, qualcuno ha parlato di "modelli ed afflati sessantottini" della direttiva e di "una concezione rigorosa, quasi ascetica e sacrale del debito e della responsabilità, che riporta l'uomo al centro del disegno prevenzionale"6; tuttavia non é necessario, secondo la dottrina prevalente, condividere giudizi così drastici per riconoscere che il nesso introdotto tra organizzazione e sicurezza ha comunque l'effetto di rafforzare sensibilmente il fronte preventivo: tra le misure organizzative e procedurali rientrano sicuramente provvedimenti di rilievo come, ad esempio, la riduzione dei tempi di esposizione al rischio per via di una articolazione in turni od una diversa distribuzione dell'orario di lavoro7.

Se si procede ad un confronto tra l'art.4 del d.p.r.547/55 ed il corrispondente articolo del d.lgs.n°626/94 si può notare, infatti, come la novità sia costituita dal definitivo e generalizzato accoglimento di un diverso "modus procedenti" per l'assolvimento dell'obbligo di sicurezza che era contenuto in nuce in alcuni provvedimenti precedenti8 e che ora acquista una valenza generalizzata in quanto riguarda tutti i soggetti che operano nei luoghi di lavoro e non é più limitato ad alcuni soltanto dei rischi che possono prodursi.

Nuovo é anche il modo in cui la programmazione deve essere adempiuta: il datore di lavoro deve seguire una determinata procedura articolata in una serie di formalità ordinate secondo un ordine logico; egli infatti deve:

a) effettuare la valutazione, nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, specificando i criteri di valutazione adottati;

b) provvedere ad individuare le misure di prevenzione e di protezione attuate in conseguenza della valutazione e le attrezzature di protezione utilizzate;

c) predisporre un programma di attuazione delle misure9;

d) formulare il piano di emergenza: infatti le misure di prevenzione devono riguardare anche le situazioni di rischio in caso di incendio ed in generale nei casi di pericolo grave e immediato che giustifichi l'abbandono del posto di lavoro10.

I risultati di queste operazioni sono racchiuse in un documento che viene custodito insieme al registro degli infortuni (art.4 comma 5 lett.o) presso l'azienda o la singola unità produttiva e che deve essere rielaborato e aggiornato in occasione di modifiche del processo produttivo significative ai fini della sicurezza e della salute dei lavoratori11.

Per l'adempimento dei citati obblighi il decreto n°626 non fornisce alcun criterio guida, riservandosi solo di disciplinare con decreto interministeriale, i criteri per l'organizzazione della prevenzione incendi12: l'adozione quindi dei criteri e dei metodi da ritenere efficaci per una valida valutazione del rischio é lasciata alla scelta discrezionale di ciascuna impresa, che provvederà a specificarli con la collaborazione del medico competente e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza13.

Le uniche indicazioni in materia si possono trarre con riferimento alla valutazione dei rischi in generale dalla Circolare del Ministero del lavoro 7 agosto 1995 n°102, dal documento 5196/94 PA, approvato il 5 luglio 1994 dal Comitato consultivo per la sicurezza, l'igiene e la tutela della salute sul luogo di lavoro dell'Unione europea14 e, con particolare riguardo alla protezione antincendio, dalla Circolare del Ministero dell'interno del 29 agosto 1995 n.P. 1564/4146.

Il datore di lavoro ha, secondo la nuova disciplina normativa, una maggiore autonomia nella valutazione dei fattori di rischio: viene quindi affermato il principio della responsabilizzazione del datore di lavoro, il quale però non é completamente libero incontrando nella sua opera di individuazione delle misure di sicurezza necessarie il limite costituito dalla previgente legislazione in materia15.

Le finalità perseguite tramite la procedura di valutazione dei rischi e di programmazione della sicurezza sono il raggiungimento di una maggiore trasparenza nelle decisioni prese dal datore di lavoro anche al fine di agevolare i controlli di carattere sindacale o pubblico16, nonché il coinvolgimento, oltre al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, di altri esperti della sicurezza quali il medico competente ed il responsabile del servizio di prevenzione o altri tecnici dotati di adeguata professionalità ed esperienza.

Viene quindi previsto un ben preciso iter procedimentale per garantire la serietà ed effettività della programmazione17: in questo modo si é riusciti finalmente a codificare tutta una serie di possibili misure generali di protezione, assegnando ad alcune di esse una precisa priorità e prevedendo così una serie razionalizzata di interventi. Il datore di lavoro ha ora, come obbligo primario, la prevenzione dei rischi e non più la protezione dei lavoratori: dovrà infatti evitare che si creino situazioni di rischio o almeno ridurre i rischi alla fonte, programmare la prevenzione, sostituire ciò che é pericoloso con ciò che non lo é o lo é meno, rispettare i principi ergonomici.

Il datore di lavoro potrà limitarsi ad utilizzare misure di protezione, privilegiando comunque le misure di protezione collettiva rispetto a quelle che riguardano il singolo individuo, solo nel caso in cui le misure tecniche, organizzative e procedurali non consentano l'eliminazione dei rischi18.

 

5.3 LA GESTIONE PARTECIPATA DELLA SICUREZZA

La "procedimentalizzazione" dell'obbligazione di sicurezza, che abbiamo visto costituire la principale novità del d.lgs.n°626/94, é caratterizzata, oltre che dalla previsione di una serie coordinata di fasi e obblighi strumentali finalizzati alla realizzazione dell'obiettivo del miglioramento delle condizioni di vita nei luoghi di lavoro, anche da un'intensa ed attiva partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti in quest'articolato processo che porta all'identificazione delle misure di sicurezza più efficaci1.

Infatti il "consenso" costituisce la principale idea-guida a cui si ispirano le norme che compongono l'attuale sistema antinfortunistico: é lo strumento-chiave utilizzato per perseguire il fine ultimo, la prevenzione: l'efficacia di un sistema di regole, soprattutto se poste a presidio di un diritto assoluto, quale é il diritto alla salute che viene tutelato anche a livello costituzionale, é condizionata dall'essere o no il risultato della concertazione e della cooperazione di tutte le parti interessate. Infatti il nuovo modello di gestione della salute e della sicurezza dei lavoratori, prefigurato nel d.lgs. n°626/94, trova il suo strumento di effettiva attuazione proprio nella compartecipazione di una pluralità di soggetti nel processo di programmazione della prevenzione degli infortuni sul lavoro2.

Si tratta di un modello che non appare più incentrato, come in passato, sull'imposizione di una serie di obblighi e di doveri su di un unico soggetto, il datore di lavoro in quanto "capo" dell'impresa, ma che rappresenta, per quanto riguarda la predisposizione e la gestione della sicurezza, un assetto concertato, un meccanismo cioè di gestione congiunta che presenta innegabili valenze e ricadute partecipative, che però non può e non deve comportare l'utilizzo del tradizionale metodo contrattuale: la contrattazione infatti, presupponendo normalmente una situazione conflittuale tra le due parti sociali, lavoratori e datore di lavoro, é per sua natura conpromissoria e deve quindi graduare gli obiettivi strategici ( difesa del potere d'acquisto dei salari e dei livelli occupazionali). Ulteriore elemento che non depone a suo favore é costituito dal fatto che anche il contratto collettivo, al pari della legge, tende il più delle volte a produrre regole generiche o poco flessibili3.

Inoltre la nuova forma di rappresentanza necessaria4 individuata dall'art.18 d.lgs. n°626/94 é, seppur situata all'interno delle tradizionali strutture di base dei sindacati, le r.s.u.5, di tipo specialistico costituendone infatti un'articolazione con competenze specifiche in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Quindi, pur risultando confermata l'interpretazione che dell'art.9 St.lav. era stata data in precedenza e che aveva ricevuto l'avvallo a livello legislativo dall'art.20 u.c. della l.n°833/1978, viene comunque ribadita l'esigenza di un'autonoma struttura di rappresentanza dei lavoratori che operi secondo una logica diversa da quella che caratterizza il consueto modus operandi dei sindacati e che sia quindi dotata di poteri unilaterali di controllo e propositivi, che non possono perciò inquadrarsi nei tradizionali schemi contrattuali.

La materia della sicurezza dei lavoratori infatti, coinvolgendo non meri interessi patrimoniali, ma un bene indisponibile come il diritto alla salute ed essendo quindi dotata di rilevanza generale e pubblica non può essere oggetto di contrattazione; la salute non può essere utilizzata come merce di scambio per ottenere ad esempio vantaggi di ordine economico sotto forma di indennità correlate allo svolgimento di mansioni pericolose: questa é stata invece da sempre l'idea-guida che ha influenzato l'azione del sindacato.

E' quindi maturata negli anni ed ora trova riconoscimento a livello legislativo, prima nell'art.11 della direttiva 89/391 poi nel d.lgs. n°626/94, la consapevolezza dell'opportunità di un approccio diverso e dell'uso di un metodo nuovo, che viene definito "partecipazione equilibrata": mentre in sede comunitaria viene prospettato un modello che può fondarsi sulla partecipazione non solo dei soggetti istituzionali e del rappresentante per la sicurezza, ma anche dei lavoratori uti singuli, cioé degli stessi creditori della sicurezza6, il legislatore italiano se, da una parte, ha scelto invece una forma di partecipazione che può in definitiva qualificarsi come indiretta o mediata7, dall'altra, ha ampliato le sedi di partecipazione ed esame congiunto delle problematiche riguardanti la sicurezza sul lavoro rispetto a quanto previsto nella direttiva comunitaria8.

Se si tiene presente, oltre che dello stadio di adeguamento degli ordinamenti dei vari Stati europei agli standards comunitari, di ciò che relativamente al caso italiano é stato da ultimo posto in luce, si può affermare che l'obiettivo dell'armonizzazione dei sistemi giuridici dei vari Stati-membri che, nell'intenzione del legislatore comunitario, le varie direttive avrebbero dovuto realizzare non sia stato invece raggiunto9.

Viene comunque recepito anche in Italia lo spirito di fondo della normativa comunitaria: nel nostro Paese ci si sta affrancando dal tradizionale modo di affrontare il problema-sicurezza in termini meramente regolamentari, basato cioè sulla protezione e prevenzione strettamente tecnica di fronte ai fattori di rischio, a favore di un nuovo approccio fondato sulla compresenza di prescrizioni legislative contenenti cautele di ordine tecnico, che incidono talvolta sulle stesse prerogative imprenditoriali e manageriali in ordine all'organizzazione del lavoro e all'esercizio dei poteri di conformazione della prestazione lavorativa, e di misure di sicurezza la cui esigenza scaturisce dal confronto dialettico con i lavoratori e gli organi amministrativi di controllo10.

La nozione di "partecipazione equilibrata" di cui all'art.11 della direttiva-quadro, in conformità del resto allo spirito che caratterizza i vari provvedimenti comunitari in materia11 presenta dei contenuti minimi: deve essere assicurati ai lavoratori e/o ai loro rappresentanti una serie di diritti quali l'informazione, la consultazione, la possibilità di fare proposte e la partecipazione c.d. equilibrata.

Differentemente dalla direttiva comunitaria che quando disciplina queste varie forme di partecipazione fa sempre riferimento sia ai lavoratori uti singuli che ai loro rappresentanti il d.lgs.n°626/94 ha scelto un modello partecipativo che, pur valorizzando le prerogative dei singoli lavoratori in tema di sicurezza del lavoro, tuttavia é incentrato sulla figura del rappresentante per la sicurezza: infatti i primi si vedono attribuita la titolarità, oltre che dei diritti di informazione, il diritto ad una formazione adeguata, i secondi svolgono importanti funzioni consultive e propositive.

Se si confrontano infatti l'art.5 comma 2° lett.h con l'art.11 comma 1° della direttiva si può vedere12 come il d.lgs. n°626/94 abbia accolto solo in parte gli input che gli derivavano dalla direttiva comunitaria: la partecipazione dei lavoratori uti singuli si é stemperata nella formula meno tecnica e più generica del contributo o della cooperazione fornita al datore, ai dirigenti e ai preposti per l'attuazione di tutti gli obblighi necessari per tutelare la sicurezza e la salute13.

La consultazione e la partecipazione in senso stretto dei lavoratori vengono assicurate14 in una forma indiretta tramite l'azione del rappresentante per la sicurezza e degli organismi paritetici intersindacali15, che rappresentano i due strumenti che il legislatore italiano ha deciso di utilizzare per attuare, almeno in parte, il modello partecipativo delineato nelle sue linee generali a livello comunitario, ma le cui specifiche modalità di realizzazione sono lasciate ai singoli legislatori nazionali16.

 

5.4 segue: IN PARTICOLARE IL DIRITTO ALL'INFORMAZIONE

L'obbligo, a carico del datore di lavoro1, di fornire tutte le informazioni necessarie riguardanti i rischi per la salute e la sicurezza, nonché le misure e le attività di protezione e prevenzione non costituisce una novità in assoluto: tale obbligo di informazione2 specifica dei lavoratori era già previsto e sanzionato, anche se quasi sempre disatteso, nella legislazione italiana3.

La disciplina che dell'obbligo in esame viene dettata nell'art.21 del d.lgs. n°626/944 é più ampia e dettagliata5 sia delle analoghe previsioni dell'art.10 della direttiva Ce(e) 391/896 che dei decreti degli anni '507, tanto che la dottrina unanime considera queste ultime tacitamente abrogate; l'informazione deve infatti riguardare non più solo i "rischi specifici", ma anche quelli "ambientali": a questa conclusione, a dire il vero, erano peraltro già giunte, nella vigenza del d.p.r. n°547, parte della dottrina e della giurisprudenza8.

Punto centrale per cogliere appieno la portata dell'obbligo in esame posto dall'art.21 é tuttavia il riferimento al criterio di adeguatezza dell'informazione richiesta, dal momento che la norma parla di informazione "adeguata": é però difficile chiarire quando le modalità di attuazione dell'obbligo informativo siano efficaci in vista dell'obiettivo della prevenzione degli infortuni9. La valutazione di adeguatezza, secondo l'opinione, che trova conferma anche in giurisprudenza, della dottrina prevalente, deve essere compiuta sia con riguardo all'attività spesa dal datore di lavoro, sia in relazione all'oggetto delle informazioni. Per il primo aspetto si dovrà valutare con quale impegno e con quale frequenza temporale il datore ha assolto ai suoi obblighi10; per quanto riguarda il secondo profilo l'informazione deve possedere alcuni caratteristiche: deve essere concretamente idonea al fine dell'acquisizione di conoscenze da parte del lavoratore, deve risultare comprensibile, completa ed esauriente11.

L'importanza di una corretta informazione dipende dal fatto che essa, insieme alla formazione, costituisce il presupposto per l'adempimento degli obblighi posti dal d.lgs. n°626/94 a carico del lavoratore, anch'egli soggetto responsabile della salute e sicurezza propria e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, sui quali possano ricadere gli effetti delle sue azioni od omissioni, dal momento che gli obblighi per il lavoratore vanno valutati in base all'art. 5 "conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni ed ai mezzi forniti dal datore di lavoro": se quindi le informazioni sono carenti la responsabilità del lavoratore sarà, se non addirittura inesistente, per lo meno minore12.

Destinatario di importanti informazioni, in particolare sulla valutazione dei rischi e sulle conseguenti necessarie misure di sicurezza, é anche il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza13.

 

5.5 segue: IL DIRITTO AD UN’ADEGUATA FORMAZIONE

L'art.22 del d.lgs. n°626/94 si occupa, recependo anche se non integralmente l'art.12 direttiva Ce(e)1, del diritto dei lavoratori e dei loro rappresentanti a ricevere "una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e di salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni"2; si tratta di un principio che trova così espresso riconoscimento a livello legislativo, ma che secondo parte della dottrina e della giurisprudenza poteva già trovare riconoscimento ed applicazione in base alla normativa precedente3: si riteneva che nell'espressione "rendere edotti" possano essere ricompresi non solo l'aspetto strettamente informativo, ma anche il processo di formazione, poiché in essa sarebbe implicito l'accertamento, che deve essere effettuato dal datore di lavoro, dal dirigente e dal preposto, che il lavoratore si sia reso conto del rischio specifico, ne abbia valutato la esatta portata e conosca le precauzioni e gli accorgimenti che dovrà adottare nell'adempimento del proprio lavoro. L'espressione quindi andrebbe interpretata nella più ampia accezione di istruire, nel senso di rendere consapevoli4.

Nell'articolo in esame vengono distinte tre ipotesi di formazione su salute e sicurezza riguardanti rispettivamente i lavoratori, i loro rappresentanti per la sicurezza e gli incaricati dell'attività di pronto soccorso, di lotta antincendio e di evacuazione dei lavoratori.

Il 2° comma dell'art.22 prevede che la formazione, finalizzata all'apprendimento delle cautele da impiegare nello svolgimento della mansione assegnata, venga impartita ai nuovi assunti al momento dell'ingresso in azienda; si applica a tutti i soggetti della "comunità di lavoro" la disposizione che prevede un supplemento di formazione, allorché mutino le mansioni o vengano introdotte nei processi produttivi nuove attrezzature di lavoro, nuove tecnologie o nuove sostanze potenzialmente nocive; di pari largo respiro é la disposizione che sanziona un obbligo formativo aggiuntivo correlato all'evoluzione dei rischi ovvero all'insorgenza di nuovi rischi5.

La formazione deve svolgersi, assicurando in questo modo un controllo sindacale, in collaborazione con gli organismi intersidacali paritetici introdotti dall'art. 20 d.lgs. n°626/946.

L'art.22 mentre, per quanto attiene agli incaricati dell'attività di pronto soccorso, lotta antincendio e di evacuazione dei lavoratori, si limita a stabilire che essi devono essere "adeguatamente formati"7 attribuisce invece al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza il diritto a ricevere una formazione particolare8 in vista di un effettivo e consapevole adempimento di quell'ampio "ruolo partecipativo" che il d.lgs.n°626/94 gli assegna.

A differenza della semplice informazione, la formazione tende a far acquisire ai lavoratori e ai loro rappresentanti quell'indispensabile livello di conoscenze e di esperienza che li possa rendere in concreto e non già in astratto soggetti attivi della prevenzione9: dovrebbe dunque contribuire a creare quella "cultura della sicurezza", che é indispensabile ad un serio disegno prevenzionistico10.

L'effettività del sistema dipende infatti dal grado di consapevolezza e di conoscenze dei destinatari stessi della tutela relativamente alla natura del rischio diffuso nell'ambiente di lavoro; non si potrebbe d'altronde pretendere dal prestatore una collaborazione all'adempimento dell'obbligo di sicurezza ed in qualche caso un intervento attivo per far fronte all'emergenza senza avergli preventivamente impartito istruzioni ed una formazione adeguata.

La prevenzione dunque dipende in larga misura dagli esiti applicativi di queste regole; per questo motivo l'informazione e la formazione sono state inserite tra le misure generali di tutela ed é stata loro riservata una posizione di preminenza rispetto alla consultazione e alla partecipazione; ciò produce delle conseguenze sul rapporto di lavoro poiché l'adempimento dell'obbligazione lavorativa comprende anche il dovere accessorio e complementare di collaborare con il datore di lavoro nell'attuazione del disegno prevenzionale: il lavoratore può infatti essere punito se viene meno, abbassando così il livello di protezione in azienda, al suo dovere di collaborazione attiva, dal momento che é anch'esso destinatario di un dovere giuridico di rilevanza generale e pubblica, che si fonda sull'esigenza di proteggere diritti indisponibili, quali sono l'integrità fisica e la salute di coloro che operano nei luoghi di lavoro11.

 

5.6 segue: CONSULTAZIONE E PARTECIPAZIONE IN SENSO STRETTO

Il d.lgs. n°626/94 dedica il Capo V del Titolo I alla descrizione del ruolo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, al quale riconosce oltre al diritto a ricevere le informazioni di cui alle lett.e-f , il diritto ad essere tempestivamente consultato in via preventiva in occasione delle varie fasi che scandiscono l'iter procedurale che il datore di lavoro deve seguire prima di poter adottare una misura di protezione e prevenzione1.

Il rappresentante dei lavoratori svolge poi un'importante funzione propositiva in particolare nei confronti del datore di lavoro2, al quale solo, comunque, spetta il compito di individuare le misure di sicurezza necessarie: infatti il legislatore italiano non ha scelto di seguire forme di partecipazione di tipo cogestionale, come é invece avvenuto nell'ordinamento tedesco3, ma ha deciso di seguire la strada tradizionale della negoziazione collettiva, pur avvertendo le lacune ed i pericoli di una contrattazione globale della salute4.

Per supplire alle carenze del tradizionale modello contrattuale il d.lgs.n°626 ha attribuito al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza un potere unilaterale di iniziativa in materia: può infatti far ricorso alle autorità competenti, qualora ritenga che le misure di prevenzione adottate dal datore di lavoro non siano idonee a garantire la sicurezza sul lavoro; per evitare poi che una logica compromissoria, dipendente dai rapporti di forza delle due parti sociali coinvolte, le associazioni imprenditoriali e i sindacati, condizioni negativamente il livello di protezione e prevenzione contro gli infortuni e le malattie professionali é auspicabile che, da una parte, i lavoratori acquisiscano un'autentica "cultura della sicurezza", dall'altra che gli enti pubblici di vigilanza svolgano un'attenta ed efficace azione prevenzionistica che si inserisca in una visione di tutela integrata della salute dei lavoratori5.

In conclusione, se si dà una sguardo d'insieme agli articoli 11-19-20-21-22 si può affermare che il d.lgs.n°626/94 abbia accolto in modo inequivocabile un sistema di gestione partecipata e congiunta della sicurezza; ciò rappresenta un salto di qualità rispetto alla legislazione precedente: l'obiettivo strettamente legato al problema dell'organizzazione aziendale é la "sicurezza globale" al cui raggiungimento é necessario che cooperino diversi soggetti e non più solo il datore di lavoro6.

5.7 L’ATTUALE SIGNIFICATO DEL PRINCIPIO DELLA MASSIMA SICUREZZA TECNOLOGICAMENTE POSSIBILE

Per identificare la latitudine del contenuto dell'obbligo di sicurezza, obbligo che, come si vedrà più avanti, può qualificarsi, anche se su questa definizione la dottrina é divisa, come obbligazione di mezzi e non di risultato é necessario chiarire, andando oltre il dato letterale, il reale significato dell'espressione "massima sicurezza tecnologicamente possibile", che costituisce il limite massimo del dovere di prevenzione a carico del datore di lavoro.

Si é aperto infatti un vivace dibattito, in seguito all'emanazione del decreto legislativo n°277/911: esso sembrava costituire un cambiamento di rotta rispetto all'interpretazione rigorosa che, in passato, era stata data dell'art. 2087 c.c. per quanto riguarda il problema dell'aggiornamento tecnologico delle misure di sicurezza.

Per individuare il livello d'impegno richiesto al datore di lavoro dopo l'emanazione del d.lgs.n°626/94 bisogna procedere ad una ricognizione delle varie fonti normative che vengono in rilievo in subjecta materia: l'art. 32 Cost., in cui si riconosce la necessità di tutelare "la salute come diritto dell'individuo ed interesse della collettività", e l'art. 41 Cost., in cui si afferma che l'iniziativa economica "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana", attribuiscono un rilievo primario alla protezione dell'incolumità fisica del cittadino che svolge un'attività lavorativa dipendente2: infatti la subordinazione del fattore economico-produttivo all'esigenza di salvaguardia della salute dei lavoratori trova un solido fondamento giuridico nella Carta Costituzionale3.

Dall'art. 2087 c.c. si può poi ricavare l'obbligo a carico del datore di lavoro ad adempiere, nell'esercizio dell'impresa, all'obbligo di sicurezza, rispettando la sfera personale del lavoratore, dunque la sua integrità fisica e morale4.

La legislazione speciale contiene alcune norme a carattere generale, quale ad esempio l'obbligo di "attuare le misure di sicurezza previste", contenuto nell'art.4 d.p.r. n°547/55, ed altre di carattere più specifico, contenenti espressioni come "evidenti ragioni tecniche", "idoneamente", "sufficiente" e divieti di compiere operazioni pericolose, sempre che non siano richieste da particolari esigenze tecniche: questo secondo gruppo di norme é connotato da una relativizzazione compromissoria della tutela rispetto all'organizzazione della produzione5.

Per quanto riguarda la normativa di derivazione comunitaria, che ha quindi recepito nel nostro ordinamentale varie direttive comunitarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro, mentre il d.lgs. n°277/91 fa riferimento alle "misure concretamente attuabili", il d.lgs. n°77/92 prevede l'adozione delle "tecniche necessarie per evitare le condizioni di pericolo".

Norma-chiave per individuare il contenuto dell'obbligazione di sicurezza é l'art.2087 c.c. che impone al datore di lavoro di fare tutto quanto tecnologicamente possibile per garantire un ambiente di lavoro sicuro: secondo la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione ciò significa che la sicurezza non può essere subordinata a criteri di fattibilità economica e produttiva6: il datore di lavoro non potrà dunque addurre l'eccessivo costo delle misure antinfortunistiche come causa esimente dall'obbligo e dalla relativa responsabilità, nemmeno in caso di particolari difficoltà economiche e tecnico-produttive dipendenti da una situazione di crisi aziendale. Egli deve dunque adottare, in materia di sicurezza, tutte le misure messe a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico: deve quindi preoccuparsi di tenere costantemente aggiornate le misure e strumenti di protezione7.

Tale principio si é così consolidato in giurisprudenza che nulla é apparso in grado di scalfire la granitica certezza raggiunta sul punto: una conferma è costituita dall'atteggiamento tenuto dalla dottrina in tema di interpretazione del d.lgs. n°277/91. Esso utilizza l'espressione "concreta attuabilità"8 che si presterebbe, in linea teorica, ad essere interpretata come impositiva di un obbligo di sicurezza parametrato sia sul criterio della fattibilità tecnologica delle misure di sicurezza, sia sul criterio della fattibilità organizzativa, così che, adottando quest'ultimo punto di vista, l'introduzione delle misure antinfortunistiche andrebbe commisurata non a quanto possibile in base alle conoscenze della tecnica, ma a quanto possibile in base alle concrete esigenze organizzative dell'impresa9.

Quest'ultima impostazione10, ormai superata anche alla luce della nuova normativa introdotta con il d.lgs.n°626/94, prende spunto dal fatto che alcune direttive comunitarie in materia di sicurezza, tra le quali ad esempio la direttiva comunitaria n°188/1986, prescrivono un obbligo per i datori di lavoro di riduzione del rumore entro un limite minimo ragionevolmente praticabile tenuto conto del progresso tecnico e della disponibilità di misure di controllo alla fonte delle emissioni rumorose; viene cioè adottato un criterio che si distacca notevolmente da quello della "fattibilità tecnologica": l'accento viene spostato sulle esigenze della produzione che il nostro legislatore non ha mai inteso prendere in considerazione, assegnando invece priorità assoluta alla tutela dell'incolumità e della salute dei lavoratori, tanto da perseguirla come obiettivo primario, prevalente su ogni altro bene o interesse di rango costituzionale inferiore11.

Una tale interpretazione del d.lgs.n°277/91 però non ha trovato il conforto della dottrina maggioritaria12; in giurisprudenza vi é stata poi una rilettura dell’espressione in esame in termini estremamente rigorosi: tale rilettura ribadiva, anche in riferimento a questo decreto, l'obbligo da parte del datore di lavoro di fare tutto quanto tecnologicamente possibile per garantire un ambiente di lavoro sicuro13.

Il d.lgs.n°626/94 sembra convalidare questa seconda impostazione: infatti la riaffermazione della perdurante validità del principio della "massima sicurezza possibile" discende innanzitutto dalla necessità di inserire il decreto del 1994 in una posizione coerente e compatibile con il quadro normativo che lo precede, in particolare con l'art.32 Cost. e l'art.2087 c.c., la cui operatività non sembra venir meno in seguito all'entrata in vigore del decreto legislativo da ultimo citato; dalla lettura di alcuni articoli del recente decreto sembra quindi che si possa affermare che la conoscenza e la capacità tecnica costituiscono l'unico parametro per circoscrivere l'area dell'obbligo di sicurezza14.

Si può ricavare un'ulteriore conferma di questa tesi dall'analisi del 14°considerando e dell'art.6 comma 115 della direttiva n°391/89, nonché dell'art.3 e di altri articoli del d.lgs. che ha recepito la normativa comunitaria nell'ordinamento italiano16.

Parte della dottrina ritiene addirittura che quest'ultimo provvedimento normativo in materia comporterebbe un innalzamento, rispetto a quanto imposto dall'art.2087 c.c., del livello di impegno richiesto al datore di lavoro. Infatti gli articoli 3 comma 1 lett.b e 4 comma 5 lett.b del d.lgs. n°626/94 danno delle precise indicazioni in ordine all'individuazione del livello di impegno richiesto al datore di lavoro: la prima norma impone "l'eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico e ove ciò non é possibile, la loro riduzione al minimo"; la seconda richiede l'aggiornamento delle "misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza del lavoro, ovvero in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione e della protezione"17.

Se si confrontano infatti queste ultime norme con l’art. 2087 c.c. si può notare come in questo si faccia riferimento ai parametri della "particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica" per individuare le misure di prevenzione che il datore di lavoro è tenuto ad adottare18: il mancato richiamo invece nel d.lgs. n°626/94 al limite costituito dall' "esperienza" determinerebbe, secondo parte della dottrina, la costituzione addirittura di "un'obbligazione di risultato"19. La dottrina maggioritaria non ritiene, però, che questa omissione possa determinare un inasprimento dell'obbligo di prevenzione20: la stessa funzione a cui assolveva il richiamo all'esperienza viene ora assicurata tramite una complessa procedura di certificazione della legittimità delle misure antinfortunistiche in cui intervengono appositi soggetti istituzionali21. Sembra comunque forse permanere una differenza tra le due soluzioni accolte: infatti le disposizioni del d.lgs n°626 limitano entro la normalità l'impegno richiesto al datore di lavoro con modalità che comportano conseguenze differenti da quelle che derivano dall'applicazione del parametro dell'esperienza previsto nella norma codicistica: mentre in quest'ultimo caso, rinviando l'esperienza ad una situazione di fatto mediamente invalsa in un certo settore professionale, le regole del mercato assumono, seppure in via indiretta, rilevanza nell'individuazione del livello dell'impegno dovuto, nel d.lgs. il contenuto dell'obbligazione viene imposto, per così dire, dall'alto, cioé dagli organi istituzionali.

Un interrogativo connesso a questa problematica riguarda la rilevanza che deve essere ora riconosciuta all'art.2087 c.c.: gli art.3 e 4 del d.lgs. n°626 dettano le regole minime di condotta che non solo concorrono ad identificare i tratti caratterizzanti della figura del buon imprenditore, che normalmente l'interprete desume dall'art.1176 c.c., ma danno contenuto alla nozione di colpa ex art.43 comma 3 c.p.. Esse appunto fissano però solo la soglia minima dell'impegno richiesto al datore: nel caso in cui egli possieda conoscenze superiori a quelle di cui deve essere in possesso il buon datore di lavoro non si può non richiedergli un impegno superiore allo standard costituito dall'agente modello, perché altrimenti gli verrebbe concessa una sorta di immunità: in questo caso il parametro di giudizio imperniato sull'"agente modello" viene integrato dal criterio dell'esperienza ex 2087 c.c., formulandosi così una doppia valutazione della colpa22.

Se, in via di principio, la conferma della vigenza del canone della "massima sicurezza tecnologica" può essere accolta con favore, poichè non si può non privilegiare la salute del lavoratore rispetto alle istanze economiche e produttive, non si può tralasciare di sottolineare gli aspetti problematici che sorgono in sede di sua applicazione concreta: quello che per il lavoratore é la "sicurezza massima" per il datore di lavoro rappresenta la "minima certezza" per quanto riguarda l'estensione del suo obbligo di prevenzione: l'elasticità del criterio è tale da rendere difficile sapere se si è reso l'ambiente di lavoro sicuro e dunque se si é al riparo da possibili responsabilità penali per violazione della normativa antinfortunistica23.

Su questa situazione é infine intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n°312 del 199624 la quale, fissando un principio valido non solo per il rischio determinato dalle emissioni rumorose a cui si riferisce la causa de quo, ma per tutta la materia antinfortunistica25, abbandona definitivamente l'idea secondo la quale il datore di lavoro sarebbe obbligato non solo a rispettare le specifiche disposizioni prevenzionistiche, ma anche genericamente a fare "tutto il possibile" per evitare il danno all'integrità psico-fisica del lavoratore: essa in sostanza accoglie le perplessità che da più parte erano state sollevate sull'argomento26 in particolare in riferimento alla presunta violazione del principio di necessaria determinatezza delle fattispecie penali sancito dall'art.25 Cost.27.

La Corte costituzionale28 nella motivazione della sentenza afferma che "l'unica via per rendere indenne la tecnica utilizzata dal legislatore, cioè il generico riferimento alle "misure concretamente attuabili", per determinare il contenuto dell'obbligazione di sicurezza sia quella di fornire, in sede applicativa, una lettura tale da limitare in maniera considerevole la discrezionalità dell'interprete, restringere, cioè, secondo un'interpretazione costituzionalmente vincolata, le potenzialità dell'espressione, ritenendo che il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle diverse lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate ed ad accorgimenti organizzativi-procedurali altrettanto generalmente acquisiti: penalmente censurata sarà soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standards di sicurezza propri, in concreto e in un determinato momento, delle diverse attività produttive29. Dunque, prosegue la Corte, "il giudice, e prima di lui il datore di lavoro, dovrà chiedersi non tanto se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenze nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standard di produzione industriale o se sia specificatamente prescritta"30.

Questa sentenza, che tra le due interpretazioni del principio in esame, una idealistico-astratta ed una logico-funzionale, ha scelto quest'ultima, porta con sé delle implicazioni problematiche, se non addirittura pericolose: infatti l'affermare che l'obbligo dell'imprenditore consiste nel non deviare dagli standards concretamente diffusi, dovendo in sostanza applicare le misure già accolte dalle altre imprese, significa accogliere un sistema autoreferenziale di prevenzione, in cui sarà lo stesso sistema produttivo a circoscrivere l'obbligo di sicurezza; ciò può voler dire favorire un atteggiamento lassista o comunque di disimpegno da parte degli imprenditori31. Altro effetto negativo che potrebbe derivarne é quello di una mortificazione delle istanze partecipative sottese al decreto n°626/94: é prevedibile infatti che una logica autoreferenziale ed un atteggiamento defatigante delle imprese possano produrre un incremento della conflittualità con il sindacato su queste tematiche, dal momento che sarebbe quest'ultimo l'unico ad essere interessato a cercare di innalzare, evidentemente non solo e non tanto tramite lo strumento del dialogo, il livello di prevenzione e protezione in azienda; quel sistema partecipativo di relazioni industriali, auspicato da più parti, non potrebbe quindi trovare applicazione o comunque si realizzerebbe con maggiore difficoltà32.

Questa sentenza33 in definitiva sembra aver risolto il dibattito che si era aperto sul presunto diverso contenuto delle due espressioni "massima sicurezza tecnogicamente possibile" e "sicurezza concretamente o ragionevolmente praticabile"34: rivelano entrambi un ineliminabile carattere compromissorio, improntato sul canone della ragionevolezza, in vista del difficile equilibrio tra le esigenze dell'organizzativa produttiva e la tutela della salute dei lavoratori35; se si analizza infatti l'art 3 del d.lgs.n°626/94 (in particolare le lettere b-e-h) si può affermare che anche queste espressioni denotano l'intenzione del legislatore di evitare, nell'introduzione delle misure di sicurezza, una loro completa sottomissione alle esigenze dell'organizzazione del lavoro predisposta dall'imprenditore, ma anche una completa subordinazione di questa nei confronti delle prime36.

CAPITOLO III

LA RIPARTIZIONE INTERSOGGETTIVA DELL’OBBLIGAZIONE DI SICUREZZA NEL NUOVO QUADRO LEGALE

SEZIONE I

L’INDIVIDUAZIONE DEI GARANTI DELLA SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO

1. I REATI IN MATERIA DI IGIENE E SICUREZZA DEL LAVORO COME REATI PROPRI

La nozione di reato proprio assume un particolare rilievo nell’ambito del diritto penale dell'impresa1: con quest'ultima espressione si indica la legislazione penale emanata per "tutelare la sfera di attività e proteggere dalla sfera di attività", in cui si ha piuttosto che la protezione di un singolo bene con un suo titolare ben determinato, la tutela di un complesso di interessi i cui titolari sono spesso di difficile identificazione2. In particolare si fa riferimento ai riflessi penalistici di attività economiche organizzate, dirette alla produzione o allo scambio di bene e servizi, che hanno come centro di imputazione una pluralità di soggetti. In alcuni casi viene utilizzato per individuare il soggetto, che é destinatario del contenuto della norma e di conseguenza responsabile dell'inosservanza della disposizione normativa, un "nomen" specifico, ad esempio imprenditore, amministratore, direttore generale, sindaco; non é infrequente un richiamo diretto alle funzioni svolte o alla posizione ricoperta all'interno della struttura imprenditoriale, quali datore di lavoro, preposto, incaricato o rappresentante. Non mancano dei casi in cui il destinatario del precetto penalmente sanzionato è indicato con il termine "chiunque", anche se dal testo della norma traspare il collegamento con una funzione d'impresa costituente il presupposto dei vari reati fallimentari, societari ed in materia antinfortunistica; é proprio questo ricollegarsi ad un'attività economica finalizzata a produrre beni e a fornire servizi che fa che si sia di fronte, anche in questi casi, non a reati comuni, ma a reati propri, realizzabili soltanto da soggetti determinati in rapporto ad una particolare posizione giuridica o di fatto. Dunque, in particolare in relazione ai reati omissivi, l'utilizzo dell'espressione "chiunque" per qualificare il destinatario della norma penale denota un carattere solo apparentemente impersonale della formula sanzionatoria: mediante il riferimento all'obbligo di cui si tutela l'adempimento si viene a creare una figura di reato proprio, come se già nel testo della norma si fosse fatto riferimento alla nozione, ad esempio, di datore di lavoro o di dirigente3.

In particolare nel diritto penale del lavoro si usa spesso, per individuare i destinatari della normativa antinfortunistica, la tecnica del richiamo diretto alle funzioni svolte e alla posizione ricoperta all'interno della struttura aziendale4.

La dottrina é concorde nel ritenere necessario, per meglio qualificare la nozione in esame, distinguerla da quella di reato a struttura complessa, nel quale le modalità dell'azione o la possibilità della verificazione dell'evento sono subordinate alla presenza di determinate condizioni di tempo e di luogo5.

Dal momento che il presupposto affinché un reato possa essere qualificato come "proprio" risiede nella impossibilità di perpetrare la condotta tipica prevista dalla norma incriminatrice, sia essa del codice penale o di una legge speciale, in mancanza di una qualità nel soggetto attivo, non si può non cogliere la profonda diversità rispetto alla categoria dei reati a struttura complessa: vi é infatti differenza tra l'impossibilità teorica che un soggetto possa diventare autore di un reato per mancanza di una qualità richiesta dalla legge e l'impossibilità pratica di tale realizzazione per un impedimento fisico o per una qualsiasi altra circostanza.

Ne consegue che solo nella prima ipotesi siamo di fronte ad un reato proprio, mentre nella seconda ad un reato comune a struttura complessa, dal momento che in quest'ultimo caso destinatari delle norme penali sono anche coloro che per ragioni di tempo, di luogo o per altre circostanze non possono realizzare in concreto determinati reati6.

In particolare nel reato proprio il precetto viene formulato non nei confronti della generalità dei consociati, ma di una sfera più limitata di destinatari, che devono essere in possesso di particolari requisiti e qualità: dunque alcuni reati possono essere commessi da chiunque e come tali sono detti "comuni"; altri richiedono un particolare presupposto soggettivo e possono quindi essere realizzati da determinate categorie di persone e sono detti reati propri7.

La posizione che i soggetti attivi del reato rivestono deve essere inoltre preesistente rispetto al precetto penale8 e deve assumere il ruolo di elemento costitutivo: ciò si verifica sia quando la condotta se posta in essere da un soggetto non qualificato risulta lecita o irrilevante sia quando configura un diverso titolo di reato (si parla di efficacia c.d. differenziatrice); rimangono escluse dall'ambito dei reati propri da una parte le ipotesi in cui la posizione del soggetto svolga una funzione modificativa, che cioè attenua o aggrava il reato, dall'altra quelle in cui essa assuma un ruolo impeditivo, escludente quindi la punibilità dello stesso. Vi é stato però, in passato, un vivace dibattito in ordine all'esatta identificazione del posto da assegnare, nella struttura del reato, alla posizione dell'agente: una parte della dottrina la considera quale presupposto del reato, mentre la dottrina prevalente, pur riconoscendo che reo e bene giuridico costituiscono in linea generale dei presupposti generali del reato, poiché nessun reato è concepibile se manca un soggetto attivo che compia l'azione ed un interesse tutelato sul quale quest'ultima incida, ritiene che, se l'azione non é concepibile o se l'evento, così come descritto nella fattispecie, non si può verificare in mancanza di quella determinata qualità del reo, la posizione in cui il soggetto attivo si trova non potrà più essere considerata presupposto del reato, ma elemento del fatto, cioè circostanza costitutiva9. Inoltre, sempre secondo l'opinione prevalente, la qualificazione del soggetto agente condiziona e plasma tutta la dinamica del fatto tipico: da essa dunque la condotta esecutiva non si può scindere senza snaturarsi.

Questa qualificazione soggettiva dell'autore del reato proprio é il segno della volontà dell'ordinamento di stabilire una relazione tra il soggetto agente ed una norma, in quanto da tale rapporto derivino determinate conseguenze giuridiche: infatti le situazioni naturalistiche nelle quali il soggetto attivo deve trovarsi per poter diventare autore del reato proprio, definite anche "posizioni agiuridiche"10, quali ad esempio essere maschio o femmina in relazione al reato di aborto, sono superate per importanza e quantità dalle "posizioni giuridiche", cioè da posizioni qualificate espressamente dalla legge, siano esse posizioni giuridiche di diritto pubblico11 o di diritto privato. Sono queste ultime che interessano in particolar modo la disciplina della prevenzione degli infortuni sul lavoro e malattie professionali.

La posizione del soggetto attivo in questo tipo di reato si riverbera anche sul fatto costitutivo di reato: la dottrina l'ha da tempo definita come un modo d'essere dell'autore rispetto al bene giuridico; ciò costituisce la base della legittimazione del reato: solo quindi quei determinati soggetti sono "legittimati" al compimento del reato, idonei quindi a determinare, con i loro atti, determinati effetti giuridici in ragione della loro posizione12. Infatti non tutti i consociati si trovano, nei confronti dei beni giuridicamente tutelati, sullo stesso piano, perché talvolta solo a certe categorie di individui in ragione della loro posizione é data la possibilità di ledere gli interessi protetti o solo da alcune categorie di persone il legislatore esige, in vista del raggiungimento dei suoi scopi particolari, il compimento di determinate azioni, riconoscendo loro, di conseguenza, la possibilità di ledere certi beni attraverso un comportamento omissivo13.

La previsione, all'interno di una fattispecie penale, di eventuali requisiti di legittimazione deve, però, esprimere un effettivo rapporto di condizionalità teleologica tra la posizione del soggetto e la tutela di quel determinato interesse: non avrebbe senso che la legge identificasse l'elemento personale di un determinato reato in qualità (o status) non significativi per l'oggetto dell'incriminazione, perché in tal caso realizzerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento14.

Dunque per comprendere la reale portata della categoria dei reati propri bisogna appuntare l'attenzione sulla relazione che si instaura tra soggetto attivo ed interesse tutelato15: dal momento che solo chi possiede determinate qualità personali é in grado mettere in pericolo il bene-interesse protetto dalla norma16, l'individuazione da parte del legislatore di quali cittadini qualificare come destinatari del precetto contenuto nelle norme, che appunto contemplano reati propri, non é lasciata alla sua piena discrezionalità; quest'ultima é, invece, vincolata proprio dalla natura del bene protetto17, la cui modalità di lesione dipende appunto dall'individuazione di un soggetto qualificato.

E' questo, secondo parte della dottrina, il tratto caratterizzante il reato proprio: il riferimento in via astratta alla qualificata soggettiva incide non sul piano dell'identificazione dell'interesse, ma su quello del disvalore della condotta. Viene così identificata la relazione di "affidamento" che deve sussistere tra il titolare delle condizioni soggettive e l'interesse protetto: dunque, per fare un esempio, nel reato di lesioni colpose ex art. 590 c.p. l'interesse sostanziale protetto é il medesimo interesse all'integrità fisica che viene preso in considerazione nelle varie contravvenzioni in materia antinfortunistica, ma l'elemento ulteriore e specifico che contraddistingue queste ultime é il particolare disvalore della condotta incentrato sulla violazione di un dovere; la modalità di lesione di un bene giuridico dipende infatti dall’individuazione di un soggetto qualificato18.

 

2. segue: LE FATTISPECIE OMISSIVE IN MATERIA ANTINFORTUNISTICA

Nell'ambito del diritto penale del lavoro il legislatore ha fatto ricorso in modo assai consistente alle fattispecie omissive1, per approntare una tutela efficace dell'integrità psico-fisica del lavoratore2: vengono imposti a soggetti che rivestono una posizione di vertice o comunque un ruolo preminente, quali ad esempio i datori di lavoro3, nell'impresa obblighi positivi di condotta penalmente sanzionati.

Nella legislazione dettata in materia antinfortunistica ritroviamo fattispecie omissive riconducibili alle categorie dei reati sia omissivi propri (echte Unterlassungsdelikte) che impropri (unechte Unterlassungsdelikte). Questa ormai classica bipartizione viene fondata dalla dottrina in base a criteri diversi: il tradizionale criterio di distinzione fa leva sulla necessità o meno della presenza, come requisito strutturale del reato, di un evento4.

L'essenza del reato omissivo é la disobbedienza ad un comando giuridico di attivarsi: nel momento della disobbedienza si ha la lesione dell'interesse tutelato dalla norma; poiché la lesione dell'interesse costituisce l'evento del reato, quest'ultimo coincide con la disobbedienza, cioé con il non compimento di una determinata azione prevista come obbligatoria da una norma. Quindi se si considera l'evento un risultato della condotta, almeno logicamente, se non cronologicamente, distinguibile da essa, così da potersi configurare tra i due elementi un nesso di causalità, non si può non condividere l'affermazione che i reati omissivi propri siano reati senza evento.

Benché dall'omissione possano conseguire eventi indesiderati, all'omittente si fa carico di non aver posto in essere l'azione doverosa e non di non aver impedito il verificarsi degli eventuali risultati dannosi connessi alla condotta omissiva: quindi l'omissione viene, dal punto di vista del diritto penale, "apprezzata di per se stessa".

I reati commissivi mediante omissione, detti anche impropri, consistenti nella violazione dell'obbligo di impedire il verificarsi di un evento tipico ai sensi di una fattispecie commissiva-base, si avrebbero invece in quei casi nei quali un evento, la cui produzione é vietata dalla legge penale, sia ricollegabile causalmente ad un'omissione anzichè ad un'azione4 bis.

Altra parte della dottrina ritiene, invece, più appropriata una distinzione che attribuisca rilevanza alla diversa tecnica di tipizzazione adottata dal legislatore: il reato improprio, secondo questa seconda impostazione, sarebbe quello caratterizzato dal fatto di non essere contemplato da alcuna previsione legislativa espressa; partendo dalla considerazione che la fattispecie in esame nasce, nel nostro ordinamento, dalla combinazione tra la clausola generale contenuta nell'art. 40 cpv. e le singole norme di parte speciale incentrate su di un reato d'azione e trasformate in fattispecie omissive per via di interpretazione giudiziale, si giunge ad affermare che non costituisce una fattispecie autonoma, ma una particolare manifestazione di un reato che é descritto fondamentalmente come un reato d'azione.

Questa, che è l'impostazione meno recente della figura in esame5, é stata sostituita da una visione che ritiene invece quest'ultima dotata di un'autonomia strutturale rispetto alle fattispecie commissive: a differenza dei reati d'azione che contravvengono ad un divieto, il reato omissivo, sia esso proprio o improprio, é previsto da norme che contengono comandi; vi é dunque differenza nella natura della condotta richiesta: il divieto esige un'omissione, il comando invece il compimento di un'azione.

Vengono invece definiti propri gli illeciti omissivi direttamente configurati come tali dal legislatore, prescindendo dalla presenza nella loro struttura di un evento naturalistico6.

Il reato omissivo improprio ha suscitato notevoli problemi interpretativi: solo negli ultimi tempi si é verificato sui vari aspetti di questa figura una convergenza della opinioni dottrinali; in particolare per quanto riguarda il problema relativo all'efficacia causale dell'omissione si afferma che per determinare il nesso omissione-evento viene emesso un giudizio ipotetico o prognostico7. Il problema consiste nel verificare se ed in che modo l'eventuale compimento dell'azione dovuta avrebbe inciso sul corso degli eventi ed in particolare se avrebbe evitato il verificarsi dell'evento dannoso: per risolverlo il giudice suppone mentalmente come realizzata l'azione doverosa omessa e si chiede se, in presenza di essa, l'evento lesivo sarebbe venuto meno8.

Dunque, qualunque sia l'espressione accolta9, bisogna tener presente che non si tratta di un rapporto causale vero e proprio, ma di un suo equivalente ai fini dell'imputazione giuridica al soggetto garante dell'evento non impedito: é proprio quest'ultimo l'elemento caratterizzante la figura del reato omissivo. Infatti nessun cittadino può essere chiamato a rispondere per il semplice fatto che un suo soccorritore avrebbe scongiurato la lesione di beni giuridici altrui: dunque il dovere di impedire che si verifichino eventi lesivi si configura solo in presenza di un'esplicita previsione normativa: presupposto dunque della responsabilità penale é la violazione di un obbligo giuridico di impedire l'evento10, che viene posto a carico di determinati soggetti per assicurare a determinati beni una tutela rafforzata, data l'incapacità dei loro titolari a proteggerli in modo adeguato11.

Ai primi viene quindi attribuita la posizione di garanti dell'integrità dei beni che l'ordinamento ha interesse a salvaguardare. La posizione di garanzia appare basata su di un dato strutturale che differenzia l'omissione del garante dalle condotte omissive imputabili a chi non rivesta uno speciale obbligo di protezione nei confronti del bene tutelato: tale elemento consiste nel fatto che il garante possiede un potere di signoria su alcune condizioni essenziali per il verificarsi dell'evento tipico.

Questa natura speciale del vincolo di tutela comporta infatti un'importante conseguenza: gli obblighi di garanzia hanno un carattere speciale perché incombono soltanto su alcuni soggetti, i garanti appunto, e non sulla generalità dei cittadini12.

Le posizioni di garanzia vengono inquadrate dalla dottrina prevalente in una bipartizione13: posizioni di protezione e posizioni di controllo. A questo secondo gruppo sono riconducibili i vari obblighi di garanzia, alcuni espressamente formulati nel codice penale (art. 437 e 451 c.p.) ed altri nella legislazione speciale, che incombono sul datore di lavoro e sugli altri destinatari della normativa antinfortunistica. Queste posizioni di garanzia, come d'altronde anche le posizioni di controllo, possono essere ulteriormente distinte in originarie e derivate: le prime nascono in capo a determinati soggetti in considerazione dello specifico ruolo o della speciale posizione di volta in volta rivestita; le seconde, invece, vengono trasferite dal titolare originario ad un diverso soggetto, per lo più, tramite un atto di natura negoziale14.

In materia di salute e sicurezza del lavoro esistono dunque una serie di obblighi di impedimento di eventi dannosi di cui sono titolari, innanzitutto, l'imprenditore individuale o i vertici societari nelle persone giuridiche. Nel diritto penale del lavoro le posizioni di garanzia assumono caratteri peculiari: mentre infatti in genere nel diritto penale l'ambito di operatività delle posizioni di garanzia è limitato ai reati omissivi, in particolare a quelli impropri, in materia di salute e sicurezza del lavoro le ipotesi di reato, assumano esse la forma commissiva od omissiva, devono essere considerate come fattispecie collegate a posizioni di garanzia. Ciò costituisce l'applicazione di un principio generale, secondo il quale la supremazia sociale del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori trova una propria specifica articolazione nel dovere, che su di lui incombe, di garantire il rispetto delle norme che l'ordinamento ha stabilito debbano essere osservate nell'impresa, di cui é a capo15.

Conseguenza di questo modo di affrontare il problema della responsabilità penale connessa all'attività d'impresa é il fatto che non è frequente assistere, sul terreno della criminalità d'impresa, ad un'applicazione delle disposizioni sul concorso nel reato, vale a dire alla punizione delle varie persone che hanno attivamente cooperato, con adeguato elemento psicologico, nella realizzazione del fatto tipico: tramite uno speciale meccanismo di selezione dei responsabili vengono penalmente perseguiti determinati soggetti16.

La dottrina17 giunge a queste conclusioni analizzando ancora una volta l'art. 41 Cost., norma-chiave nella nostra materia: da essa si può dedurre che é il titolare dell'iniziativa economica che viene identificato come garante; egli dovrà infatti sopportare le possibili ricadute nocive dell'attività da lui esercitata per lo più in forma imprenditoriale. L'orientamento trova conferma nella struttura gerarchica dell'impresa, così come viene delineata dal codice civile18: dal momento che l'impresa costituisce fonte di pericoli per l'integrità psico-fisica del lavoratore, il controllo di essi presuppone il potere direttivo che la legge espressamente riconosce all'imprenditore; a quest'ultimo infatti l'art. 2087 c.c. affida la tutela (o garanzia) dell'integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro19.

In una situazione di questo tipo però il ritenere tale soggetto penalmente responsabile per gli eventi lesivi verificatisi e collegati alla violazione dei vari obblighi di prevenzione in materia anche quando l'adempimento di essi fosse stato affidato ad altri soggetti, nel quadro di un più generale riparto delle attribuzioni conseguente alla complessità e dimensioni dell'impresa, significherebbe, da una parte, evitare il pericolo che la c.d. "organizzazione della responsabilità", la ripartizione cioé dei compiti e la preposizione di soggetti diversi ai vari settori dell'azienda, si possa trasformare in "irresponsabilità organizzata", utilizzandosi degli "uomini di paglia", su cui vengono addossate le responsabilità che invece dovrebbero gravare sui vertici societari, dall'altra ciò vorrebbe dire però addossare al capo dell'impresa una responsabilità sostanzialmente per fatto altrui, poiché gli si imputerebbe il mancato compimento di un'azione che non poteva realizzare e che era stata affidata ad altri.

La giurisprudenza prevalente, in ciò confortata da gran parte della dottrina, risolve tale problema attraverso l'istituto della delega di funzioni20.

3. I GARANTI DELLA SICUREZZA: RIPARTIZIONE DELLE POSIZIONI DI GARANZIA IN BASE AL PRINCIPIO DI EFFETTIVITA', REGOLA CARDINE NELL’INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI DESTINATARI DEGLI OBBLIGHI PREVENZIONISTICI

Il principale problema posto dal diritto penale dell'impresa ed in particolare dalla legislazione in materia di prevenzione degli infortuni e malattie professionali é costituito dalla individuazione in concreto dei soggetti destinatari delle norme penali; dalla sua risoluzione dipende l'altra importante questione relativa alla ripartizione delle responsabilità penali in azienda e alla configurabilità della delega di funzioni.

In materia di igiene e salute di sicurezza, mentre l'art. 2087 c.c. indicava come un unico destinatario dell'obbligazione di sicurezza l'imprenditore, a partire dall'emanazione dei decreti degli anni cinquanta1 si afferma un diverso principio consistente in una ripartizione degli obblighi in materia tra datori di lavoro, dirigenti, preposti e lavoratori, che ha come punto di riferimento "l'ambito delle attribuzioni e delle competenze"2, di cui essi sono dotati.

Questa quadripartizione é stata accolta anche nel d.lgs. n°626/94: si ha quindi una diffusione delle responsabilità nel quadro dell'organizzazione aziendale, in cui non può prescindersi dall'attribuzione di specifiche mansioni e competenze, cioè dalla distinzione dei ruoli.

Alla base della riproposizione di un modello già consolidato di ripartizione del carico di sicurezza c'é la convinzione di poter in questo modo assicurare una scrupolosa osservanza degli imperativi legali: la configurazione di un'obbligazione diffusa e la conseguente moltiplicazione dei soggetti tenuti all'adempimento sono tratti coerenti con la particolare natura degli obblighi in materia; essi infatti richiedono che vengano realizzati interventi da parte dei vari livelli della gararchia aziendale3.

La pluralità dei soggetti rende, però, difficoltosa l'individuazione del soggetto penalmente responsabile nel singolo caso concreto. Il pericolo é duplice: da una parte vi é il rischio di "far slittare la responsabilità verso il basso" esentando proprio l'imprenditore-datore di lavoro, che è il principale garante della sicurezza, dall'altra si potrebbe colpire ingiustamente chi sta al vertice di una grossa impresa, articolata in una pluralità di stabilimenti; costui non ha in concreto la possibilità, e di conseguenza il dovere, di controllare che in ognuno di essi siano state adottate le misure antinfortunistiche che la legge richiede3 bis.

Datore di lavoro, dirigente, preposto e lavoratore rispetto alla materia "de qua" non solo sono obbligati a comportamenti via via diversi e di rilevanza, dal punto vista dell'obiettivo prevenzionistico, decrescente, ma si rapportano all'obbligo generale di sicurezza in modo differenziato: mentre infatti il datore di lavoro é soggetto obbligato, in via primaria e necessaria4, al rispetto delle norme in materia, é cioé destinatario essenziale della normativa prevenzionistica5, nelle strutture organizzative meno complesse le figure del dirigente e del preposto possono non essere presenti, senza che ciò condizioni la vincolatività delle norme sulla sicurezza del lavoro: l'impossibiltà di ripartire tra più soggetti la titolarità passiva degli obblighi scaturenti da esse determina l'imputazione integrale del debito di sicurezza a carico del datore di lavoro, in quanto unico soggetto dotato dei poteri necessari all'attuazione delle misure antinfortunistiche.

Bisogna però sgomberare il campo da un possibile equivoco: gli obblighi che gravano sui dirigenti, preposti e lavoratori non hanno carattere derivativo; le posizioni di garanzia che essi ricoprono non hanno cioé un fondamento negoziale, ma legale6. La sfera dei doveri derivante dall'essere dirigente o preposto é determinata direttamente dalla legge, e non dall'atto di attribuzione dell'incarico corrispondente: quest'ultimo infatti determina il settore del quale il soggetto é reso responsabile ed i poteri che gli vengono attribuiti; il contenuto dei vari doveri connessi al ruolo ricoperto, avendo essi carattere eminentemente pubblico, in quanto sono finalizzati alla tutela di interessi di terzi, é determinato dalla legge e non può essere rimesso all'autonomia privata7.

Il quadro legale quindi delinea una complessa relazione giuridica all'interno della quale il datore di lavoro, il dirigente, il preposto ed il lavoratore sono titolari "iure proprio" ed in relazione alle reciproche competenze di una frazione dell'obbligazione di sicurezza: la centralità del posizione datoriale non é infatti incompatibile con l'attribuzione di un ruolo, nella materia in esame, anche ad altri soggetti.

Questo modello di suddivisione del debito prevenzionistico di fonte legale può essere, in presenza di determinati presupposti e a certe condizioni, in parte modificato: l'istituto della delega di funzioni è infatti uno strumento autonomo di gestione del debito di sicurezza, che interviene appunto sull'assetto delineato dal legislatore7 bis.

Infatti il decreto legislativo n° 626/94, per quanto riguarda le varie figure professionali prese in esame, il datore di lavoro, il dirigente, il preposto ad esempio, si limita a prevedere e disciplinare gli obblighi propri di ciascuna di esse, che quindi su ciascuna di esse sicuramente gravano, in quanto rientrano nell'ambito delle loro normali attribuzioni e competenze; non considera invece quegli ulteriori compiti ed obblighi che possono essere ad esse attribuite in virtù di una delega espressa di funzioni, dotata dei requisiti formali e sostanziali richiesti per la sua efficacia8.

La dottrina é concorde nel ritenere però che la posizione di destinatario legale di determinati doveri penalmente sanzionati, in quanto determinata dalla legge, non possa essere ceduta tramite un atto di autonomia privata, a meno che non si dismetta il ruolo, con i connessi poteri, a cui la legge si riferisce9. La delega di funzioni infatti, in quanto costituisce uno strumento di devoluzione volontaria del carico obbligatorio, alterante quindi la quadripartizione legale dell'obbligazione di sicurezza, non determina una cessione integrale della posizione di garanzia, in origine gravante ad esempio sul datore di lavoro, ma la creazione di un'ulteriore posizione di garanzia sostitutiva ed una contemporanea modificazione del contenuto di quella originaria. La questione infatti della responsabilità penale del datore del lavoro deve essere affrontata considerando la delega di funzioni come possibile modalità di adempimento dell'obbligazione di sicurezza, in vista dell'esigenza di una maggiore tutela di un bene giuridico primario, quale l'integrità psico-fisica del lavoratore10. Non si può negare infatti al soggetto garante, destinatario della normativa antinfortunistica, la libertà di scegliere il modo attraverso cui adempiere agli obblighi in materia: nell'ambito dei compiti di direzione ed organizzazione dell'attività imprenditoriale é consentito ricorrere all'attività di terzi, mediante una ripartizione delle funzioni, per adempiere agli obblighi legali, la cui esecuzione non possa essere materialmente effettuata dal soggetto formalmente responsabile.

Si riconosce quindi al datore di lavoro un'ampia libertà di scelta in ordine al modo in cui organizzare il lavoro e curare l'adempimento degli obblighi penalmente sanzionati: egli però, dopo aver scelto il modo con cui ottemperare al disposto normativo, e proprio per questo motivo, rimane garante, di fronte all'ordinamento, del suo effettivo funzionamento e quindi della correttezza del'adempimento11.

Si ha dunque una modificazione del contenuto dell'obbligo di garanzia gravante sul delegante-datore di lavoro; esistono infatti adempimenti non delegabili, quali gli obblighi di vigilanza e controllo sull'operato del delegato e quelli tipicamente datoriali perché connessi in modo inscindibile con la titolarità dei poteri di impostazione generale della politica di sicurezza in azienda: ne consegue l'impossibilità per il delegante di invocare la propria totale irresponsabilità penale in ordine a quella sfera di proprie competenze non delegabili in quanto legate da un vincolo necessario con la sua stessa qualità di datore di lavoro12.

A questo punto é però necessario determinare a che titolo il datore di lavoro debba essere ritenuto penalmente responsabile: la dottrina é divisa tra chi ritiene che una delega efficace abbia rilevanza oggettiva, sul piano della tipicità, e chi le attribuisce rilevanza soggettiva, sul piano della colpevolezza13. Sembra forse preferibile accogliere questa seconda impostazione: ogni qual volta si verifica un evento lesivo si dovrà verificare se il datore di lavoro abbia o meno adempiuto al suo dovere di impedimento dell'evento e quindi l'elaborazione giurisprudenziale in tema di requisiti di validità ed efficacia della delega di funzioni si risolve nella determinazione delle condizioni di adempimento degli obblighi dei quali il delegante é destinatario, in particolare con riferimento al dovere di sicurezza.

La delega avrebbe dunque, seconda questa teoria, valore sul piano dell'elemento psicologico: dovrà quindi essere presa in considerazione la questione della concreta valutazione dei limiti dell'esigibilità, in relazione alle caratteristiche dell'organizzazione aziendale, di una determinata condotta; si dovrà quindi valutare se vi fosse per il datore di lavoro la possibilità soggettiva di esercitare un controllo sull'espletamento dei compiti affidati, mediante delega, ad un altro soggetto14. La sfera dei doveri deve essere quindi agganciata a quella dei poteri, per non cadere in forzature o presunzioni in malam partem: la personalità della responsabilità penale nelle fattispecie omissive é assicurata infatti dall'elemento che rende possibile equipare, dal punto vista giuridico, il non impedire l'evento al causarlo, la signoria cioé del soggetto su alcune condizioni che concorrono alla produzione del risultato15 16.

A questo punto si impone una doverosa precisazione: sia lo schema legale quadripartito sia l'operatività dello strumento della delega sono subordinati all'effettività delle attribuzioni. Il criterio dell'effettività stempera la dicotomia tra il modello legale di ripartizione intersoggettiva ed il diverso modello risultante dalla delega del debito prevenzionistico: infatti sia il primo che il secondo sono normalmente subordinati all'effettivo riconoscimento ai soggetti coinvolti ai vari livelli delle competenze in tema di sicurezza17.

Questa, che è l'impostazione accolta dalla dottrina pressoché unanime18, ha trovato conforto nella giurisprudenza19, che ha interpretato il riferimento alle "rispettive attribuzioni e competenze", contenuto nell'art.1 comma 4 bis come comportante la necessità di prescindere dalla qualificazione astratta dei rapporti che intercorrono tra i vari soggetti, dovendo invece avere rilevanza l'esercizio delle mansioni: questa prevalenza della situazione reale su quella apparente é risultata una scelta obbligata nel momento in cui il legislatore ha inteso far derivare dall'inosservanza delle norme in materia di prevenzione conseguenze penali, dato che, nel nostro ordinamento, è stato accolto il principio della personalità della responsabilità penale.

Il nodo problematico riguarda però proprio l'esatto significato da attribuire al canone dell'effettività che non deve assumere una caratterizzazione meccanicistica e semplificante: non si deve cioé procedere ad una valorizzazione esclusiva della circostanza esteriore ed episodica dell'esercizio di determinate prerogative da parte di un certo soggetto e fondare su questo solo fatto l'imputazione dell'obbligo di osservanza della normativa antinfortunistica. Secondo l'opinione della migliore dottrina non si può non procedere ad una più attenta analisi dei criteri endoaziendali di ripartizione dei compiti20: lo studio delle varie norme che provvedono a distribuire poteri, doveri e connesse responsabilità tra i vari soggetti coinvolti permette di stabilire in concreto chi possa e, nello stesso tempo, debba tenere quel determinato comportamento imposto dalla legge ed emettere quindi a suo carico un giudizio di responsabilità per l'eventuale omissione a lui addebitabile.

Emerge quindi un modello in cui al carattere diffuso dell'obbligazione di sicurezza e alla conseguente imputazione plurisoggettiva del debito prevenzionistico non può che corrispondere una ripartizione dei comportamenti esigibili, in cui si abbia una stretta correlazione tra questi ultimi ed i poteri di direzione autonoma attribuiti al singolo soggetto, secondo un criterio fedele al reale assetto organizzatorio dell'impresa e refrattario ad ogni schematizzazione aprioristica21.

Si ha quindi una suddivisione del carico prevenzionistico tra tutti coloro che, ai vari livelli gerarchici, sono titolari di una quota più o meno rilevante di poteri di intervento sull'ambiente di lavoro, sul processo produttivo e sulle modalità di esecuzione della prestazione; questo coinvolgimento, per così dire globale, si fonda sulla convinzione che la sicurezza nei luoghi di lavoro sia un obiettivo che si può raggiungere solo attraverso la responsabilizzazione, oltre che del datore di lavoro, di tutti gli altri soggetti che possono avere un ruolo in materia.

In conclusione sembra essere questa la soluzione da preferire riguardo al problema dell'individuazione dei soggetti a cui ricollegare le varie posizioni di garanzia: siamo quindi in presenza di un'operazione a carattere, per così dire, interdisciplinare, in quanto si sviluppa in due fasi: la prima, improntata su schemi tipici del diritto civile, postula l'accertamento e la delimitazione dei connotati qualificanti delle varie categorie attraverso l'utilizzazione dello strumentario giuslavoristico classico, la seconda, prettamente penalistica, comporta "la rilettura di queste nozioni in modo da depurarle da eventuali incrostazioni formali"22 e giungere così ad identificare i soggetti passivi dell'obbligazione di sicurezza in coloro che, ai diversi livelli, risultino realmente titolari delle prerogative, di cui normalmente, ma non necessariamente, sono dotati coloro che rivestono il ruolo di datore di lavoro, dirigente e preposto23.

 

SEZIONE II

I GARANTI DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI NELLE IMPRESE PRIVATE

1. IL DATORE DI LAVORO E L’OBBLIGAZIONE DI SICUREZZA: LA DEFINIZIONE E I CONNESSI PROBLEMI DI IDENTIFICAZIONE DI QUESTA FIGURA

Con il d.lgs.n°626/94 viene formulata, per la prima volta, una nozione di datore specifica per la materia della salute e sicurezza sul lavoro, quindi con efficacia limitata ad essa1; infatti nei vari decreti emanati negli anni '50 non era presente la definizione di datore di lavoro: comunque parte della dottrina2 e della giurisprudenza3 con un attenta attività esegetica erano già giunte alla conclusione indicata nel testo dell'art.2 facendo ricorso non tanto a categorie tipiche della normativa civilistica e giuslavoristica, di difficile adattamento in un diverso sistema normativo, quale é quello penale, ma soprattutto al principio di effettività che già prima dell'emanazione del nuovo decreto legislativo veniva considerato utile strumento per individuare i soggetti garanti della sicurezza.

Veniva dunque fatto di volta in volta riferimento per individuare le figure soggettive rilevanti nell'ambito del sistema di sicurezza e tra queste in particolare il datore di lavoro, quale soggetto cui imputare in via principale l'obbligazione di sicurezza, alla reale assegnazione di compiti e al concreto svolgimento di attività, non attribuendosi quindi rilevanza esclusiva alla mera qualifica formale se non accompagnata e sorretta dalla titolarità di poteri sufficienti ad attuare le misure prescritte o a garantirne l'osservanza.

D'altronde una precisa nozione di datore di lavoro sembra, ad una prima analisi superficiale, mancare anche nel codice civile; infatti il Titolo II del libro V del codice civile, che disciplina specificamente il lavoro nell'impresa, non fornisce alcuna definizione della figura del datore di lavoro, alla quale tuttavia il legislatore ha mostrato di riferirsi con grande frequenza nell'ambito delle norme costituenti il diritto del lavoro.

Sul piano civilistico la definizione può essere enucleata in via indiretta dalla nozione che il codice civile fornisce della figura del prestatore di lavoro subordinato, controparte del datore di lavoro nel rapporto contrattuale, nell'art.2094 c.c., in base al quale "é prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore": sulla base di detta disposizione codicistica il datore di lavoro può identificarsi nel soggetto che riceve la prestazione di lavoro in forma subordinata utilizzando le energie altrui e corrispondendo la relativa retribuzione4.

Questa definizione, che ha costituito il primo punto di riferimento per l'opera interpretativa della giurisprudenza e della dottrina non può però essere trasferita "sic et sempliciter" nella materia della salute e sicurezza sul lavoro: deve subire un processo di adattamento, sia in ragione della diversa e più ampia nozione di lavoratore subordinato presente nei dpr. n°547/55 e n°303/56, nonché nel d.lgs. n°626/94, sia per l'operatività del principio della personalità della responsabilità penale ex art.27 Cost..

Poiché infatti in base all'art.3 del dpr.n°5475 per lavoratore subordinato si intende colui che fuori dal proprio domicilio presta il proprio lavoro alla dipendenze e sotto la direzione altrui, con o senza retribuzione, anche al solo scopo di apprendere un mestiere, un'arte o una professione ...", la nozione penalistica di datore di lavoro é più ampia di quella civilistica6 .

Gli interpreti hanno dovuto perciò appuntare la propria attenzione al fine di individuare a chi imputare in via principale l'obbligazione di sicurezza essenzialmente, oltre che sull'art.2087 c.c., sul corpus normativo costituito dai vari decreti degli anni '50.

Sebbene l'art.2087 c.c. usi il termine "imprenditore"7, l'orientamento giurisprudenziale unanime8, suffragato dall'opinione della dottrina prevalente9, é stato nel senso di ampliare questa nozione ricomprendendovi ogni datore di lavoro compresa la pubblica amministrazione. L'articolo in esame viene dunque considerato applicabile anche al datore di lavoro che non sia imprenditore, cioé che non "eserciti professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi"10; alla base di questo ragionamento vi é l'analisi della ratio di questa disposizione: l'obiettivo é garantire l'integrità fisica del lavoratore in relazione a qualunque attività lavorativa a prescindere dall'esistenza di un'organizzazione in forma d'impresa.

D'altronde un'interpretazione dell'art.2087 c.c. rigorosamente ancorata al dato letterale provocherebbe conseguenze non del tutto coerenti con la finalità prevenzionali che la norma intende perseguire: il datore di lavoro non imprenditore sarebbe obbligato a rispettare il disposto dei vari decreti emanati negli anni '50 e a comportarsi secondo normale prudenza, non invece ad aggiornarsi secondo i più evoluti dettami della tecnica e fare quanto possibile per evitare ogni evento dannoso, secondo un criterio di diligenza qualificata e di responsabilità aggravata, sancito dall'art. 2087 c.c.; ciò provocherebbe inoltre un'irrazionale disparità di trattamento dei lavoratori dipendenti da un datore di lavoro non imprenditore rispetto a quelli che lavorano all'interno di un'impresa: in particolare si determinerebbe una protezione meno intensa dei primi con conseguente violazione degli art.3 e 32 Cost11.

In base poi alla valorizzazione dell'efficacia precettiva dell'art.35 Cost., secondo cui "il lavoro deve essere tutelato in tutte le sue forme", nella generica dizione "imprenditore" possono e debbono essere ricompresi anche i "piccoli imprenditori"12; la Corte di Cassazione ha esteso la tutela alle ipotesi in cui l'attività lavorativa sia svolta a titolo di mero favore13 e al caso in cui sia svolta dal lavoratore una mansione diversa da quella specificamente affidatagli14; ha fatto inoltre gravare sul committente la responsabilità per il mancato apprestamento dei mezzi di prevenzione contro gli infortuni in ipotesi di lavoro a domicilio15; la giurisprudenza in questa sua opera di integrazione del testo legislativo ha trovato il conforto di gran parte della dottrina16.

I decreti in materia di salute e sicurezza sul lavoro emanati negli anni '50 invece, pur non fornendone una definizione, si riferiscono al datore di lavoro quale principale destinatario della normativa in esame: la sua individuazione, che per il legislatore degli anni '50 doveva sembrare semplice, oggi con il sempre più complesso sviluppo dell'organizzazione aziendale non é sempre agevole.

E' necessario distinguere il caso in cui questa qualifica spetti ad una persona fisica come nel caso dell'imprenditore individuale dal caso in cui datore di lavoro sia una persona giuridica o un ente non personificato17: mentre nel primo caso l'individuazione del responsabile appare semplice, per quanto riguarda l'altra ipotesi prospettata, piuttosto ricorrente nell'attuale realtà economica, appare difficile rispondere alla domanda: la responsabilità penale deve gravare sull'impresa o sulla persona fisica in base a particolari meccanismi di imputazione?

Mentre la risposta a questo quesito non é stata nel corso del tempo univoca e tuttora i vari ordinamenti nazionali presentano soluzioni tra di loro differenti e al loro interno non universalmente accettate, nel caso del datore di lavoro persona fisica, se si eccettua il problema riguardante l'efficacia esonerante o meno della delega di funzioni, su cui comunque il d.lgs.n°242/96 sembra aver risolto ogni contrasto interpretativo, all'interno della dottrina e della giurisprudenza si sono sin da subito sedimentati orientamenti univoci, al contempo rigorosi nella costruzione logica e convincenti nei risvolti applicativi.

Infatti già analizzando l'art.4 del dpr.n°547/55 ed il corrispondente articolo 4 del dpr.n°303/56 ricaviamo da essi i tre requisiti che devono sussistere in capo ad una persona per poter essere considerata il principale titolare degli obblighi di sicurezza e responsabile penalmente per la loro inosservanza: la qualifica di datore di lavoro, l'esercizio effettivo di un'attività ed il possesso di specifiche attribuzioni e competenze18. Da ciò si può comprendere come risulti inadeguata l'impostazione di ascendenza civilistica-lavoristica che si basa sull'utilizzo di criteri di imputazione di segno formale per individuare il principale soggetto garante della sicurezza del lavoro, il datore di lavoro.

Proprio questi tre requisiti mettono in luce che, per ritenere un soggetto titolare dell'obbligazione di sicurezza, non ha valore determinante la qualificazione formale; occorre piuttosto che quel soggetto eserciti o diriga un'attività e che possieda l'insieme dei poteri necessari e sufficienti per attuare le misure di sicurezza.

Nell'identificazione di questa figura si sono potute testare tutte le potenzialità applicative del principio di effettività che, pur essendo stato analizzato e sviluppato dalla dottrina in relazione al problema dell'identificazione del soggetto responsabile negli enti collettivi può essere utilmente utilizzato nei contesti aziendali più semplici rappresentati da imprese costituite in forma individuali19: anche in tale ambito il datore di lavoro é individuabile nella persona fisica titolare dei più ampi e incondizionati poteri di gestione ed amministrazione dell'azienda; quindi questo principio risolve nel senso indicato le situazioni in cui si registri una dissociazione tra il soggetto da ultimo indicato e colui nel nome del quale l'impresa é esercitata oppure colui che riveste la qualifica formale di imprenditore, al punto da risultare come imprenditore solo apparente, oppure colui che subisce il rischio economico dell'attività imprenditoriale laddove a nessuno di questi sia anche attribuibile la reale posizione di capo dell'impresa, dotato quindi dei poteri di indirizzo generale, conformazione e controllo dell'attività d'impresa: a queste figure non viene attribuita la qualifica di datore di lavoro in mancanza dei necessari poteri a cui si é fatto riferimento, innanzitutto di quelli di carattere finanziario20.

In questa difficile opera di individuazione di questa figura sono stati ritenuti da sempre fondamentali l'accertamento e l'analisi del complesso di regole, non sempre formalizzate, vigenti in ambito aziendale per la ripartizione delle attribuzione (poteri e obblighi) e delle connesse responsabilità; un'accorta analisi della realtà aziendale costituisce lo strumento interpretativo ed operativo per risolvere il problema.

Dunque utilizzando il principio dell'effettività dottrina e giurisprudenza erano già riusciti, nella vigenza della normativa prevenzionistica degli anni '50, a risolvere adeguatamente, pur in mancanza di una definizione specifica per la materia, il problema dell'individuazione del soggetto che si cela realmente dietro l'espressione "datore di lavoro" e sul quale deve gravare la responsabilità penale.

Dunque non sembra che di una definizione di datore di lavoro si avvertisse il bisogno: si era consapevoli che questa, se non adeguatamente costruita, avrebbe potuto creare più incovenienti che vantaggi, in particolare si profilava il rischio, non compensato da alcuna apprezzabile contropartita, di porre in crisi un assetto interpretativo fondato nelle argomentazioni e convincente negli esiti.

L'art.2 del d.lgs.n°626/94 contenente la definizione di datore di lavoro non poteva non suscitare le perplessità del mondo accademico21, ma soprattutto di coloro che avrebbero dovuto applicare questa nuova norma, i magistrati22; la dottrina appunta la propria attenzione sulla scelta del legislatore di definire le principali figure coinvolte nella gestione della sicurezza, giudicandola in linea teorica, in quanto possibile portatrice di chiarezza, apprezzabile a condizione però che sia contraddistinta dalla proprietà terminologica, l'attenzione, la competenza ed il rigore tecnico propri di "un legislatore-giurista"23; l'opera di definizione lasciata invece nelle mani del cd. "legislatore-politico" conduce spesso ad esiti contraddittori e a volte pericolosi.

I timori avanzati non sono risultati infondati: la definizione di datore di lavoro nella sua versione originaria, contenuta nel d.lgs. n°626, secondo la quale doveva essere considerato tale "qualsiasi persona fisica o giuridica o soggetto pubblico" che fosse "titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore ed avesse la responsabilità dell'impresa o dello stabilimento", suscitava infatti diversi interrogativi; questa norma era il risultato di un'operazione di integrale e pedissequa traduzione della corrispondente disposizione contenuta nella direttiva comunitaria n°391/8924.

Il provvedimento comunitario é influenzato in molti suoi punti qualificanti, tra i quali possiamo annoverare sicuramente questa scelta terminologica, da sistemi ed esperienze giuridiche diverse non automaticamente trasponibili nel ordinamento italiano; la definizione fornita accoglie i suggerimenti comunitari senza procedere a quell'adattamento che si presentava invece come essenziale per renderli compatibili con i principi generali che regolano la responsabilità penale nel nostro ordinamento25. Il principio della personalità della responsabilità penale sancito espressamente dalla Costituzione insieme al principio, strettamente collegato al precedente, della irresponsabilità penale delle persone giuridiche, conquista quasi universalmente accettata, rendevano, in definitiva, inapplicabile il riferimento alla persona giuridica come destinataria della normativa antinfortunistica, in stridente contrasto per di più con il "senso comune"26: il datore di lavoro così come definito nell'art.2, dovendo la nozione essere, in base ad elementari principi logico-ermeneutici, unitaria all'interno dell'intero decreto, avrebbe infatti dovuto essere destinatario anche della previsione contenuta nell'art. 89 che prevede tra le sanzioni anche la pena dell'arresto, cosa ontologicamente impossibile27.

Altro punto oscuro era costituito dall'utilizzo del termine "stabilimento", dal contenuto assai incerto, che lasciava trasparire la propensione del legislatore a modellare la disciplina facendo attenzione al settore industriale, nonostante quest'ultimo non fosse il solo comparto soggetto all'applicazione del decreto; parte della dottrina auspicava che invece venisse fatto riferimento alla nozione di unità produttiva28: a favore di questa soluzione si é espressa la circolare del Ministero del lavoro n°102 del 7 agosto 199529; il d.lgs. n°242 ha tenuto conto di questi rilievi critici.

Il problema maggiore derivava comunque dal fatto che la norma, nella sua prima formulazione, richiedeva, almeno così sembra dalla lettura dell'art.2, al fine di riconoscere lo status di datore di lavoro, la contemporanea presenza di due requisiti: la titolarità del rapporto di lavoro e la responsabilità dell'impresa o dello stabilimento. Oltre alle difficoltà nell'attribuire un significato preciso ed univoco all'espressione "posizione di responsabilità"30, l'esigenza del cumulo delle due condizioni portava a situazioni paradossali e lontane dal reale atteggiarsi dei rapporti economici31; generalmente infatti titolare del rapporto di lavoro é la società e per essa il suo legale rappresentante che però non si identifica con il soggetto responsabile dell'impresa o dello stabilimento: si tratta quindi di due soggetti distinti e non di un'unica figura.

Sono state prospettate, visto l'inaccettabilità delle conclusioni a cui si era giunti, due soluzioni: alcuni autori hanno proposto una lettura correttiva del testo dell'art.2 sostituendo la congiuntiva "e" con la disgiuntiva "o"32, altri considerando da una parte impossibile un tale mutamento del dato letterale33, dall'altra incostituzionale ritenere applicabile la disposizione in esame alle sole imprese individuali o comunque alle imprese a struttura semplice, hanno ritenuto la definizione di datore di lavoro di cui all'art.2 del d.lgs. n°626 irrilevante ai fini penali e subordinata, nella pratica applicazione, a quella consolidata interpretazione che attribuisce la qualifica di datore di lavoro, destinatario della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, a coloro che siano in concreto titolari di poteri di intervento nell'organizzazione del lavoro34.

Su questo quadro non del tutto confortante é intervenuto nuovamente il legislatore con il d.lgs.n°242/96 apportando delle correzioni che accolgono le osservazioni e le critiche da più parti ripetutamente avanzate: in base alla nuova formulazione dell'art.2 comma 1 lett.b35 datore di lavoro é "il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o comunque il soggetto che, secondo il tipo e l'organizzazione dell'impresa, ha la responsabilità dell'impresa stessa ovvero dell'unità produttiva ... in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa".

La novellazione dell'articolo in esame risolve così alcuni problemi interpretativi, eliminando l'antinomia che questa norma presentava rispetto all'ordinamento giuridico italiano: sotto questo aspetto viene quasi unanimemente36 ritenuta scelta apprezzabile, oltre che doverosa37, l'aver eliminato il riferimento alla persona giuridica quale possibile titolare dello status di datore di lavoro, preferendo invece utilizzare l'espressione "soggetto titolare".

Ulteriore importante novità é costituita dall'inserimento della disgiuntiva "o" e dell'avverbio "comunque" in sostituzione della congiuntiva "e": in questo modo si riesce a determinare a quale dei due criteri concorrenti deve essere attribuita la prevalenza nell'ipotesi, assai frequente, in cui si assista ad una dissociazione tra datore di lavoro-titolare formale del rapporto e datore di lavoro-sostanziale responsabile dell'impresa, dal momento che il novellato art.2 assegna valore preminente, per identificare il soggetto al quale riferire la qualità di datore di lavoro ed applicare quindi la normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, al fatto che quella determinata persona ricopra una posizione di responsabilità all'interno dell'azienda; di conseguenza viene attribuita una precisa funzione sussidiaria al requisito a carattere formale costituito dalla titolarirà del rapporto di lavoro: questi due elementi non devono più quindi essere cumulativamente presenti38.

Il primo indice, cioè la titolarità cartolare del rapporto di lavoro, subisce così un vistoso ridimensionamento rispetto alla precedente "lectio": la sua sfera applicativa viene circoscritta, nel caso in cui venga in rilievo una fattispecie di natura penale, ai soli casi di imprese in forma individuale, unico tipo di impresa nel quale esiste un'imputazione diretta della titolarità del rapporto ad una persona fisica39; con riferimento invece alle fattispecie che coinvolgono tipologie d'impresa più articolate e complesse, o sotto il profilo formale, imprese cioé costituite in forma societaria, o sotto il profilo organizzativo, imprese strutturate in una serie di unità produttiva, dal momento che non é possibile duplicare le figure datoriali attraverso l'applicazione di due diversi criteri quando non conducano alla stessa conclusione, dovrà necessariamente trovare applicazione il secondo requisito contemplato dalla norma: dovrà essere dunque considerato datore di lavoro il solo soggetto responsabile dell'impresa o dell'unità produttiva, titolare cioè dei poteri decisionali e di spesa.

Il richiamo a questi poteri costituisce un'apprezzabile novità introdotta con il d.lgs. n°242: essi sono infatti gli indici concreti che valgono a connotare la posizione di responsabilità, di cui é investito il datore di lavoro; non era infatti facile, nella vigenza del d.lgs.n°626 in cui mancava una sua precisa caratterizzazione, darle un contenuto univoco40.

Il d.lgs.n°242, accogliendo poi le critiche che la dottrina aveva sollevato sulla scelta del legislatore di utilizzare l'espressione "stabilimento", non rigorosa dal punto di vista tecnico, ha adottato il termine "unità produttiva", di cui fornisce per di più una definizione.

In base all'art. 2 lett. i per essa si intende lo stabilimento o la struttura finalizzata alla produzione di beni e servizi, dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale: si usano quindi indifferentemente entrambi i termini; essi hanno comunque lo stesso significato di articolazione dell'impresa (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto), ove si realizzi per intero una fase dell'attività produttiva, avente quindi autonomia tecnico-funzionale. Si richiede anche una connessa autonomia finanziaria necessaria per realizzare le misure di sicurezza: quest'ultimo carattere41, che rappresenta un elemento di novità nell'enucleazione della nozione di unità produttiva, in quanto i vari interventi normativi e giurisprudenziali avevano sinora privilegiato il solo aspetto dell'indipendenza tecnico-funzionale42, rende la definizione in sintonia col criterio di imputazione della responsabilità, che si fonda appunto sulla titolarità del potere decisionale e di spesa relativo, oltre che all'intera azienda, anche alla singola unità produttiva.

Ciò conduce ad una importante conseguenza: nell'ambito della stessa azienda possono essere individuati una pluralità di soggetti tutti qualificabili come datori di lavoro, quindi destinatari delle norme che, in materia antinfortunistica, presuppongono tale qualifica soggettiva.

La persona fisica principale garante della sicurezza e destinataria in via principale della normativa antinfortunistica é non solo il datore di lavoro nell’accezione ius-lavoristica, il titolare cioé del rapporto di lavoro, ma anche il dirigente, qualora eserciti le funzioni di direzione normalmente proprie del datore di lavoro, ipotesi frequente nelle imprese di grandi dimensioni43.

Nella versione definitiva egli va inteso dunque come controparte sinallagmatica, nel contratto di lavoro, del prestatore d'opera.

Sembra essersi così verificata con la nascita di un'entità datoriale speciale, diversa dalla figura classica di datore di lavoro, il divorzio della materia prevenzionistica, almeno quanto al tema dei destinatari dell'obbligo di sicurezza, dai principi generali che regolano la disciplina del rapporto di lavoro in generale44.

2. LA RESPONSABILITA’ PENALE DEL DATORE DI LAVORO NELLE ORGANIZZAZIONI COMPLESSE

Come già in parte precedentemente anticipato, l'individuazione della persona fisica a cui possa essere riferita, anche ai fini penali, la qualifica di datore di lavoro, nel caso in cui l'impresa sia organizzata in forma collettiva, costituisce il problema interpretativo meno facilmente risolvibile tra quelli che si presentano agli interpreti in relazione al d.lgs. n° 626: su di esso si é concentrata per decenni l'attenzione della giurisprudenza e della dottrina; da parte di quest'ultima, in passato, sono state infatti prospettate tre soluzioni. Su questa materia ha, da ultimo, portato un parziale chiarimento l'art. 2 comma 1 lett.b del d.lgs. n°626/94, così come modificato dall'art. 2 del d.lgs.242/96, da cui sembrano potersi ricavare delle indicazioni a favore di una delle soluzioni prospettate, quella cioé che, in sostanza, ritiene obbligato all'osservanza dei precetti penalmente sanzionati colui che, nella struttura dell'ente, risulti, secondo la normativa di organizzazione, titolare dei poteri sufficienti a garantire l'osservanza del precetto1.

E' comunque opportuno analizzare le varie teorie sostenute, nella vigenza della precedente normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, per meglio comprendere la portata innovativa e chiarificatrice del recente intervento legislativo.

Il problema consistente nell'identificare quale criterio può essere utilizzato, nel nostro ordinamento, per individuare la persona fisica penalmente responsabile all'interno delle società commerciali, pur costituendo il quesito centrale di tutto il diritto penale dell'impresa2, assume un particolare importanza nel diritto penale del lavoro, specificatamente in ordine all'applicazione della normativa antinfortunistica.

Le difficoltà nascono per la compresenza di due circostanze strettamente connesse: bisogna infatti tener presente innanzitutto che le norme incriminatrici in materia antinfortunistica delineano fattispecie riconducibili alla categoria dei reati propri, riferibili in primo luogo al datore di lavoro3; inoltre, poiché anche nell'ambito della legislazione penale dell'impresa valgono gli stessi principi e le stesse regole che valgono in via generale per l'attribuzione della responsabilità4, anche nella materia specifica che stiamo esaminando vige il principio secondo cui la responsabilità penale é personale, sancito nell'art. 27 comma 1 Cost., che secondo l'interpretazione accolta dalla dottrina prevalente comporta l'irresponsabilità penale della persona giuridica: dal momento che però la qualifica di datore di lavoro può essere ricoperta in ambito civilistico sia da persona fisica che da enti collettivi, personificati e non, nell'ipotesi di datore di lavoro-ente collettivo si determina una frattura tra il soggetto titolare del rapporto di lavoro, il quale viene indicato dalla norma come il soggetto in grado di porre in essere il comportamento tipico in essa previsto ed il soggetto destinatario della sanzione, dato che in questo caso la violazione del precetto penale sarebbe imputabile ad un ente collettivo, che però non può essere ritenuto penalmente responsabile.

Per risolvere il problema della responsabilità del datore di lavoro ed in genere degli organi sociali é necessario quindi, poiché le persone giuridiche non sono dotate di soggettività penale, individuare le persone fisiche che devono rispondere penalmente per i fatti commessi nell'esercizio dell'impresa5. Ma é proprio su questo punto che il quadro normativo italiano presenta, almeno fino all'emanazione del d.lgs. n°626/94, un'importante lacuna: il legislatore non ha preso infatti, in passato, posizione in relazione all'alternativa astrattamente delineabile fra criteri formali e criteri sostanziali. Spetta quindi alla dottrina ed alla giurisprudenza colmare questa lacuna e dare quindi una risposta alla seguente domanda: chi è tenuto all'osservanza degli obblighi antinfortunistici penalmente sanzionati in capo al datore di lavoro, quando questo sia costituito da un soggetto non persona fisica?

Come già precedentemente detto, sono state prospettate tre teorie6, che cercano di risolvere una situazione dagli esiti addirittura paradossali: poiché infatti il legislatore italiano7, nell'emanare le varie norme costituenti il diritto penale del lavoro, non ha tenuto conto del fatto che la maggior parte delle attività economiche sono assunte nella forma non dell'impresa individuale, ma in forma societaria si potrebbe avanzare, sulla base di un'esegesi strettamente letterale dell'art. 27 comma 1 Cost., l'ipotesi consistente nel disapplicare le norme penali in materia nel caso in cui il datore di lavoro non sia una persona fisica: ciò sarebbe però in contrasto con il principio di effettività della norma penale; per di più l'immunità così accordata ai datori di lavoro non persone giuridiche finirebbe per creare una loro posizioni di privilegio tale da risolversi in una violazione del principio costituzionale di uguaglianza ex art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto ai datori di lavoro-persone fisiche, su cui invece continuerebbero a gravare obblighi penalmente sanzionati.

Si é dunque di fronte ad un problema difficile soluzione: da una parte vi é l'esigenza di non trascurare la realtà dei rapporti economici dei paesi industrializzati, dall'altra la necessità di rispettare il principio della personalità della responsabilità penale; bisogna quindi operare un bilanciamento tra quest'ultimo principio e quello dell'effettività della norma penale.

Una prima teoria8, indicata normalmente col nome di teoria organica o della rappresentanza, sostenuta principalmente, anche se non esclusivamente, dalla dottrina meno recente, tende ad attribuire la responsabilità penale nel caso di datore di lavoro-persona giuridica o ente non collettivo al titolare del potere di rappresentanza9.

Tale conclusione viene aspramente criticata: si sottolinea come questa impostazione sia contraddistinta da un formalismo di taglio civilistico che non si concilia con i meccanismi di imputazione della responsabilità penale; essa, partendo dalla constatazione, in sé corretta, che l'ente assume la titolarità di situazioni giuridiche attraverso un determinato organo-persona fisica, ritiene, ed in ciò commette un errore, conseguenza necessaria che l'adempimento degli obblighi sanzionati, correlati all'acquisto degli obblighi propri di un datore di lavoro, spetti a quello stesso soggetto che é titolare del potere giuridico di impegnare l'ente, sul piano civile ed amministrativo, alla loro osservanza; in questo modo verrebbe ritenuto penalmente responsabile colui che ha i poteri di rappresentanza e non colui che ha i poteri di amministrazione, anche nelle numerose fattispecie di diritto penale del lavoro che non presuppongono la spendita del nome10.

Non vengono invece presi in considerazione quei soggetti che, indipendentemente dalla qualità di rappresentanti dell'ente, esercitano poteri di organizzazione e gestione: ciò costituisce un'esclusione arbitraria ed irragionevole, se si considera che questi poteri risultano determinanti nell'attuazione degli obblighi prevenzionistici imposti al datore di lavoro11.

Parte della dottrina12 sottolinea come questa prima teoria prospetti una soluzione in termini, per così dire, apodittici, che sembra derivare dalla constatazione d'ordine puramente negativo in base alla quale, essendo il soggetto insuscettibile di un giudizio di responsabilità penale, non vi sarebbe altra possibilità che ripiegare su di un soggetto che, pur sprovvisto delle qualità richieste dalla legge, sia legato da un determinato rapporto istituzionale con il soggetto incapace; il fondamento di questo ragionamento risiede in un'inammissibile estensione analogica della fattispecie penale, in contrasto con l'art. 14 disp.prel.cod.civ.: il soggetto-rappresentante legale di una persona giuridica-datore di lavoro può, infatti, assumere la qualifica di datore di lavoro solo tramite un procedimento analogico che valorizzi le affinità tra la qualità di datore di lavoro-persona fisica e quella di rappresentante di un datore di lavoro-ente collettivo13.

A questo indirizzo interpretativo si é affiancata una diversa impostazione che fa ricorso per individuare il soggetto penalmente responsabile ad un criterio empirico-funzionale; questa teoria attribuisce infatti rilevanza non alla qualifica rivestita, ma alle attribuzioni effettive di cui é titolare ed alle incombenze gravanti sul singolo soggetto: quindi datore di lavoro dovrebbe essere considerato il soggetto che, nell'ente, abbia svolto i compiti relativi alla qualifica.

Questa teoria in sostanza considera datore di lavoro e quindi destinatario delle varie norme penali che presuppongono tale qualifica soggettiva la persona fisica che svolga le funzioni corrispondenti14. Si cerca di risolvere il problema costituito dall'estensione più ampia del concetto di datore di lavoro in senso civilistico rispetto a quello in senso finalistico, utilizzando alcuni rilievi che la dottrina di origine germanica15 aveva formulato a proposito del concetto di obbligo: questo concetto può essere inteso come obbligo di tenere o non tenere un certo comportamento (cioé come un comando o un divieto rivolto ad un soggetto) o come obbligazione relativa alle conseguenze di una determinata condotta ( ad esempio risarcimento del danno). Poichè "societas delinquere non potest", l'obbligo facente capo ad essa non può che essere del secondo tipo; l'obbligo avente rilevanza penale invece consiste in un comando rivolto ad un soggetto, affinché realizzi o non realizzi personalmente un dato comportamento. Dunque dal momento che per il diritto penale é decisivo stabilire chi realmente agisce e non accertare a carico di chi una certa condotta determini il sorgere di un'obbligazione, la qualità personale necessaria ad integrare la fattispecie tipica di un reato proprio non può dipendere da elementi formali, (come l'essere parte in un contratto di lavoro), che possono riferirsi anche a soggetti privi della capacità dell'azione, ma da una considerazione di ordine funzionale, dal fatto cioé di esercitare quei poteri che sono normalmente propri del soggetto dotato di quella particolare qualifica.

Partendo dal presupposto che la condotta tipica si riferisce alla violazione della sfera di funzioni, socialmente ben individuate, proprie del datore di lavoro, i sostenitori della teoria funzionalistica giungono alla conclusione che chi possiede effettivamente questa sfera di doveri ed é pertanto qualificato a realizzare il fatto del reato proprio deve perciò qualificarsi anche come autore.

Anche questa soluzione non sembra essere soddisfacente: possono essere sollevate infatti alcune osservazioni critiche. Parte della dottrina non ritiene del tutto persuasive le conseguenze che si sono volute far derivare dalla teoria di Binding: il voler far capo all'effettiva titolarità del potere ignora la dimensione normativa del fenomeno di imputazione dell'obbligo, a cui invece il Binding da importanza poiché l'attribuzione di un potere o di un dovere non può che dipendere da una norma che stabilisca quale è il soggetto a cui ci si deve riferire16.

Alcuni autori17, appuntando la propria attenzione sulla difficoltà che si ha, soprattutto nelle imprese di grandi dimensioni, nell’individuare l'effettivo titolare dei poteri, sottolineano come la teoria in esame finirebbe, proprio per questo motivo, per rendere estremamente incerti i contorni soggettivi delle varie fattispecie penali e svilire nella sostanza una caratteristica che, nei reati propri, assume un rilievo particolare, la tassatività: il reato diventa nei contorni particolarmente vago18.

Viene mossa alla teoria in esame un ulteriore obiezione19: essa comporterebbe una concentrazione della responsabilità verso il basso, verso colui cioè che é investito delle mansioni a cui si riferisce l'inosservanza20. In questo modo nelle ipotesi in cui il soggetto sia stato esecutore della "politica d'impresa", caso frequente in relazione all'inosservanza delle disposizioni dettate in materia antinfortunistica, la teoria funzionale crea un capro espiatorio sul quale riversare la responsabilità per scelte a lui non riconducibili e di cui quindi egli non dovrebbe subire le conseguenze, siano esse civili o penali; in caso contrario si avrebbe, in sostanza, la violazione del principio della personalità della responsabilità penale21.

Per rispondere alle aporie appena evidenziate altra parte della dottrina, prendendo come punto di partenza la distinzione che, secondo l'insegnamento di Kelsen22, può essere compiuta, riguardo ad una norma, tra elemento materiale, cioè la parte della norma che indica che cosa si possa o si debba fare, ed elemento personale, che designa chi sia il soggetto che può o deve compiere un determinato comportamento, ha appuntato la propria attenzione su quell'insieme di norme che costituiscono il c.d. "ordinamento interno" o "normativa di organizzazione" della persona giuridica23. I sostenitori di questa teoria, nota come "teoria bifasica" dell'imputazione di un obbligo ad un ente collettivo, sottopongono innanzitutto a confutazione quell'affermazione di pretesa antinomia consistente nel fatto che l'ente potrebbe risultare titolare di un obbligo extrapenale, mentre non gli si potrebbe imputare un obbligo avente rilevanza penale: infatti non solo l'obbligo penale, ma anche quello extrapenale può avere come destinatario solo una persona fisica24.

L'imputazione di una proposizione normativa ad una persona giuridica quindi é necessariamente "un'imputazione incompleta", nel senso che essa determina ciò che viene imposto o vietato, ma non anche a chi é diretto il comando.

L'elemento personale viene individuato facendo ricorso a quella che viene definita normativa di organizzazione25: questa permette di stabilire chi in concreto possa o debba ottemperare al dettato normativo che sembrerebbe essere indirizzato alla persona giuridica; la violazione di una norma che imponga o vieti alla persona giuridica un determinato comportamento si traduce nella violazione di un'omologa proposizione normativa a carico di coloro che le norme di organizzazioni designano come destinatari del precetto.

Questa "traduzione" della norma alla luce dell'ordinamento interno dell'ente costituisce la prima fase del processo di imputazione, alla quale subentra la seconda fase, in base alla quale gli illeciti commessi vengono imputati, in base a quella stessa normativa d'organizzazione che disciplina il rapporto organico tra gli autori e l'ente, a quest'ultimo.

La seconda fase, quella di "ritorno" é presente solo nel caso in cui si tratti di un obbligo a carattere extrapenale: in questo caso all'ente verrebbe imputato l'obbligo violato non nella veste di autore materiale della condotta, cosa ontologicamente impossibile26, ma come soggetto responsabile di un determinato comportamento in base al rapporto organico, che stabilisce un collegamento con l'autore materiale di esso27.

Nell'ambito del diritto penale invece, individuando il soggetto-persona fisica personalmente tenuto al comportamento prescritto, viene risolto anche il problema dell'individuazione del soggetto penalmente responsabile, che non potrà essere diverso da quello a cui la norma effettivamente, al di là cioé del termine che ritroviamo nel testo, fa riferimento.

I vari obblighi previsti dal complesso corpus normativo in materia di salute e sicurezza del lavoratore sono strettamente collegati all'attività di amministrazione, che si esplica sulla prestazione di lavoro: chi infatti ha il potere di gestire l'attività dell'ente ha evidentemente anche il potere di organizzare i fattori di produzione, tra i quali il lavoro, tutelandone le condizioni di svolgimento; destinatari degli obblighi antinfortunistici sono i titolari dei poteri di organizzazione, direzione, vigilanza e gestione sufficienti a garantire l'osservanza delle norme prevenzionistiche.

In base al criterio adottato la posizione datoriale, quale titolare passivo dell'obbligazione di sicurezza, può essere riconosciuta nelle società semplici e in quelle in nome collettivo, a ciascun socio, in virtù dei generali poteri di amministrazione a questo spettanti28; in presenza però di una riserva di poteri a favore di uno o più amministratori l'obbligo di sicurezza non potrà essere imputato al socio-non amministratore, dal momento che gli è preclusa ogni possibilità di intervento diretto nella gestione dell'impresa.

Per la stessa ragione non può assumere la posizione di datore di lavoro il socio accomandante nelle società in accomandita semplice29.

Considerazioni analoghe possono essere svolte in relazione alle società di capitali30: l'amministrazione della società può essere affidata ad un solo amministratore oppure ad un consiglio; quest'ultimo può a sua volta trasferire le proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo o ad un suo membro, tramite l'istituto della delega, di cui all'art. 2381 c.c.31.

L'identificazione del soggetto passivo dell'obbligazione di sicurezza dovrà essere compiuta, anche in questo caso, tenendo presente la struttura effettiva dell'impresa e le mansioni esercitate: essa graverà quindi su quel soggetto o quei soggetti che sono tenuti a compiere tutti gli atti rientranti nell'oggetto sociale, compresi quelli volti ad assicurare che l'opera dei lavoratori sia espletata nel rispetto delle norme sulla prevenzione degli infortuni32.

Deve però precisarsi che la posizione del comitato esecutivo o dell'amministratore delegato, nei casi in cui l'assemblea o l'atto costitutivo consentano la delega a questi delle attribuzioni spettanti al consiglio di amministrazione, non può essere definita a priori, a seguito della indeterminatezza della sfera di competenze dell'organo delegato, che può vedersi riconosciuti poteri di contenuto oscillante tra la mera esecuzione delle decisioni consiliari, da un lato, e la diretta titolarità di proprie prerogative gestionali, dall'altro33.

Per individuare i garanti della sicurezza non si può che appuntare l'attenzione sul contenuto delle competenze concretamente conferite ai soggetti delegati, ai quali la titolarità passiva dell'obbligazione di sicurezza può essere dunque imputata nella misura in cui ad essi spetti l'esercizio dei poteri di gestione necessari per conformare l'organizzazione dell'impresa agli imperativi legali34.

A questa teoria viene mossa la seguente critica: si sottolinea come in questo modo si verrebbe a creare, in contrasto col dettato costituzionale, una forma di responsabilità per fatto altrui, come conseguenza della non coincidenza tra i due soggetti, l'uno titolare degli obblighi extra-penali ed identificato con la persona giuridica, l'altro destinatario della sanzione penale e cioè la persona fisica autore materiale del reato.

Questa obiezione è facilmente superabile, analizzando il reale funzionamento del meccanismo di imputazione penale: titolare dell’obbligo extra-penale, omologo a quello penale, non é la persona giuridica, ma la persona fisica individuata tramite le norme dell'ordinamento interno. Dal momento che la responsabilità finisce col gravare su chi era personalmente obbligato al rispetto della norma, non vi é contrasto con l'art. 27 Cost..

Il vero "punctum dolens" della teoria in esame risiede nella natura delle norme di organizzazione: svolgendo queste una funzione determinante nel meccanismo di imputazione qui considerato e promanando dalla volontà di privati cittadini, il pericolo paventato è che si finisca per rendere disponibili gli obblighi penali, rimettendo in buona sostanza alla volontà privata l'individuazione del soggetto attivo del reato35.

Ciò contrasterebbe col principio di tassatività ed inderogabilità delle fattispecie incriminatrici, il cui ambito soggettivo, appunto, risulterebbe indefinitamente variabile ad opera degli stessi destinatari del comando o del divieto.

In conclusione, tutte le tesi qui prese in considerazione presentano degli aspetti problematici: una scelta dunque, che non voglia basarsi su mere petizioni di principio, dovrà tener conto delle conseguenze che sul piano applicativo l'accoglimento di una di esse comporta: da questo punto di vista sembra da preferire l'ultima impostazione considerata. E' comunque auspicabile che si pervenga, in una prospettiva de iure condendo, ad un'esplicita presa di posizione da parte del legislatore36; non può quindi che essere vista con favore la previsione contenuta nello schema di legge delega per un nuovo codice penale, secondo cui l'esercizio di fatto di un'attività equivale alla titolarità dei doveri o poteri giuridici rilevanti ai fini delle qualifiche soggettive contemplate dalle varie fattispecie incriminatrici37.

Questa scelta é d'altronde in linea con la soluzione accolta in altri Stati europei38: in Francia infatti, in base all'art. 12 comma 2 del codice penale, le persone giuridiche sono penalmente responsabili, nei casi previsti dalla legge, per le violazioni commesse per loro conto dai loro organi o rappresentanti, pur non escludendo tale responsabilità quella delle persone fisiche autrici o complici dei medesimi fatti. In un'importante sentenza, relativa proprio alla mancata predisposizione delle misure antinfortunistiche, si afferma che con questa norma, che ha stabilito il principio di responsabilità delle persone giuridiche, il legislatore ha inteso evitare la sistematica dichiarazione di responsabilità delle persone fisiche per il solo motivo della loro qualità di rappresentanti legali dell'ente collettivo. Una persona fisica, di conseguenza, non può essere ritenuta colpevole per il solo fatto di trovarsi a capo di un'impresa senza che venga vanificato tale intento del legislatore: soltanto quindi il ruolo di autore o complice nella realizzazione del fatto imputato alla persona giuridica può giustificare la condanna del suo rappresentante legale39.

 

3. L’INDIVIDUAZIONE DEI DESTINATARI DELL’OBBLIGO DI SICUREZZA IN CASO DI APPALTO

Particolarmente problematica risulta essere l'individuazione del soggetto, a cui dovrà essere imputata la responsabilità per la mancata predisposizione delle misure antinfortunistiche, nonché per le lesioni o la morte del lavoratore causalmente collegate all’inosservanza delle varie norme dettate in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in caso di stipulazione di un contratto d'appalto o di un contratto d'opera1.

Infatti fino a pochi anni fa, fino cioè all'emanazione dei decreti legislativi n° 626/94 e n° 494/96, non era stata prevista una disciplina organica che affrontasse in modo adeguato il delicato tema della tutela della sicurezza nei lavori affidati in appalto o con contratto d'opera a terzi. La lacuna, particolarmente grave per l'elevato indice di pericolosità rappresentato dall'intersecarsi, nel medesimo ambiente di lavoro, di due o più gruppi di lavoratori distinti, é stata finalmente colmata con i due recenti interventi legislativi, che hanno recepito nel nostro ordinamento, seppur in ritardo, il primo la direttiva comunitaria-quadro n° 391/89 e le sue prime sette direttive figlie, il secondo la direttiva n° 57/92.

Questi due provvedimenti hanno segnato un sicuro rafforzamento della tutela del lavoro: il problema del rapporto tra le disposizioni in essi dettate trova espressa soluzione nella previsione di cui all'art. 1 comma 2 del secondo decreto, che stabilisce un'applicazione congiunta delle due normative con prevalenza delle sole disposizioni specifiche introdotte dal provvedimento più recente2.

In passato, quindi, é stato compito della giurisprudenza individuare, con un'attenta opera di interpretazione, dal contenuto spesso decisamente creativo, il soggetto penalmente responsabile nell'ipotesi in cui o il tipo di struttura dell'impresa o il ricorso a strumenti negoziali che realizzino una interposizione ne rendano difficile la ricerca.

I risultati a cui è giunta la stessa giurisprudenza sono ritenuti soddisfacenti dalla dottrina pressoché unanime, che ha d’altronde anch'essa contribuito in modo sostanziale al raggiungimento degli stessi3. Lo sforzo profuso è tanto più apprezzabile se si considera che la giurisprudenza e la dottrina hanno dovuto adeguare gli strumenti interpretativi ed in particolare la loro forma mentis alla nuova realtà che si presentava loro davanti. Infatti ormai da decenni il punto di riferimento di ogni attività ermeneutica risulta essere il rapporto di lavoro subordinato in relazione al quale il datore di lavoro nell’esercizio dei suoi poteri organizzativi deve predisporre un ambiente di lavoro sicuro per la salute dei suoi dipendenti. Quando questa "linea continua" che lega imprenditore-ambiente-prestazione lavorativa viene incrinata, come nel caso dell'appalto, diventa più arduo il compito di individuare i soggetti responsabili dell'attuazione dell'obbligo di sicurezza, in relazione soprattutto a quell'aspetto, che verrà fra poco affrontato, che può essere compendiato nel cosiddetto problema dell'evanescenza della figura del datore di lavoro.

Si impone a questo punto una doverosa precisazione: l'art. 7 del d.lgs. n° 626/94, così come le altre disposizioni, dettate in materia, della normativa precedente, provvede a regolamentare le situazioni di vero appalto o di reale contratto d'opera e cioè i casi in cui l'impresa esterna é chiamata ad operare in condizioni di effettiva autonomia organizzativa e decisionale con conseguente assunzione del cosiddetto rischio del risultato o rischio d'impresa. Esula, invece, da tale ambito normativo ogni forma di pseudo-appalto o appalto fittizio che da luogo al fenomeno dell'interposizione di mere prestazioni di manodopera: questa diversa situazione viene presa in considerazione e disciplinata dalla legge 23 ottobre 1960 n° 13694.

La norma cardine in materia di appalto è ora rappresentata dall'art. 7 del d.lgs. n° 626: anche se si tratta di una norma dalla sicura portata innovativa, in quanto pone a carico del datore di lavoro nuovi obblighi rispetto alla normativa precedente, finalizzati al miglioramento del coordinamento tra appaltatore e appaltante nell'attuazione delle misure di sicurezza, nonché ad evitare tentativi di deresponsabilizzazione, non si può comunque disconoscere il fatto che già prima dell'emanazione del recente decreto si erano via via consolidati orientamenti giurisprudenziali che suggerivano soluzioni sostanzialmente analoghe a quelle a cui è possibile giungere ora in forza del citato art. 7.

Non si può quindi, per comprendere pienamente il contenuto di questa norma, non considerare, da una parte, le conquiste raggiunte nei decenni passati dalla giurisprudenza e dalla dottrina, dall'altra, i vari interventi legislativi che si sono susseguiti nel tempo5.

Come già anticipato, la situazione nella vigenza della precedente normativa non era del tutto soddisfacente: innanzitutto l'art.5 del d.p.r. n° 547/55 prevedeva a carico dell'imprenditore uno specifico obbligo di informazione in favore dei lavoratori autonomi presenti nel cantiere; non viene quindi preso in considerazione, almeno in modo esplicito, il caso dell'appalto. In particolare " i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti sono tenuti a rendere edotti i lavoratori autonomi dei rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro in cui sono chiamati a prestare la loro opera"; nel secondo comma si precisa poi che l'obbligo in esame "non si estende ai rischi dell'attività professionale o del mestiere che il lavoratore autonomo é tenuto a prestare"6.

Questa norma, pur comunemente ritenuta utilizzabile anche nell'ambito del contratto d'appalto7, non è stata oggetto di grande attenzione né in dottrina né in giurisprudenza. In assenza di indicazioni legislative espresse gli obblighi di sicurezza gravanti sull'imprenditore che affidi a lavoratori autonomi o ad altri imprenditore lavori all'interno della propria azienda vengono individuati sulla base del principio del "neminem laedere", sancito nelll'art. 2043 c.c., e del concorso di persone nei reati di lesioni colpose e di omicidio colposo; viene inoltre fatto riferimento alle norme contenute nel codice civile, disciplinanti il contratto d'appalto ed il contratto d'opera8, e alle disposizioni sull'intermediazione ed interposizione di manodopera9.

Queste disposizioni e i principi ricavabili dalle stesse, pur non riguardando direttamente la sicurezza sul lavoro, hanno costituito i mattoni con cui costruire un insieme di regole abbastanza chiare per l'individuazione dei soggetti che dovranno essere ritenuti responsabili, in caso di lesione della salute dei lavoratori nelle ipotesi di appalto e subappalto10.

L'attenzione viene concentrata quindi sull'art. 1655 c.c., che definisce il contratto d'appalto come "il contratto col quale una parte assume, con organizzazione di mezzi necessari e gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro". Si ricava da questa definizione che tale figura contrattuale è fondata sul presupposto della gestione a mezzo d'impresa ed è caratterizzata da un ampio margine di discrezionalità e di autonomia dell'appaltatore per il raggiungimento del risultato prefissato. Da ciò derivano due importanti conseguenze: l'appaltatore assume su di sè, oltre il rischio economico connesso al costo dell'opera in relazione al prezzo pattuito con il committente, almeno in linea generale la responsabilità penale con riferimento alle eventuali violazioni colpose delle norme di prevenzione degli infortuni11.

Si ha, invece, contratto d'opera "quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente": pur non sussistendo quindi qui, diversamente che nel contratto d'appalto, il rischio d'impresa, in quanto il soggetto in questione presta la propria opera in cambio di un compenso già prefissato, dapprima la giurisprudenza ed ora il legislatore hanno disciplinato nei loro risvolti penali in modo analogo queste due situazioni, poiché hanno individuato come elemento determinante al fine, appunto, di applicare la relativa disciplina penalistica, la posizione di autonomia che contraddistingue, anche se in misura diversa, sia il prestatore d'opera che l'appaltatore12.

La regola generale che viene accolta dalla giurisprudenza prevalente individua nell'appaltatore il destinatario della normativa antinfortunistica: egli assume il ruolo di vero e proprio datore di lavoro e prende su di sé, con la necessaria organizzazione di mezzi e con gestione a proprio rischio, il compito di eseguire un opera o fornire un servizio; risulta di conseguenza essere anche responsabile per la violazione delle varie norme che regolano l'attività imprenditoriale13.

L'impresa appaltatrice è caratterizzata da un'assoluta indipendenza in ordine a tutti gli elementi dell'attività imprenditoriale: assunzione del rischio d'impresa, organizzazione produttiva e del lavoro, gestione e direzione della forza lavoro, capitali necessari, attrezzature e macchinari. Al committente è invece, di conseguenza, in linea generale preclusa qualsiasi ingerenza sull'attività svolta dall'appaltatore14: è proprio questa completa autonomia imprenditoriale dell'appaltatore che giustifica l'esistenza della regola generale in base alla quale ricadono su di lui tutti gli obblighi relativi alla sicurezza sul lavoro15.

Se questo è in linea generale ed in astratto vero, nell'esperienza concreta sono molti i casi nei quali viene affermata la responsabilità, concorrente con quella dell'appaltatore, del committente in relazione alla violazione di disposizioni antinfortunistiche; infatti se la responsabilità esclusiva del committente si profila come evenienza piuttosto rara, ricorre invece, con una certa frequenza l'ipotesi di una responsabilità congiunta, tanto che si può ora tranquillamente affermare che la regola generale sopra illustrata ha, in giurisprudenza, un'applicazione ormai residuale.

A questo appunto è interessante dare un rapido sguardo al problema relativo alla possibilità o meno di trasferire, tramite convenzione privata, la responsabilità penale in materia dall'appaltatore all'appaltante-committente: su questo argomento non vi è concordia in giurisprudenza16, mentre la dottrina prevalente sembra propendere per la soluzione negativa. Data la complessità degli oneri che costituiscono il contenuto dell'obbligo di assicurare la sicurezza dell'ambiente di lavoro, gravante sul datore, sembra difficile, in caso d'appalto, che l'appaltatore possa liberarsi, con un semplice patto privato, di doveri e responsabilità che per legge fanno carico a lui: si tratta infatti di norme di diritto pubblico, in quanto proteggono interessi assoluti quali la vita e l'integrità psicofisica del singolo lavoratore17.

Risolto questo problema, connesso a quello dell'esatta individuazione del soggetto-garante della sicurezza in caso di affidamento di lavori, da eseguirsi all'interno dell'azienda18, ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi, occorre ora esaminare i vari casi in cui la giurisprudenza afferma la responsabilità penale anche del committente.

La giurisprudenza, e nell'ambito di essa in particolare la Cassazione, constatato il gran numero di infortuni nei lavori gestiti nella forma dell'appalto, grazie anche alle sollecitazioni che provenivano dal mondo politico19, in particolare dalla metà degli anni ottanta, si è preoccupata di arginare le indebite strumentalizzazioni dell'appalto: a questo scopo estende in numerose ipotesi al committente gli obblighi di prevenzione in materia di igiene e sicurezza del lavoro.

Una prima serie di sentenze appuntano l'attenzione sulla natura del rapporto contrattuale, a cui spesso non corrisponde il suo reale atteggiarsi: infatti dal codice si può ricavare abbastanza agevolmente che il committente è la parte che affida all'appaltatore la realizzazione di un'opera in cambio del pagamento di un prezzo e l'appaltatore è il soggetto su cui grava la responsabilità di organizzare l'attività produttiva e fornire ai propri dipendenti mezzi e attrezzature sicuri; dunque se i ruoli di committente ed appaltatore sembrano, in linea di principio, nettamente distinti, in concreto si può verificare "una confusione dei ruoli"20.

La responsabilità del committente consegue dunque alla messa in discussione, nella fattispecie concreta, della genuinità del contratto d'appalto o al verificarsi di una deviazione genetica o funzionale dal modello normativo, soprattutto in relazione ai rapporti che di fatto si instaurano tra i due soggetti del contratto. Talvolta infatti può capitare che il committente si ingerisca nell'esecuzione dei lavori: in questi casi risponderà della mancata adozione delle misure antinfortunistiche, incombendo anche su di lui l'obbligo di controllare le condizioni di sicurezza in rapporto alle opere appaltate21. Infatti la ratio dell'esenzione da responsabilità del committente risiede in una effettiva autonomia dell'imprenditore-appaltatore, in caso contrario si avrebbe, a favore del primo, un'ingiustificata immunità, in contrasto con i principi generali dell'ordinamento giuridico22.

Varia è la tipologia delle situazioni che si possono verificare in concreto: il caso limite, che vede il committente esclusivo responsabile, si ha quando la sua ingerenza sia stata tale da compromettere ogni libertà ed autonomia dell'appaltatore nell'esecuzione ed organizzazione del lavoro.

In passato è stata elaborata, per qualificare la posizione in cui si verrebbe a trovare l'appaltatore, la figura del "nudus minister": se l'appaltatore, si diceva, è tenuto per contratto ad eseguire il progetto predisposto e le istruzioni ricevute senza alcuna possibilità di iniziativa autonoma e di vaglio critico, la sua funzione si riduce a quella di "nudus minister"23: da ciò viene fatto derivare la responsabilità esclusiva del committente24, dal momento che il rapporto di appalto si trasformerebbe in rapporto di lavoro subordinato.

Ora questa impostazione ampiamente criticata25 sembra ormai essere stata abbandonata. In realtà un soggetto, nel nostro caso l'appaltatore, non può trasformarsi in "un nudus minister" solo perché abbia ottemperato a precise e specifiche richieste e direttive del committente: la sua autonomia e quindi la sua responsabilità non vengono meno per questo solo fatto; inoltre viene sottolineato il fatto che egli non è tenuto a seguire supinamente direttive che importino lesioni di direttive di terzi ed in ogni caso non può addurre come causa esimente il fatto di aver cagionato l'evento dannoso nell'esecuzione di obblighi contrattuali, assunti verso il committente26.

E' d’altronde opinione diffusa in dottrina che la funzione direttiva eventualmente riservata al committente riduce, ma non annulla l'autonomia dell'appaltatore27.

Al di là comunque di questo caso limite la giurisprudenza, in ciò confortata dalla dottrina unanime, afferma che il committente non risponde soltanto nel caso in cui l'appaltatore operi in una situazione di assoluta autonomia28; in ogni altro caso si verifica una corresponsabilità di entrambe i soggetti coinvolti. Bisogna ora chiarire a che cosa si riferisca la giurisprudenza quando parla di ingerenza29: bisogna infatti distinguerla dal diritto previsto dall'art. 1662 c.c. che contempla la possibilità per il committente di impartire istruzioni circa le modalità di realizzazione dell'opera e di controllare lo svolgimento dei lavori, verificandone lo stato d'attuazione.

La magistratura ha sempre sanzionato un intervento del committente che, abbandonando la propria sfera di controllo relativa alla qualità del risultato e alla sua rispondenza alle pattuizioni contrattuali, interviene nella sfera di controllo dell'appaltatore relativa al governo concreto sui modi, sui tempi e sugli strumenti da utilizzare per il lavoro oggetto dell'appalto30. Non è necessario che l'autonomia di cui dovrebbe godere l'appaltatore sia eliminata in modo assoluto, essendo sufficiente, per affermare la responsabilità del committente, che l'ingerenza assuma un grado tale da integrare una effettiva e incisiva partecipazione nella fase esecutiva, che abbia in concreto ristretto la sfera di discrezionalità propria dell'appaltatore. In tal caso viene a crearsi, nei fatti, a causa dell'ingerenza del committente, una situazione che, pur non inquadrabile in un rapporto di lavoro subordinato, evidenzia l'esercizio da parte del committente stesso, direttamente o tramite proprio direttore dei lavori, di un potere effettivo di direzione e vigilanza continuativa: ciò lo rende responsabile per gli eventi illeciti inerenti alla esecuzione del contratto31.

Casi di ingerenza ricorrono a seguito dell'intervento, nell'organizzazione e realizzazione dei lavori, con richieste vincolanti in ordine alle modalità ed ai tempi di svolgimento degli stessi32: in caso di infortunio mortale occorso in lavori dati in appalto è penalmente responsabile, dunque, il committente qualora le precise direttive date siano state esse stesse fonte di pericolo o qualora abbia commissionato o consentito l'inizio dei lavori, pur in presenza di situazioni di fatto pericolose33.

Altri casi di responsabilità sono stati ravvisati quando il committente abbia conservato la titolarità o direzione del cantiere34, quando abbia dato espressa assicurazione sull'inesistenza di rischi, accompagnata dalla dichiarazione di aver effettuato accertamenti di natura tecnica35, quando l'appaltatore abbia dovuto utilizzare macchinari ed attrezzi messi a sua disposizione dal committente36 o quando debba servirsi delle misure di sicurezza già predisposte nel cantiere da parte del committente37, oppure se quest'ultimo non abbia rimosso, per quanto di sua competenza, i fattori di rischio nell'ambiente di lavoro38.

Dunque la giurisprudenza afferma che nel caso in cui l'appaltatore non lavori in condizioni di assoluta autonomia risponde dell'infortunio anche il committente che si ingerisca nell'esecuzione dei lavori, incombendo in tal caso anche su di lui l'obbligo di controllare le condizioni di sicurezza del cantiere in relazione ai lavori appaltati39: dal momento che si trova in condizione di rilevare la carenza delle necessarie cautele e di porvi rimedio è tenuto a garantire la sicurezza dei lavoratori40.

Accanto all'ipotesi, maggiormente ricorrente, a cui si è fatto dinanzi riferimento, quella cioè in cui il committente eserciti in concreto una qualche forma di ingerenza nella sfera delle prerogative dell'appaltatore, ricorre anche una seconda ipotesi, quella in cui il committente si riservi in sede di stipulazione del contratto poteri, come, ad esempio, quello di sindacare sulle singole modalità di esecuzione dell'opera appaltata, che non dovrebbero invece competergli41.

Ulteriori situazioni di responsabilità che coinvolgono il committente sono determinate dall'affidamento dei lavori ad impresa sfornita dei necessari requisiti tecnici ed organizzativi: in questi casi gli viene imputata una culpa in eligendo42. Dovrà, nello scegliere l'appaltatore, accertarsi che la persona a cui si rivolge non sia munita soltanto dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata e alle concrete modalità di espletamento della stessa43. Qualche pronuncia è giunta ad intravvedere un motivo di colpevolezza del committente se il corrispettivo dell'appalto sia insufficiente a garantire la predisposizione delle necessarie misure di sicurezza in base all'assunto che non può sussistere autonomia tecnica senza quella economica44.

Le drammatiche dimensioni ormai raggiunte dal fenomeno degli infortuni nei lavori in appalto hanno giustificato l’orientamento, appena analizzato, della Suprema Corte tendente ad estrapolare una serie di ipotesi tipiche nelle quali la responsabilità risale al committente. Recentemente anche il legislatore ha cominciato ad occuparsi del problema: vengono infatti emanati una serie di provvedimenti legislativi che, per un verso, confermano e consolidano i principi già elaborati dalla giurisprudenza e, per altro verso, forniscono una serie di indicazioni e strumenti operativi diretti a favorire un'adeguata politica prevenzionale anche di fronte al fenomeno della frantumazione dei processi produttivi.

L'innovazione più significativa si è avuta con l'emanazione delle leggi n° 55 del 1990 e n° 109 del 1994, in materia di appalti di opere e lavori pubblici45: con questi provvedimenti vengono imposti vari obblighi in materia di sicurezza a carico delle imprese esecutrici dei lavori46. Anche un'altra fonte normativa ha iniziato ad occuparsi del tema della sicurezza sul lavoro negli appalti: si tratta della legislazione regionale47.

L'orientamento giurisprudenziale fino ad ora delineatosi, seppur abbia manifestato significativi segnali di ampliamento degli obblighi di sicurezza e di avanzamento della soglia di tutela della salute nei cantieri non si è, nonostante le numerose eccezioni in via di fatto riscontrate, discostato dalla regola generale, imposta del resto dal diritto positivo vigente fino a quel tempo, che non ricomprendeva il committente tra i destinatari delle norme prevenzionali.

Da alcuni anni il quadro normativo attinente ai rapporti tra datori di lavoro-committenti ed imprese appaltatrici si è notevolmente modificato; col recepimento di vari provvedimenti comunitari, tutti finalizzati ad una gestione globale e pianificata della sicurezza, il nostro ordinamento annovera ormai disposizioni legislative che si sono inserite in modo organico nel corpus normativo preesistente, colmando le lacune che erano state riscontrate in tema di sicurezza negli appalti.

Infatti un ulteriore importante tappa del lungo percorso che ha portato all'attuale quadro legislativo è costituito dall'emanazione di due decreti legislativi che hanno recepito nel nostro ordinamento due gruppi di direttive comunitarie: il d.lgs. n° 277/91 ha recepito le direttive n°80/1107 e 82/605, il d.lgs. n° 77/92 le direttive n°477/88, 88/86, 642/88, 364/88.

Sebbene relativamente ad un campo limitato, le lavorazioni comportanti l'esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici, sono stati posti a carico del committente, che operi in questo settore particolare, alcuni degli obblighi che graveranno in via generale sulla generalità dei committenti in forza del d.lgs. n° 626/9448.

Bisogna ora prendere in considerazione l'art. 7 di quest'ultimo decreto legislativo: esso stabilisce le condotte del committente penalmente rilevanti49. Questa norma in sostanza ridisegna integralmente il quadro delle responsabilità gravanti sui vari soggetti coinvolti in caso di affidamento di lavori, da eseguirsi all'interno di un'azienda, ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi.

Vengono individuati quattro obblighi a carico del committente: viene imposto un preliminare obbligo di verifica, anche attraverso l'avvenuta iscrizione alla Camera di Commercio, dell'idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da compiere. Si tratta di un accertamento che l'imprenditore committente deve effettuare prima di stipulare il contratto d'appalto o d'opera, al fine di individuare un contraente dotato di competenza tecnica specifica, considerata dal legislatore come preliminare condizione di sicurezza; la legge indica uno dei possibili strumenti di verifica50, ma quest’ultima normalmente richiede un maggiore approfondimento, che sarà tanto maggiore quanto più complessa e pericolosa sarà l'opera da realizzare51: il controllo richiesto dalla legge non ha quindi carattere meramente formale ed estrinseco.

Sotto questo aspetto la norma, che lascerebbe prefigurare la possibilità di imputare al committente, in caso di scelta inadeguata, una culpa in eligendo, si rivela gravemente inadeguata per l'estrema genericità, dal momento che non sono stati individuati i parametri valutativi a cui attenersi per esprimere un valido giudizio di idoneità52.

Il secondo obbligo non costituisce una vera novità: l'art. 7 contempla infatti un dovere del committente, già previsto nel d.p.r. 547/55, e cioè quello di fornire all'appaltatore e ai lavoratori autonomi chiamati ad operare all’interno dell'azienda dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate. In tal modo si consente ai dipendenti dell'appaltatore, da questi a loro volta informati, o al lavoratore autonomo di operare con la necessaria prudenza, consapevoli dei pericoli esistenti.

Gli aspetti più innovativi sono contenuti nel 2° comma che prevede due ulteriori obblighi gravanti contemporaneamente sia sul committente che sull'appaltatore (la norma parla infatti di datori di lavoro al plurale): essi devono cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto e coordinare gli interventi prevenzionali, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva53.

Dalla lettura congiunta di questo comma e di quello successivo54 si può ricavare che il solo imprenditore-committente è obbligato a promuovere tale cooperazione e coordinamento, cioè a prendere l'iniziativa perché ciò si verifichi.

Occorre ora, però, dare un'esatta connotazione all'obbligo di cooperazione gravante sul committente: punto di riferimento in questa difficile opera ermeneutica sono le espressioni contenute nel 2° comma lett. a, in cui si parla di rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto, e nel 3° comma, in cui esplicitamente si dice che l'obbligo di cui allo stesso comma non si estende ai rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi55.

In conclusione il legislatore, adeguandosi a quell'orientamento giurisprudenziale che già da tempo aveva superato il principio di non ingerenza, ha predisposto strumenti adeguati per affrontare quell'aumento del rischio determinato sia dal fatto che un certo numero di lavoratori deve lavorare in un ambiente che non conosce, e per questo per lui più pericoloso, sia per il fatto che nel medesimo ambiente di lavoro sono presenti più gruppi di lavoratori, tra loro indipendenti e esposti quindi ad una pluralità di rischi che si sovrappongono gli uni sugli altri.

Quest’obbligo di cooperazione é però limitato soltanto all'attuazione di quelle misure antinfortunistiche rivolte ad eliminare i pericoli che per effetto dell'esecuzione delle opere appaltate incidono sia sui dipendenti del committente che su quelli dell'appaltatore56; in ogni altro caso ciascun datore di lavoro dovrà provvedere autonomamente alla tutela dei propri dipendenti, di cui sarà quindi responsabile. Ciò è giustificato dalla natura stessa del contratto d'appalto e di quello d'opera, nei quali ha carattere essenziale l'autonomia dell'appaltatore o del prestatore d'opera nello svolgimento dei lavori commissionati.

Una parte della dottrina57 ritiene opportuno che il committente, al fine di rispettare gli obblighi di cui all'art. 7 inserisca nel contratto delle clausole simili a quelle contenute nelle tabelle riportate nell’Allegato I.

 

3.1 segue: IL D.LGS. N° 494 DEL 1996: LA SICUREZZA NEI CANTIERI

Come già anticipato, per completare il quadro normativo bisogna tener presente che il 14 marzo 1997 è entrato in vigore il d.lgs. 14 agosto 1996 n° 49458.

La necessità di emanare disposizioni specifiche per i lavori nei cantieri discende dalla considerazione che tali attività presentano caratteristiche del tutto peculiari rispetto alle attività lavorative normalmente espletate nell'ambito di uno stabilimento o altro luogo di lavoro, in quanto i lavori nei cantieri presentano un carattere variegato e complesso e coinvolgono attività e soggetti diversi: la particolare tipologia di rischio deriva proprio dallo svolgimento contemporaneo o in successione di attività diverse.

Da questa considerazione è derivata l'esigenza di coinvolgere, nel perseguimento dell'obiettivo della sicurezza globale, in una misura sempre più accentuata il soggetto-committente e di introdurre nuove figure soggettive che si occupino della gestione complessiva dei lavori59. I profili di novità di questo decreto consistono nel fatto di aver esteso gli obblighi, già previsti dall'art. 7 del d.lgs. n° 626/94 per le sole ipotesi di affidamento dei lavori all'interno dell'azienda o dell'unità produttiva, a tutti i cantieri temporanei e mobili e di aver generalizzato una nuova filosofia gestionale della sicurezza nei cantieri fino a quel momento limitata, con le leggi n°55/90 e n°109/94, al solo settore degli appalti pubblici, consistente, in sostanza, nel trasferire dalle imprese esecutrici dei lavori ai committenti le funzioni di vigilanza e coordinamento della prevenzione nei cantieri, senza peraltro sminuire il ruolo svolto nella gestione della sicurezza dal datore di lavoro-appaltatore.

La sicurezza è infatti un obiettivo da attuare attraverso un processo articolato in più fasi che parte dalla progettazione stessa delle opere da realizzare, comprende la programmazione delle fasi e delle modalità di lavoro e, per quanto riguarda la fase esecutiva, il coordinamento delle attività di tutti i soggetti coinvolti nel luogo di lavoro. Per assolvere a questi molteplici compiti vengono esplicitamente introdotte e disciplinate tre nuove figure: il responsabile dei lavori, il coordinatore per la progettazione ed il coordinatore per l'esecuzione dei lavori.

E' evidente, quindi, la portata innovativa dei decreti legislativi n° 626/94 e n° 494/96: essi si contraddistinguono per un'impostazione diametralmente opposta a quella accolta in passato dalla giurisprudenza60: mentre in passato infatti il datore di lavoro-committente, per essere considerato responsabile in caso di mancata attuazione delle norme di sicurezza di pertinenza dell'impresa affidataria, si poteva limitare ad astenersi da qualsiasi ingerenza, ora è sempre e comunque coinvolto assieme al datore di lavoro-appaltatore, essendo previsto a sua carico l'obbligo consistente nel cooperare e nel coordinare l'attuazione delle misure di prevenzione degli infortuni: è così stato eliminato quel diaframma sinora interposto tra committente ed appaltatore, che veniva giustificato, in passato, in base alla reciproca autonomia delle sfere imprenditoriali61.

3.2. segue: IL SUBAPPALTO

Nelle imprese di notevoli dimensioni o caratterizzate da una gamma di attività diverse è, inoltre, frequente il fenomeno del subappalto62. Il rapporto tra appaltatore-appaltante e subappaltatore è analogo a quello che si instaura tra committente ed appaltatore e che abbiamo appena analizzato63. Infatti se l'essenza del subappalto risiede nell'affidamento ad altri da parte dell'appaltatore dell'esecuzione dell'opera a lui affidata dal committente, in modo tale che questo terzo soggetto, il subappaltatore, assume ogni responsabilità in ordine all'esecuzione dei lavori e l'appaltatore invece di essa si disinteressa, è evidente che il subappaltatore diviene egli stesso imprenditore e quindi capo dell'impresa con una propria organizzazione dei mezzi necessari al compimento dell'opera e con gestione a proprio rischio della propria attività: sarà quindi in linea di principio il principale destinatario della normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro e quindi il principale responsabile anche per quanto riguarda eventuali infortuni che abbiano colpito i suoi lavoratori64 .

4. LA NOZIONE DI DIRIGENTE NEL NUOVO QUADRO NORMATIVO

Si è detto, in precedenza, che la nozione di datore di lavoro è stata quella che ha suscitato negli ultimi decenni la maggior attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza, unite in uno sforzo definitorio quanto mai opportuno: solo infatti con il d.lgs. n° 242/96 il legislatore ha dettato di questa figura una definizione compatibile con i principi generali dell'ordinamento giuridico italiano, dando soluzione in questo modo ad una "querelle" decennale.

La nozione di dirigente, che all'apparenza sembra non destare grandi problemi, è invece diventata piuttosto sfuggente: infatti definizioni come quella di "alter ego" del datore di lavoro, a cui in passato era giunta gran parte della dottrina, pur potendo all'epoca essere ritenuta corretta, in quanto conforme alla realtà aziendale del momento in cui era stata formulata, i primi anni '70, non può essere oggetto oggi di un giudizio altrettanto positivo.

L'evoluzione, in particolare, del settore industriale ha fatto emergere all'interno della stessa impresa varie figure, tra le quali alcune possono, anzi debbono, essere qualificate come dirigenziali, altre invece non debbono assumere tale qualifica1.

La nozione di dirigente viene richiamata in varie norme del d.lgs. n°626, così come modificato dal d.lgs. n°242: la ritroviamo in particolare nell'art. 1 comma 4 bis, in cui l'obbligazione di sicurezza viene ripartita innanzitutto tra i quattro soggetti ivi richiamati. Con questa norma si afferma che " il datore di lavoro che esercita le attività di cui ai commi 1°, 2°, 3° e 4° e, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, i dirigenti e i preposti che dirigono o sovrintendono le stesse attività, sono tenuti all'osservanza delle disposizione del presente decreto". Si ha quindi uno schema di ripartizione degli oneri prevenzionistici modellato sulla scomposizione dei ruoli endoaziendali: l'imputazione di quote dell'obbligazione di sicurezza presuppone l'esistenza di un'organizzazione di lavoro strutturata in modo da consentire l'individuazione dei soggetti tipizzati, a prescindere dalla formale investitura da parte del datore di lavoro1 bis.

Il datore di lavoro nella sua veste di principale destinatario della normativa antinfortunistica è dunque il soggetto obbligato in via principale e necessaria; l’obbligazione di sicurezza viene poi scomposta tra più soggetti sulla base del criterio delle loro "rispettive attribuzioni e competenze": viene quindi a gravare in modo consistente sui dirigenti. La scelta legislativa, imposta dalla particolare natura dell'obiettivo che si deve raggiungere, la sicurezza, la quale impone un intervento coordinato di più soggetti, si è orientata verso la scomposizione del carico prevenzionistico e la ripartizione "a cascata" delle singole frazioni debitorie tra determinati soggetti, individuati in relazione alla posizione da loro rivestita all'interno dell'impresa e più in generale alle loro prerogative di intervento sull'organizzazione o sul processo produttivo2.

Dal testo della norma in esame emerge una possibile affermazione di corresponsabilità, per la violazione della normativa antinfortunistica e per l'infortunio verificatosi, a carico di determinati di soggetti. Dal momento che quindi la legge annovera tra i garanti anche i dirigenti, essi hanno compiti e doveri propri in tema di sicurezza: l'istituto della delega di funzioni opera su un piano diverso ed in un secondo momento. Poichè sono soggetti della prevenzione per disposto di legge e non per conferimento di tali compiti da parte del datore di lavoro, la loro responsabilità discende dalla posizione occupata nell'azienda e dalla conseguente area di attribuzioni assegnate loro. Al di là di questa soglia, ogni altra diversa e maggiore attribuzione, in quanto esula dalla normale competenza spettante al soggetto iure proprio non potrà che essere conseguenza della delega, la quale potrà alterare "l'impianto legale", definendo un diverso assetto di devoluzione degli obblighi in materia3.

Il legislatore non è però andato oltre questa scarna indicazione: la giurisprudenza si è quindi assunta il compito di individuare caso per caso i reali contorni della figura di dirigente. Dall'analisi delle varie pronunce giurisprudenziali emerge il costante utilizzo del criterio di effettività4, che implica l'instaurazione di una precisa relazione biunivoca tra quantum di competenze e poteri concretamente ripartiti e la parte del complessivo onere prevenzionale posto a carico di ciascun soggetto; la qualificazione come dirigente postula come ineliminabile supporto logico l'attribuzione di una ben determinata sfera di competenze, più o meno ampia, al di là di qualsivoglia imputazione formale. Il carico prevenzionistico viene scomposto e ripartito tra i soggetti operanti all'interno dell'impresa in diretta e proporzionale relazione con l'estensione delle prerogative che ad essi competono.

L'individuazione dei destinatari delle norme di prevenzione degli infortuni va quindi compiuta non tanto in relazione alla qualifica rivestita dall'agente nell'ambito dell'organizzazione dell'impresa, quanto e soprattutto con riferimento alle reali mansioni esercitate che importano l'assunzione di fatto delle responsabilità a queste inerenti5.

La rilettura della ripartizione legale attraverso il filtro dell'effettività ora consente, e d'altra parte impone, di pervenire ad alcune conclusioni in ordine a diversi nodi problematici: la rilevanza di inquadramenti solo formali e l'articolazione dei compiti in presenza di più dirigenti.

In passato la dottrina ha cercato di fornire una definizione generale della figura in esame: ciò costituisce un'impresa ardua, poiché il legislatore non ha fornito elementi chiari al fine di una precisa delimitazione concettuale. Gli unici punti di riferimento in questa difficile opera ermeneutica sono rappresentati dall'art. 2 del Regolamento 15 luglio 1923 n° 1755 e dall'art. 2095 c.c.6: quest'ultimo con riferimento alle categorie dei prestatori di lavoro ha sancito una quadripartizione tra operai, impiegati, quadri ed appunto dirigenti, rinviando però alla contrattazione collettiva e alle leggi speciali per la determinazione dei requisiti di appartenenza a ciascuna categoria.

Il regolamento n° 1755/1923 definisce dirigenti d'azienda coloro che sono preposti "alla direzione tecnica ed amministrativa dell'azienda o di un reparto di essa con la diretta responsabilità dell'andamento dei servizi e cioè institori, gerenti, direttori tecnici ed amministrativi, capo ufficio, capo reparto, che partecipano solo eccezionalmente al lavoro normale".

La dottrina considera dirigente il primo e più elevato collaboratore del datore di lavoro7: alcuni Autori lo ritengono una sorta di alter ego dell'imprenditore, preposto alla direzione dell'intera impresa o ad un settore importante ed autonomo di questa e provvisto a tal fine di piena autonomia nell'ambito delle direttive generali dell'imprenditore8, altri un "tertium genus" tra lavoratore ed imprenditore9. Vi è inoltre chi si è sforzato di enucleare alcuni criteri orientativi da seguire nella difficile opera di individuazione dei contorni di questa figura10:

-collaborazione immediata con l'imprenditore per il coordinamento generale e lo sviluppo anche per lunghi cicli produttivi dell'attività aziendale nella sua totalità o in qualcuno dei suoi grandi rami;

-ampio potere di autodeterminazione delle direttive di organizzazione e delle attività dell'azienda nell'ambito dei fini di questa e dell'indirizzo generale fissato dall'imprenditore11;

-carattere spiccatamente intellettuale e fiduciario di tale collaborazione;

-superiorità gerarchica su tutto od una vasta parte del personale addetto all'azienda, con relativo ampio potere di controllo e valutazione ed eventuale potere disciplinare;

-subordinazione esclusiva verso l'imprenditore o chi immediatamente lo rappresenta;

-responsabilità diretta verso l'imprenditore in rapporto all'estensione delle sue funzioni;

-rappresentanza anche extra-aziendale, generale o limitata, non però a singoli atti, ma a determinate specie di affari.

Si impone, a questo punto, una doverosa precisazione: le conclusioni a cui sono giunte dottrina e giurisprudenza non possono essere trasposte "sic et simpliciter" in ambito penalistico, data l'autonomia del diritto penale rispetto alle altre discipline e la conseguente autonomia dei concetti elaborati nell'ambito delle altre discipline12.

Tenendo presente queste considerazioni si può affermare che l’attribuzione della qualifica di dirigente non è irrilevante, ma prescinde dal "nomen iuris" ed è ancorata a presupposti sostanziali ricavabili dalla ripartizione delle competenze e dalle mansioni concretamente svolte, in relazione in particolare ai due parametri costituiti dal potere di comando e dalla sfera di autonomia decisionale13.

Quindi, pur in assenza di formale investitura da parte del datore di lavoro con conseguente devoluzione alla posizione dirigenziale di compiti e conseguenti responsabilità, il dirigente sarà comunque obbligato a rispettare la normativa antinfortunistica, in quanto espressamente menzionato tra i soggetti contitolari dell'obbligazione di sicurezza. Indipendentemente, dunque, dalla concreta attribuzione derivante dagli schemi organizzativi aziendali, e quindi anche in caso di non attribuzione, il dirigente ai fini prevenzionistici si vedrà comunque addossata una cospicua parte del carico obbligatorio prevenzionale. D'altra parte l'investitura meramente formale non è di per sè sufficiente per far ritenere il dirigente penalmente responsabile, in quanto ciò che è importante è lo svolgimento in concreto di attribuzioni e competenze tipiche della categoria14.

Si realizza così una dissociazione tra la figura dirigenziale, intesa nell’accezione più propriamente guislavoristica, di origine codicistica, accolta spesso anche nella legislazione speciale, e l'omonimo profilo professionale oggi ricavabile dalla normativa dettata in materia di igiene e sicurezza del lavoro15.

Ciò trova per così dire un avvallo a livello legislativo nell'art. 2 del d.lgs. n° 626/94 così come modificato dal d.lgs. n° 242/9616, che, nel fornire la nozione di datore di lavoro, introduce una peculiare figura datoriale "in prevenzione", che può essere ricoperta anche da un soggetto che nell’accezione giuslavoristica viene invece considerato dirigente; a questa conclusione peraltro la dottrina prevalente era già giunta, mentre invece una parte di essa si era in passato espressa a favore della perfetta sovrapponibilità delle due figure, sottolineando come a favore di questa soluzione militerebbero sia l'elemento costituito dall'identità lessicale, che induce appunto ad escludere la sussistenza di diversi referenti a fronte dello stesso significante, sia l'argomento costituito dalla constatazione dell'ordinaria attribuzione in capo a chi ricopre la posizione di dirigente delle necessarie prerogative decisionali e di indirizzo, connotate dalla massima estensione rispetto all'organizzazione dell'impresa.

In realtà non si può che considerare non del tutto corrette queste argomentazioni, se ad esempio si considera come il dirigente di cui all'art. 2095 c.c. sia necessariamente un lavoratore subordinato, mentre può capitare, e ciò avviene con una frequenza sempre maggiore negli ultimi anni, specialmente in determinati settori, che il dirigente sia chiamato dall'esterno ed abbia con il datore di lavoro un rapporto di collaborazione professionale, senza essere stabilmente inserito nella struttura organizzativa dell'impresa17.

Va aggiunto che, negando la possibilità di tenere distinte le figure del dirigente obbligato nel campo della sicurezza del lavoro e del dirigente ex art. 2095 c.c., non si potrebbe spiegare l'ipotesi di pluralità di dirigenti in posizione subalterne tra di loro, ma tutti obbligati in vista del raggiungimento di questo obbiettivo18.

Come già anticipato, le correzioni apportate al decreto n° 626, oltre a confortare queste conclusioni, confermano la posizione, risultata dominante in dottrina, che assume l'effettività dei poteri come criterio principale del sistema di imputazione del debito di sicurezza, come risulta dal riferimento, contento nell'art. 2, alla concreta titolarità delle prerogative decisionali19.

Seguendo questo iter argomentativo si possono facilmente risolvere i problemi posti dall'eventuale attribuzione di qualifiche dirigenziali c.d. convenzionali: poiché i dirigenti c.d. convenzionali sono sprovvisti dei poteri che dovrebbero discendere dalla qualifica formale, essi vanno esclusi dal riparto delle responsabilità in materia di prevenzione degli infortuni e malattie professionali20.

Si può verificare un'ulteriore ipotesi di dissociazione tra le due qualifiche di dirigente: poiché il datore di lavoro viene definito dall'art. 2 del d.lgs. 626 anche come il soggetto titolare dei poteri decisionali e di spesa all'interno anche di una sola unità produttiva, ai fini prevenzionistici le figure dirigenziali che, come spesso accade, dovessero essere preposte alla gestione di una parte dell'impresa in condizioni di pressoché totale autonomia finirebbero per assumere connotazioni e prerogative tipiche del datore di lavoro, pur mantenendo il differente inquadramento di dirigenti, quanto a trattamento economico e normativo21.

Queste sono le conclusioni a cui sono giunte la dottrina prevalente e la giurisprudenza pressoché costante: non si può, però, non ricordare come alcuni autori abbiano sottolineato che un'applicazione generalizzata del principio di effettività possa portare ad attribuzioni di qualifiche soggettive troppo disinvolte, compromettendo il principio di tassatività che deve invece essere rispettato in sede di applicazione della legge penale22. Si propone quindi, senza sminuire l'importanza dell'accertamento dell'esercizio in concreto delle mansioni, di non affidarsi solo a questo criterio: il fenomeno di proliferazione delle figure dei dirigenti consiglia di tener conto anche della qualificazione giuridica del rapporto del soggetto con l'impresa: dalla combinazione infatti del criterio fattuale con quello giuridico si potrebbero ottenere risultati rispettosi del principio di legalità23.

E’ quindi utile punto di riferimento per un’esatta individuazione della figura in esame la contrattazione collettiva: i C.C.N.L. per i dirigenti industriali e per quelli del settore del commercio definiscono infatti il dirigente come colui che "rispondendo direttamente all’imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato svolge funzioni aziendali di elevato grado di professionalità, con ampia autonomia e discrezionalità e col potere di imprimere direttive. La qualifica di dirigente comporta la partecipazione e la collaborazione, con la responsabilità inerente al proprio ruolo, all’attività diretta a conseguire l’interesse dell’impresa. Sono dirigenti a titolo esemplificativo gli institori, i procuratori con stabile mandato di negotia, i direttori, i condirettori, i vice direttori, i capi di importanti servizi ed uffici"24.

Occorre però tener presente che a seguito dell'emanazione del d.lgs. n° 242/96 la problematica relativa all'individuazione del soggetto che debba ricoprire la carica di dirigente ha perso gran parte della sua rilevanza: infatti l'art. 1 comma 2 del d.lgs. n° 242 ha inserito nell'art. 1 d.lgs. n° 626 un nuovo comma, il 4 bis, che ha esteso ai dirigenti ed ai preposti l'obbligo di osservare, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, le disposizioni dettate dallo stesso decreto. Tale modifica ha innovato profondamente il quadro normativo così come delineato dal d.lgs. n° 626: infatti, stante l'assenza di tale comma nel testo del precedente art. 1, l'unica attribuzione di compiti ai dirigenti e ai preposti era costituito dall'art. 4 comma 5, in cui venivano sanciti una serie di obblighi a carico, indistintamente, del datore di lavoro, del dirigente e del preposto, per l'adozione delle misure necessarie per la sicurezza e salute dei lavoratori.

Inoltre nell'assetto normativo delineato dal d.lgs. n° 626 solo la violazione di alcuni obblighi era stata penalmente sanzionata indifferentemente a carico del datore di lavoro e del dirigente25, mentre l'inosservanza di gran parte dei nuovi precetti normativi era stata sanzionata penalmente solo a carico del datore di lavoro26.

Dalla combinazione di queste due norme derivavano effetti non soddisfacenti in materia di imputazione della responsabilità penale, in particolare in rapporto all'istituto della delega di funzioni.

La dottrina prevalente27, pur non concordando con chi28 riteneva che in base al d.lgs. n° 626 non fosse più possibile per il datore di lavoro, con riferimento agli obblighi le cui violazioni erano sanzionate solo a suo carico, far ricorso all'istituto della delega, sottolineava come tale prassi, ormai consolidata, dovesse essere comunque conciliata con il nuovo dettato normativo, in base al quale era sempre e solo il datore di lavoro il soggetto titolare dell'obbligo di attuare la maggior parte dei precetti prevenzionistici contemplati dal decreto. Proprio questa esigenza aveva però provocato due conseguenze negative: innanzitutto, configurando la delega come mezzo di adempimento dell'obbligazione di sicurezza, per affermare la penale responsabilità del datore di lavoro delegante bisognava valutare se il datore di lavoro avesse verificato che i compiti delegati fossero stati correttamente adempiuti; doveva quindi essere effettuata da parte del giudice penale una valutazione che accertasse eventuali colpe del datore di lavoro "in vigilando" ed "in eligendo". Ciò però produceva un'alterazione dell'istituto della delega: mentre esso richiedeva come condizione di efficacia, in base alla costante elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, l'attribuzione al delegato di una sfera di autonomia, e quindi di poteri decisori pari a quelli del soggetto delegante, la ricostruzione operata dalla dottrina per rendere compatibile l'istituto della delega con il d.lgs. n° 626 vedeva invece come presupposto proprio la restrizione di quel ampio grado di indipendenza decisionale che costituiva uno dei requisiti tradizionali dell'istituto.

Infatti per il datore di lavoro, che volesse andare esente da responsabilità, non sarebbe stato sufficiente dimostrare di aver correttamente delegato i propri compiti, ma sarebbe stato altresì necessario dimostrare di aver personalmente provveduto, con la necessaria diligenza, ad assicurarsi, per quanto possibile, dell'esatto adempimento della delega rilasciata.

Altro difetto era costituito dalla sostanziale immunità che veniva accordata al soggetto delegato, dirigente o preposto, non potendosi, in presenza del divieto di interpretazione in malam partem, estendere anche anche a loro la penale responsabilità in ordine ai reati, che in base al d.lgs. n° 626, venivano considerati propri del solo datore di lavoro.

Su questo quadro normativo é intervenuto il d.lgs. n° 242/96, che ha posto rimedio alle lacune che la più attenta dottrina aveva messo in evidenza29: il novellato art. 89 prevede per quasi tutti i reati la responsabilità indifferentemente del datore di lavoro e del dirigente; solo talune violazioni, riguardanti l'obbligo di procedere alla valutazione dei rischi, alla redazione del piano di sicurezza ed all'aggiornamento della valutazione stessa in seguito ad eventi significativi, che incidono in maniera rilevante sull'attività dell'azienda e sulla posizione dei lavoratori, vengono sanzionate esclusivamente a carico del datore di lavoro, in base alla nuova formulazione del primo comma dell'art. 89. Si tratta infatti di una serie di contravvenzioni che possono essere commesse esclusivamente dal capo dell'impresa, in quanto ineriscono a compiti che non sono da lui delegabili ad altri soggetti, ma che deve assolvere personalmente30. Per quanto riguarda invece tutti gli altri obblighi previsti dal decreto, destinatari di essi, quindi responsabili penalmente per la loro inottemperanza, sono indifferentemente il datore di lavoro e i dirigenti: viene meno, in questo modo, ogni difficoltà interpretativa nel caso in cui il datore di lavoro abbia deciso di delegare a soggetti subordinati l'adempimento degli obblighi stessi.

L'ammissibilità della delega trova poi una conferma, oltre che nel già citato art. 1 comma 4 bis, anche nel comma 4 ter, secondo un "argomentum a contrario": in questo comma si afferma che i soli adempimenti, tra quelli contemplati dal decreto, non delegabili da parte del datore di lavoro sono quelli relativi all'effettuazione della valutazione del rischio, all'elaborazione del conseguente documento, all'autocertificazione per le imprese per cui vigono procedure semplificate, ed alla nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione31.

4.1 ALCUNE FIGURE TIPICHE: IL DIRETTORE TECNICO ED IL DIRETTORE AMMINISTRATIVO

Per certi tipi di lavoro a carattere prevalentemente ciclico e specialistico l'imprenditore fa spesso ricorso alle prestazioni di un collaboratore esterno, dotato di particolari capacità tecniche e cioè di un professionista al quale affida la direzione dei lavori, con il compito di organizzarli e curarne l'esecuzione a perfetta regola d'arte. Fra i suoi compiti è normalmente ricompreso anche quello di predisporre le misure di sicurezza fornite dal capo dell'impresa e stabilite dalla legge32; il direttore tecnico deve altresì controllare le modalità del processo di lavorazione e conseguentemente attuare nuove misure anche non previste dalla normativa, ma rese necessarie per tutelare la sicurezza in relazione a particolari lavori, che si svolgano in condizioni non previste e non prevedibili dal legislatore. Deve vigilare che il lavoro si svolga in condizione di sicurezza, dare istruzioni affinché venga compiuto nel migliore dei modi: se non può assistere personalmente all'intero ciclo di produzione deve demandare ad altri soggetti questo compito33.

Dalla figura del direttore tecnico si deve tenere distinto il direttore amministrativo, a cui è assegnata, in particolare nelle imprese di grandi dimensioni, l'attività di organizzazione dell'impresa soprattutto sotto il profilo amministrativo e dei rapporti economici con i dipendenti. In linea generale egli rimane estraneo allo sviluppo del ciclo di produzione: quindi non può essere considerato responsabile per l'eventuale nocività dell'ambiente di lavoro34; quando però le modalità del processo produttivo soffrono carenze in ragione di un organico tecnico non sufficiente o di scelte economiche che non prevedono un'adeguata destinazione di fondi per la tutela della sicurezza del lavoro potrà essere ritenuto penalmente responsabile35.

 

4.2 segue: IL DIRETTORE DEI LAVORI. IL DIRETTORE DI CANTIERE ED IL DIRETTORE DI STABILIMENTO

Non sempre la figura del direttore tecnico é facilmente distinguibile da quella del direttore dei lavori, anzi spesso queste due figure tendono a sovrapporsi.

Quest'ultima figura si riscontra nelle imprese edilizie ed è un incaricato dell'imprenditore, un dipendente della stesso o, come più spesso accade, un collaboratore esterno, a cui sono affidati compiti importanti. Le mansioni della figura in esame comprendono la direzione dei lavori, l'alta sorveglianza degli stessi, l'emanazione di ordini e disposizioni, nonché l'assistenza periodica all'esecuzione dell'attività lavorativa36 37.

Le funzioni ora descritte non obbligano il direttore dei lavori ad una presenza costante sul luogo di lavoro: l'art. 17 della l. n° 143/1949 esclude l'obbligo di essere presente ogni giorno nel cantiere; la giurisprudenza precisa che questa dispensa trova un limite nella natura dei lavori e nell'obbligo, in ogni caso, di impartire disposizioni univoche e di esercitare il controllo dei lavori pericolosi38.

Nel settore dell'edilizia, in particolar modo, si ha bisogno che un soggetto dotato di adeguata competenza tecnica eserciti un controllo continuo sullo svolgimento dei lavori: per assolvere a questo delicato compito viene spesso nominato un direttore di cantiere. Le sue mansioni sono relative ad un singolo cantiere; egli deve sorvegliare l'intero ciclo lavorativo che vi si svolge: ha di conseguenza l'obbligo di essere sempre presente sul luogo di lavoro39.

L'equivalente, per il settore industriale, della figura da ultimo esaminata è il direttore di stabilimento: anch’egli potrà avvalersi di altri collaboratori, nell’impresa di grandi dimensioni, e la sua responsabilità deve essere valutata in base alla ripartizione delle competenze e dei suoi obblighi residuali, incluso quello di eliminare le deficienze nei sistemi di protezione, quando ne venga a conoscenza40.

Un'altra figura particolare, simile a quella del direttore dei lavori, è prevista dall'art. 6 del d.p.r. 9 aprile 1959 n° 128 in materia di miniere, cave e torbiere. Tale norma impone agli imprenditori che operino nel settore di nominare un direttore responsabile, direttamente tenuto all'osservanza del decreto, con la conseguente esclusione di responsabilità per il datore di lavoro, eccezion fatta per il caso in cui quest'ultimo abbia i requisiti stabiliti dalla legge per rivestire la qualifica di direttore ed i relativi compiti, ma non abbia voluto assumere tale carica41.

4.3 segue: IL DIRETTORE DI REPARTO O CAPO-REPARTO

Oltre ai dirigenti che coordinano tutta l'attività dell'impresa o dei vari stabilimenti, di cui hanno dunque anche la responsabilità, nelle aziende più complesse vi è una categoria intermedia di dirigenti: essi dirigono solo determinati settori o reparti.

Il Regolamento 10 settembre 1923 n° 1955 inserisce tra il personale direttivo anche il capo-reparto che ha il compito di sovrintendere al ciclo di produzione che si svolge all'interno di un particolare settore della fabbrica. Nella scala gerarchica ricopre una posizione intermedia tra il dirigente tecnico ed il capo-squadra, che è un semplice preposto. Il capo-reparto deve essere qualificato come dirigente se ha compiti di direzione e coordinamento del processo produttivo con possibilità di iniziative autonome in materia; in caso di assenza di tali poteri deve essere invece considerato un semplice preposto42.

4.4 segue: IL DIRETTORE DEI LAVORI PER CONTO DEL COMMITTENTE

Il direttore dei lavori per conto del committente, che non deve essere confuso con l'omonimo direttore dei lavori, è una figura specifica per il caso in cui vengano affidati lavori in appalto. Si tratta di un dirigente che può essere nominato dal committente per una supervisione ed un controllo di natura tecnica su un'opera affidata per l'esecuzione ad un appaltatore43.

In linea generale non può essere considerato destinatario della normativa antinfortunistica44: non ha infatti normalmente nessun potere di ingerenza nell'attività dell'appaltatore e quindi, sul piano prevenzionale, non assume alcuna responsabilità, essendo il suo ruolo limitato ad un controllo della buona qualità dell'opera e della sua conformità al capitolato d'appalto; non può interferire sulle modalità organizzative dei lavori, la cui determinazione spetta unicamente all'appaltatore45.

Solo in due casi il direttore dei lavori per conto del committente può divenire responsabile, rectius corresponsabile, in relazione alla tutela della sicurezza del lavoratore: la prima ipotesi si ha quando, per accordo delle parti, venga nominato un solo direttore che sovrintenda alla modalità esecutive dei lavori: in tal caso le due figure si fondono e responsabile per il mancato rispetto della normativa antinfortunistica sarà la persona scelta da entrambe le parti, la quale potrà essere chiamata in causa non nella sua veste di collaboratore del committente, bensì in qualità di direttore dei lavori nominato dall'imprenditore-appaltatore46.

Inoltre nel caso in cui non si limiti al controllo del rispetto del capitolato, ma sovrintenda de facto al cantiere, viene ritenuto destinatario delle norme di prevenzione degli infortuni: trova qui dunque applicazione l'impostazione giurisprudenziale, che abbiamo in precedenza esaminato, che attribuisce rilevanza determinante all'esercizio effettivo delle mansioni47. In questo caso infatti si verifica una forma di ingerenza nella sfera delle prerogative dell'appaltatore: il direttore dei lavori per conto del committente compie atti non richiesti, che però incidono sul complesso dell'organizzazione del lavoro, dunque deve risentire di tutte le conseguenze che da tali atti possono derivare, anche in relazione quindi alla sicurezza dei lavoratori dipendenti dall'appaltatore48.

In conclusione, due sono i comportamenti tipici del direttore dei lavori per conto del committente in presenza dei quali la giurisprudenza afferma la responsabilità penale di quest'ultimo: il primo consiste nel aver impartito precise direttive o elaborato progetti da realizzare, nel caso in cui le direttive ed i progetti abbiano costituito essi stessi fonte di rischio. La seconda situazione é quella in cui abbia disposto o consentito l'inizio dei lavori malgrado l'esistenza di una situazione pericolosa, in quanto non rispettosa della normativa antinfortunistica49.

5. IL PREPOSTO ED IL PROBLEMA DELLA SUA RESPONSABILITA’ PENALE

In ordine all'individuazione di questa figura valgono sostanzialmente le considerazioni svolte nel precedente paragrafo in relazione alla figura del dirigente.

Dall'esame dei decreti n° 547/55 e n° 303/56, nonché del d.lgs. n° 626/94 emerge un sistema di sicurezza delle condizioni di lavoro che accoglie un principio di "sicurezza diffusa" e di "responsabilità differenziata", che comporta l'adeguamento della sfera di responsabilità a quella dei compiti attribuiti ai diversi soggetti e da questi effettivamente esercitati1.

Al terzo posto della quadripartizione legale dei soggetti destinatari della normativa antinfortunistica l'art. 2 comma 4 bis del d.lgs. n° 626/94 colloca i preposti. Anche di questa figura il legislatore non fornisce una definizione: al pari, dunque, di quanto si è messo in evidenza a proposito del dirigente, e per il medesimo ordine di motivi, risulta particolarmente difficile fissare con esattezza i tratti qualificanti della figura in esame.

Inoltre in relazione a questa figura è presente un ulteriore profilo problematico costituito dal fatto che il concetto di preposto è un concetto piuttosto vago in quanto non si riferisce ad una specifica qualifica, ma identifica tutta una serie di soggetti inseriti nella gerarchia aziendale tra il dirigente e i lavoratori2. Mancano, quindi, quegli indici che in relazione alla figura del dirigente, potevano essere estrapolati dalla legge o dalla contrattazione collettiva, seppur tenendo conto di tutti gli evidenziati limiti connessi ad una operazione che deve tener conto della non perfetta coincidenza tra la nozione giuslavoristica e quella penalistica. Non si può dunque che fare riferimento, per delineare i contorni della figura de qua agitur, alle elaborazioni giurisprudenziali e dottrinarie3.

Dottrina e giurisprudenza hanno contribuito a stabilire alcuni punti fermi: la notevole produzione sul tema inoltre rivela a volte voci discordanti, che saranno in seguito analizzate.

Su un punto vi è totale convergenza: il preposto deve essere tenuto distinto dalla figura del dirigente; le loro responsabilità coprono una sfera di attribuzioni diverse e proprie di ciascuna qualifica4.

L'unico punto di riferimento in questa difficile operazione qualificatoria è rappresentato dall'esame degli articoli 4 del decreto n° 547/55 e dell'art. 2 comma 4 bis del d.lgs. n° 626/94: in entrambe gli articoli al termine preposto viene posto accanto il verbo sovrintendere; in precedenza il termine preposto era stato impiegato nell'art. 32 del T.U. 3 gennaio 1904 n° 51, attribuendogli il compito di sorveglianza dei lavoratori: secondo parte della dottrina questa scelta del legislatore avrebbe accentuato il ruolo di supremazia gerarchica del preposto5.

Dalla lettura delle varie norme che lo prendono in considerazione emerge come una figura dotata di funzioni di immediata supervisione del lavoro e di diretto controllo sulle modalità esecutive della prestazione. Il preposto è un incaricato della sorveglianza di un gruppo di operai da lui dipendenti6; è quindi sovraordinato gerarchicamente ai dipendenti svolgenti mansioni manuali ed esercita un controllo diretto ed immediato sulla loro attività7.

Strettamente connessi a questi compiti è la sfera, seppur ristretta, di poteri direttivi di cui è dotato8: il preposto è colui che applicando ed eseguendo le istruzioni impartite dai dirigenti fa in modo che siano osservate nel singolo settore dello stabilimento a lui affidato; per poter adempiere a questo compito deve poter impartire ordini ed istruzioni agli operai affidati al suo controllo9.

E' inoltre dotato anche di un limitato potere disciplinare nei confronti dei dipendenti a lui sottoposti: in particolare non può limitarsi a benevoli richiami, ma deve prontamente informare il datore di lavoro o il dirigente legittimato ad applicare ai dipendenti riottosi richiami formali o sanzioni disciplinari10.

Si è molto discusso in giurisprudenza se per la qualificazione di un soggetto come preposto occorresse necessariamente una sfera più o meno ampia di autonomia: ormai può pacificamente affermarsi che un margine seppur minimo di autonomia non può non essere presente11.

In sostanza la vigilanza del preposto riguarda essenzialmente gli sviluppi esecutivi dell'opera, la realizzazione cioè del programma dei lavori, così come è stato elaborato dai suoi superiori gerarchici, sulla base di criteri di massima, con i mezzi, le attrezzature e i presidi di sicurezza esistenti12. Al preposto spetta, dunque, l'incarico di vigilare affinché il lavoro, oltre ad essere eseguito in base al programma prestabilito, si svolga in condizioni di sicurezza, nell'ambito delle misure apprestate dai superiori, delle disposizioni da essi impartite e delle regole di comune prudenza, diligenza e perizia; dovrà anche esigere che i lavoratori rispettino le varie norme ed utilizzino i mezzi di protezione13.

Per quanto riguarda la responsabilità del datore di lavoro che abbia adempiuto all’obbligo impostogli di nominare un preposto per sovrintendere determinate specifiche operazioni, designando una persona capace ed idonea a ricoprire il ruolo assegnatogli, é opinione costante in dottrina ed in giurisprudenza che al capo dell’impresa non può essere addebitato l’evento dannoso che si sia verificato per inosservanza di una delle disposizioni che regolano quelle specifiche operazioni, sulle quali doveva vigilare il preposto. L’imprenditore non ha nemmeno il dovere di conferire ulteriori deleghe, dal momento che i poteri necessari all’espletamento dell’incarico vengono direttamente dalla legge: solo la prova di una fittizia preposizione o dell’esautoramento di fatto del preposto può fondare un’affermazione di responsabilità nei confronti del datore di lavoro14. D'altronde, poiché é opinione costante in dottrina che é necessario che il conferimento della delega sia accompagnato dall'attribuzione al delegato dei poteri decisionali, degli strumenti organizzativi e dei mezzi economici necessari per un corretto adempimento dei compiti prevenzionistici devoluti allo stesso14 bis, quando la delega di funzioni venga effettuata a favore di un preposto, essa non può che avere ad oggetto il tipo di mansioni proprie della qualifica: non può quindi ricomprendere, oltre ai compiti di sorveglianza e di attuazione pratica delle misure di sicurezza già predisposte, funzioni di organizzazione e gestione globale della sicurezza. Per quest'ultimo tipo di mansioni il preposto non potrebbe disporre dei poteri sufficienti, ed al contempo necessari, senza assumere, per ciò stesso, la diversa qualifica di dirigente 14 ter.

La giurisprudenza costante ritiene che compito del preposto non è quello di sorvegliare ininterrottamente, senza soluzione di continuità, il lavoratore, tanto da doversi ritenere che il legislatore abbia richiesto l'impiego congiunto di due persone, cioè il lavoratore ed il suo controllore; il preposto deve semplicemente assicurarsi in modo continuativo ed efficace che il lavoratore segua le disposizioni di sicurezza impartite ed utilizzi gli eventuali strumenti di protezione prescritti; deve effettuare tale controllo direttamente, cioè personalmente: ciò non significa però che il preposto non possa allontanarsi dal luogo nel quale operano i lavoratori affidati al suo controllo per dedicarsi ad altri compiti15.

In definitiva, la legge non demanda al preposto l'impostazione della politica antinfortunistica dell'intera azienda16: infatti la figura del preposto ha una sua posizione ben precisa all'interno della gerarchia aziendale, di cui costituisce l'ultimo anello e la sua introduzione si rende necessaria in quelle imprese di grosse dimensioni, in cui il datore di lavoro e i dirigenti non sono in grado da soli di controllare l'intero processo produttivo; ad assolvere questo compito viene chiamato appunto il preposto.

L'indirizzo di gran lunga prevalente esclude la responsabilità dei preposti per l'inesistenza o l'insufficienza delle misure di sicurezza, non essendo essi dotati di poteri di direzione sull'organizzazione del lavoro17. Vengono invece ritenuti destinatari dell'obbligo consistente nel porre in essere quelle cautele che attengono alle modalità di esecuzione o semplici accorgimenti e che non richiedano allestimento di opere o possesso di cognizioni tecniche particolari.

Essi dunque avranno il dovere di segnalare qualunque disfunzione in ordine alle misure di prevenzione antinfortunistica predisposte18: infatti "il dovere di informativa" al datore di lavoro e ai dirigenti dell'esistenza di una situazione di pericolo loro ignota spetta ai preposti come misura di generale prudenza, indipendentemente da una espressa e specifica previsione legislativa19; strettamente connesso al precedente è il dovere di far arrestare i lavori ove ritenga che non si stiano svolgendo in condizione di sicurezza20. Dovrà inoltre far fronte alle peculiari situazioni che si verifichino nel corso dell'esecuzione dell'opera, adattando le misure di sicurezza esistenti alle specifiche esigenze che si manifestano21.

La Cassazione ha indicato le condizioni in presenza delle quali il preposto è esonerato dall'adempimento dei suoi doveri e dalla connessa responsabilità: egli può assentarsi dal luogo di lavoro solo in presenza di impellenti ed inderogabili necessità personali e solo dopo aver conferito i propri poteri ad altro preposto22.

Dopo aver preso in considerazione le funzioni che normalmente vengono ricollegate alla figura del preposto, è ora opportuno individuare in base a quale criterio si deve attribuire ad un determinato soggetto tale qualifica: la giurisprudenza e la stessa dottrina sono divise sull'indispensabilità o meno di un atto formale di investitura.

Da parte di alcuni lo si ritiene necessario e si afferma che le norme di tutela della sicurezza del lavoratore, in base alle quali si richiede che determinati lavori siano guidati da un preposto, sono soddisfatte solo quando un lavoratore dotato della necessaria qualificazione tecnica per lo svolgimento di tale incarico sia stato espressamente investito di un siffatto ruolo, non essendo sufficiente che uno dei lavoratori abbia una qualifica che in astratto lo abiliterebbe a svolgere mansioni diverse da quelle alle quali è di solito addetto, nel caso specifico ad esempio quelle di coordinamento del lavoro dei suoi colleghi23.

Gran parte della dottrina, confortata in questo da varie pronunce giurisprudenziali, ritiene che la qualità di preposto non derivi necessariamente da un particolare incarico, che può invece anche mancare sul piano formale; tale qualità può desumersi, oltre che dalla qualifica attribuitagli, dalle modalità di organizzazione del lavoro e soprattutto dalle funzioni in concreto esercitate24 25.

Anche con riferimento alla figura del preposto si può quindi affermare che la formale attribuzione della qualifica, pur mantenendo la sua piena rilevanza nell'ambito degli schemi di organizzazione aziendale di ripartizione dei compiti, in campo penalistico costituisce un mero indizio, che dovrà essere suffragato da altri elementi26.

La giurisprudenza afferma, seguendo un orientamento ormai pressoché costante, che la qualifica di preposto e la connessa responsabilità non competono soltanto ai soggetti forniti di titoli professionali e di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione tale da porlo in condizione di dirigere l'attività lavorativa di altri operai, soggetti ai suoi ordini27, dal momento che in tema di infortuni sul lavoro l'esatta individuazione del preposto, più che attraverso la qualificazione giuridica va fatta con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell'ambito dell'impresa28.

In materia di responsabilità dei preposti va dunque ribadita la piena applicazione del principio di effettività così come elaborato dalla giurisprudenza: in considerazione di ciò la responsabilità non deriva da una mera attribuzione formale, ma richiede l'effettivo svolgimento di compiti e prerogative propri della figura in esame29. Quindi, come sottolinea anche la dottrina più attenta, la formale attribuzione della qualifica di preposto riveste, al massimo, valore indicativo, ma non decisivo, non ostando ad una diversa valutazione maggiormente aderente alla reale ripartizione delle posizioni endoaziendali30.

 

5.1 ALCUNE FIGURE TIPICHE: IL CAPO-SQUADRA, IL CAPO-CANTIERE, L’ASSISTENTE EDILE ED IL CAPO-REPARTO

La giurisprudenza e la dottrina hanno individuato alcune categorie-tipo di preposti; non tutte, secondo parte della dottrina, possono essere facilmente ricondotte nella categoria in esame: sarà necessario quindi individuare in concreto le funzioni esercitate da ciascun soggetto, al fine di una corretta catalogazione31.

Quando il lavoro è articolato in gruppi di persone la necessità di coordinamento degli operai richiede la presenza di un capo squadra: tra le varie figure a cui viene assegnata la qualifica di preposto è quella dotata della più ristretta sfera di obblighi e responsabilità; svolge i compiti tipici della categoria, in particolare sovrintende al lavoro e tiene i contatti con la dirigenza dell'azienda32.

La figura del capo-cantiere, invece, risulta non sempre facilmente definibile sotto il profilo del ruolo e delle connesse responsabilità. Lo sviluppo delle imprese edili e il loro ingrandimento ha infatti provocato in concreto una rivoluzione nelle funzioni all'interno delle gerarchie aziendali: anche se viene inserito dalla legge fra i preposti33 non può escludersi, in base alle dimensioni del cantiere e alle capacità professionali del soggetto in questione, che in concreto svolga attività di tipo direttivo34. In tal caso il capo-cantiere assumerà tutti gli obblighi che gravano normalmente sui dirigenti, perché in concreto riveste proprio tale qualifica. Verrà considerato semplice preposto quando il cantiere sia di limitate dimensioni, vi lavorino pochi operai, l'attività direttiva sia esercitata dal datore di lavoro in prima persona o tramite dirigenti da lui nominati35: in questo caso infatti le sue funzioni saranno di mera sorveglianza e puramente esecutive36.

Le funzioni dell'assistente edile possono essere ricavate dal R.D. 25 maggio 1895 n° 350 (Regolamento della direzione dei lavori eseguiti per conto dello Stato) e variano secondo le particolarità della concreta situazioni: potrà avere compiti solo amministrativi oppure occuparsi del controllo delle opere provvisionali; nel caso in cui manchi la figura del capo-cantiere svolgerà molte delle sue funzioni. E' affermazione costante in giurisprudenza che la nomina di un assistente edile non garantisce che il lavoro si svolga in condizioni di sicurezza, poiché l'assistente non ha la direzione e l'organizzazione dei lavori, ma è addetto alla mera sorveglianza degli sviluppi dell'opera: è persona solo sussidiariamente tenuta all'osservanza dell'attuazione delle misure antinfortunistiche che devono essere già state predisposte personalmente dall'imprenditore o dal direttore dei lavori37.

Per quanto riguarda i suoi compiti e l'eventuale assunzione della qualifica di dirigente si possono richiamare le indicazioni date a proposito del capo-cantiere38.

Le considerazioni fatte finora valgono anche per il capo-reparto, annoverato dalla giurisprudenza costante tra i preposti39.

6. IL RUOLO DEL LAVORATORE NEL NUOVO SISTEMA DI SICUREZZA DEL LAVORO

Dall'analisi compiuta finora si può vedere come il d.lgs. n° 626/94 abbia, in materia di igiene e sicurezza del lavoro, perfezionato il quadro organizzativo precedente, ridefinendo soggetti, competenze, poteri e, di conseguenza, le responsabilità di coloro che devono impegnarsi nel miglioramento della sicurezza sul lavoro: esso costituisce un salto di qualità nell’organizzazione della sicurezza all'interno delle aziende1.

Vengono introdotti nuovi soggetti, il responsabile del Servizio di prevenzione, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, il medico competente, mentre altri, pur già presenti nella precedente normativa, acquistano, con il recente decreto, un ruolo sempre più pregnante ed importante. Ciò vale innanzitutto per i lavoratori ai quali il legislatore dedica una maggiore attenzione rispetto al passato: elementi di novità si possono infatti cogliere anche per quanto riguarda lo status giuridico dei prestatori di lavoro. Da una lettura dell'intero provvedimento si ricava come il legislatore li abbia responsabilizzati maggiormente, rispetto al passato, sia ampliando il novero e il contenuto degli obblighi che gravano su di loro, sia inasprendo in modo rilevante le sanzioni alle quali sono esposti in caso di inadempienza agli stessi.

Dunque al lavoratore viene assegnato nel complessivo sistema della sicurezza rispetto al passato un ruolo più attivo1bis, in vista del perseguimento e costante mantenimento degli elevati standards di tutela previsti dalla nuova normativa: é ormai chiamato ufficialmente e compiutamente ad abbandonare la sua posizione di mero titolare del credito di sicurezza, il cui soddisfacimento é comunque autonomamente garantito; egli deve diventare soggetto attivo della sicurezza individuale e collettiva. Una quota del debito di sicurezza, per quanto residuale e marginale rispetto a quella dei principali obbligati, datore di lavoro, dirigente e preposto, viene posta a sua carico attraverso la previsione di una serie di doveri di autotutela e collaborazione.

In tal modo si prende atto dell'evoluzione dei modelli di organizzazione del lavoro, che sono orientati sempre più verso l'autonomia e la partecipazione dei lavoratori, e dell’adozione di nuovi processi produttivi, che hanno determinato un'innalzamento delle professionalità richieste. Si é realizzato infatti un mutamento nella struttura dell'impresa, la quale ha ormai perso la sua configurazione rigidamente verticistica e gerarchizzata per assumerne una in cui sono prevalenti i caratteri della partecipazione e del decentramento organizzativo. Di conseguenza oggi i lavoratori costituiscono l'elemento il cui coinvolgimento risulta essenziale affinché gli interventi di protezione e prevenzione disposti dal datore di lavoro abbiano successo.

Collegato a ciò da un rapporto, per così dire, di causa-effetto è l'abbandono da parte del legislatore di un modello di prevenzione oggettiva-tecnica, a cui si erano ispirati i decreti emanati negli anni cinquanta2. La previsione del lavoratore tra i soggetti obbligati si spiega con l'intento del legislatore di dare vigore ad una nuova concezione della sicurezza, denominabile come prevenzione soggettiva, che si basa sulla collaborazione fattiva del lavoratore all'interno della propria azienda; vengono in questo modo recepite le indicazioni che provenivano dalla direttiva-quadro n° 391/89, nel cui 11° considerando si affermava che "per garantire un miglior livello di protezione é necessario che i lavoratori e/o i loro rappresentanti ... siano in grado di contribuire, con una partecipazione equilibrata ... all'adozione delle necessarie misure di protezione"3.

Al di là però delle espressioni usate dalla dottrina per indicare il diverso approccio al problema della sicurezza nei luoghi di lavoro è necessario analizzare le varie norme, che nella legislazione degli anni '50 ed in quella di derivazione comunitaria emanata a partire dal 1991, sono dedicate in particolare agli obblighi del lavoratore in materia di prevenzione. Infatti tra i destinatari della normativa antinfortunistica precedente erano già inseriti anche gli stessi lavoratori: essi venivano presi in considerazione in varie disposizioni normative la cui inosservanza era ed é addirittura sanzionata penalmente: secondo l'opinione unanime della dottrina l'intento del legislatore non era però quello di fondare in capo ad essi delle vere e proprie posizioni di garanzia4.

Era infatti opinione costante che l'art. 6 del d.p.r. n° 547/55, pur imponendo ai lavoratori vari obblighi5 non poteva venir in alcun modo accostato all'art. 4, in cui vengono previsti i vari obblighi che gravano sul datore di lavoro; con esso esiste infatti un profondo divario qualitativo: il datore di lavoro é tenuto a tutelare la salute dei lavoratori non in forza del dovere generale di "neminem laedere", corrispettivo di un diritto assoluto della persona, ma principalmente in base ad un preciso obbligo contrattuale, poiché il diritto all'integrità psico-fisica si inserisce, come oggetto di un'obbligazione accessoria, nello specifico rapporto di lavoro. Da ciò deriva, a carico del datore di lavoro, l'imposizione anche di obblighi di comportamento a contenuto positivo; in capo al prestatore di lavoro non si rinviene, invece, una simile posizione contrattuale di garanzia.

Il lavoratore continua ad essere il principale beneficiario delle norme di sicurezza, nel senso che esse sono dettate per la salvaguardia della sua integrità fisica e di conseguenza altri soggetti sono obbligati a rispettarle6. Questa affermazione deve essere correttamente intesa: in materia antinfortunistica il lavoratore che assume la veste di creditore è, nello stesso tempo, debitore, perché la predisposizione delle misure di sicurezza soddisfa non solo un interesse proprio, ma anche quello di coloro che a vario titolo si trovano in un determinato luogo di lavoro, nonché un interesse d'ordine generale: l'art. 32 Cost. infatti prende in considerazione il bene-salute e ne impone la tutela come "diritto dell'individuo ed interesse della collettività".

Il lavoratore pertanto é per un verso beneficiario delle norme di sicurezza, ma é anche destinatario di vari obblighi per la salvaguardia della salute degli altri lavoratori.

Le ragioni dell'attribuzione di limitati doveri ai lavoratori vanno ricercate, da un lato nello scopo di non vanificare il complesso sistema di prevenzione già predisposto da altri soggetti, quali il datore di lavoro, i dirigenti ed i preposti, dall'altro nell'intento di evitare comportamenti tipicamente imprudenti e specificatamente individuati che possano arrecare danno ad altri lavoratori. In tale ottica, la previsione di taluni doveri per i lavoratori non é diretta a provocare un qualche spostamento, seppur ridotto, sui medesimi delle responsabilità che gravano invece sugli effettivi garanti; é solo la conseguenza della constatazione che la sicurezza é un obiettivo che richiede, per il suo raggiungimento, l'impegno di più soggetti.

Il sistema antinfortunistico delineato nei decreti n° 547/55 e 303/56 si fonda in primo luogo ed in modo inderogabile7 sul datore di lavoro, il quale deve organizzare, potenziare e mantenere sempre efficiente il livello di prevenzione e protezione; il lavoratore ha il diverso e più ridotto compito di non alterare il livello di sicurezza già raggiunto8.

Particolarmente interessante é a questo proposito la previsione contenuta nell'art. 6 lett. c in cui si impone ai lavoratori di "segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o ai preposti le deficienze dei dispositivi e dei mezzi di sicurezza e di protezione, nonché le altre eventuali condizioni di cui venissero a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza e nell'ambito della loro competenze e possibilità, per eliminare e ridurre dette deficienze o pericoli".

Quest'obbligo é stato interpretato dalla giurisprudenza in modo differente nel corso degli anni, mentre la dottrina sembra essersi orientata sin da subito per un'interpretazione restrittiva del testo della norma. Sembra, comunque, essere stata ormai abbandonata quell'impostazione che poneva a carico del lavoratore l'obbligo previsto dalla norma, senza prevedere alcun temperamento e facendo riferimento, per individuarne il contenuto, al mero dato letterale9. L'opinione prevalente sembra essere ora quella in base alla quale non spetterebbe al lavoratore segnalare la mancanza di dispositivi di sicurezza, dal momento che l'obbligo di apprestarli incombe al datore di lavoro e ai dirigenti10: questa diversa impostazione, secondo la quale quindi il dovere di collaborazione non può trasformarsi in diretto coinvolgimento11, ha trovato accoglimento anche da parte della Corte di Cassazione12.

Quindi dall'analisi della normativa precedente al d.lgs. n° 626/94 il lavoratore appariva come una figura in qualche modo secondaria: il quadro normativo sembrava configurare il lavoratore quasi come un "attore non protagonista" della sicurezza sul lavoro a cui si chiedeva prevalentemente di eseguire solo ciò che altri, il datore di lavoro ed i suoi collaboratori, avevano disposto. Tale immagine é stata dalla giurisprudenza, da un lato, riaffermata attraverso un'opera interpretativa che ha individuato a carico del datore di lavoro una serie di obblighi strumentali quali quello di vigilanza sull'operato del lavoratore e, dall'altro, corretta dando rilievo, al fine di individuare le rispettive responsabilità, al comportamento negligente ed imprudente di quest'ultimo

Una svolta si ha, come già preannunciato, con l'emanazione del d.lgs. n° 626: nel nuovo decreto il lavoratore non é più un semplice destinatario delle varie norme di sicurezza, ma é chiamato in prima persona ad applicarle, insieme ai tradizionali soggetti attivi dell'obbligazione di sicurezza, quali il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti. La distinzione tra chi controlla e chi é controllato tende dunque ad attenuarsi, dal momento che ogni lavoratore, in virtù delle sue conoscenze specialistiche sempre più elevate, deve contribuire al raggiungimento dell'obiettivo della sicurezza del luogo di lavoro. L'art. 5 prevede infatti un dovere generale del lavoratore in ordine alla cura della sicurezza e della salute proprie ed altrui, oltre ad alcuni obblighi particolari, molti dei quali sono una ripetizione di quelli dettati dall'art. 6 del d.p.r. n° 547/55 e dall'art. 5 d.p.r. n° 303/56, che devono quindi ritenersi tacitamente abrogati dalla nuova normativa per effetto dell'art. 9813.

Dobbiamo quindi appuntare la nostra attenzione innanzitutto sul primo comma di questo articolo in cui si dice che "ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella di altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni od omissioni". Per comprendere la reale portata di quest'obbligo esso deve essere analizzato in stretta connessione con la previsione contenuta nel 2° comma lett. h: quest'ultima si presenta come una norma di chiusura diretta a sanzionare ogni comportamento del lavoratore che, a conoscenza di eventuali irregolarità, non si attivi al fine di ripristinare la situazione a tutela della sicurezza e salute dei lavoratori. In base ad essa i lavoratori sono tenuti a "contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti, ai preposti, all'adempimento di tutti gli obblighi imposti dall'autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro". Dal combinato disposto di queste due norme si può notare come il legislatore, al fine di coinvolgere nell'organizzazione della sicurezza del lavoro tutti i soggetti che operano nell'azienda, ha previsto obblighi a carico anche dei lavoratori. Il creditore é dunque da una parte debitore, in quanto la messa in opera delle misure di sicurezza soddisfa, anche in forza del suo contributo, non solo un interesse proprio, ma anche quello di coloro che a vario titolo si trovano in azienda nonché un interesse di ordine generale: l'art. 32 Cost. impone infatti di tutelare la salute quale "fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività"14.

La prescrizione del 1° comma , sprovvista di sanzione penale, é di contenuto assai generico e richiama come necessaria, nell'esecuzione dell'attività lavorativa, la diligenza richiesta al lavoratore dalla natura della prestazione dovuta e l'osservanza delle disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai suoi collaboratori dai quali gerarchicamente dipende, così come prescritto dall'art. 2104 c.c.. Viene posto a carico del lavoratore un dovere avente ad oggetto un'attività positiva di autotutela e di tutela dei terzi, di cui vengono fissati i limiti: l'impegno del lavoratore é infatti conforme alla sua formazione15, alle istruzioni16 ed ai mezzi forniti dal datore di lavoro. Questi tre criteri concorrono a far sì che il dovere di cura che incombe sul prestatore di lavoro risulti contenuto entro i limiti della normalità17.

Rispetto all'art. 13 comma 1 della direttiva n° 391/89 l'unica differenza lessicale risiede nella scomparsa dell'avverbio "ragionevolmente", che in essa sembra avere il fine di temperare l'ampiezza dell'obbligo del lavoratore; nell'art. 5 del d.lgs. n° 626 si fa invece riferimento ai "mezzi" forniti dal datore di lavoro: ciò sembra assolvere alla medesima funzione. La portata precettiva delle due norme é sostanzialmente analoga: il lavoratore potrà essere ritenuto responsabile solamente nei limiti delle sue ragionevoli e concrete possibilità18.

Quello che viene generalmente definito come "dovere di cura" della salute e della sicurezza si esplica, oltre che in rapporto a se stessi, anche con riferimento alle altre persone presenti sul luogo di lavoro: infatti dal momento che il lavoratore si obbliga, in virtù del contratto, non a fornire una prestazione atomisticamente considerata, bensì una prestazione coordinata all'interno di un'organizzazione del lavoro predisposta innanzitutto dal capo del impresa, é naturale che la sfera del suo debito si estenda sino a ricomprendere la protezione della salute delle altre persone che operano in quell'organizzazione.

Il legislatore ha utilizzato, per individuare i soggetti beneficiari del dovere di cura che incombe sul lavoratore, una formula, quale é quella di "altre persone presenti sul luogo di lavoro" così generica da poter ricomprendere chiunque si trovi all'interno dell'impresa o chiunque si trovi in ogni altro luogo nell'area della medesima azienda comunque accessibile per il lavoro19. Quindi la norma fa riferimento innanzitutto ai titolari di un rapporto di lavoro20: viene imposto, a carico di ciascuno dei lavoratori dell'impresa, l'obbligo di coordinare e rapportare la propria attività a quella dei propri colleghi. Oltre ad essi la genericità dell'espressione usata consente di comprendere tutti i soggetti che possano subire un pregiudizio che sia causalmente collegato ad una condotta illecita commissiva od omissiva del singolo lavoratore; tuttavia poiché il lavoratore é tenuto a porre in essere uno sforzo corrispondente alla "formazione", alle "istruzioni" e ai "mezzi ricevuti" si deve escludere che un soggetto sia considerato destinatario della tutela per il solo fatto di trovarsi all'interno dei luoghi di lavoro, dovendosi invece avere riguardo ai questi tre parametri per determinare il livello di impegno richiesto al lavoratore: dal momento che l'obbligo del lavoratore può coprire solo quei rischi che appartengono alla tipologia di quelli che egli é stato messo in grado di dominare, beneficiari dell'obbligo di cui all'art. 5 saranno soltanto quelle persone la cui presenza nel luogo di lavoro sia giustificata da un qualche, sia pure occasionale, collegamento con l'impresa e non sia quindi meramente casuale.

6.1 LA NOZIONE DI "LAVORATORE SUBORDINATO"

Occorre ora chiarire a chi si riferisca il legislatore quando parla di lavoratore: il d.lgs. n° 626/94 fornisce una definizione di lavoratore che si presenta da un lato diversa da quella introdotta dai decreti degli anno '50, dall'altra non completamente sovrapponibile a quella di lavoratore subordinato di matrice codicistica. Prima di prendere in considerazione la definizione contenuta nel d.lgs. n° 626 é opportuno quindi tracciare un quadro della situazione ad esso preesistente, che é alquanto frastagliata20bis.

Anteriormente all'entrata in vigore del nuovo decreto legislativo la situazione era caratterizzata da una sfasatura, quanto al campo di riferimento, tra l'art. 2087 c.c. e la legislazione degli anni '50: mentre il primo, in virtù della sua collocazione , deve intendersi riferito al solo lavoratore subordinato così come definito dall'art. 2094 c.c., la seconda accoglie una nozione di lavoratore sicuramente più ampia, dato che fa riferimento ai lavoratori che "fuori dal proprio domicilio prestano il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione altrui, con o senza retribuzione, anche al solo scopo di apprendere un mestiere, un'arte o una professione"21; la normativa antinfortunistica viene poi ritenuta applicabile ad una serie di soggetti che vengono equiparati alla figura del lavoratore ex art. 322 23.

Il concetto di lavoro subordinato ai fini dell'applicazione delle norme antinfortunistiche é più ampio di quello configurato dagli articoli 2094 ss. c.c.: mentre infatti il rapporto di lavoro, così come configurato dal codice civile, é caratterizzato non soltanto dall'elemento della collaborazione nell'impresa altrui e della continuità delle prestazioni, ma anche e soprattutto dai caratteri dell'onerosità delle prestazioni e della subordinazione, quello configurato dal d.p.r. n° 547/55 e dal d.lgs. n° 626/94 prescinde dall'elemento dell'onerosità e da quello della continuità e dà risalto unicamente agli elementi della collaborazione e della subordinazione24.

Dunque l'art. 2087 c.c. fa riferimento a tutti i lavoratori subordinati, come definiti dall'art. 2094 c.c., compresi quindi quelli a domicilio e lavoratori domestici, escludendo però i lavoratori autonomi e le prestazioni di mero favore25; la legislazione degli anni '50 si applica invece a tutti i lavoratori subordinati, compresi coloro che prestano la loro attività in via non onerosa26, si applica parzialmente ai lavoratori autonomi con esclusione di alcuni settori, in quanto diversamente regolati e con completa esclusione dei lavoratori a domicilio: si tratta quindi di una situazione piuttosto frastagliata.

E' necessario quindi capire quando si é in presenza di subordinazione: occorre cioè individuare quali sono i criteri di accertamento della natura subordinata od autonoma del rapporto di lavoro; su questo punto la giurisprudenza fino a qualche tempo fa non ha espresso un orientamento univoco. Ora la Suprema Corte di Cassazione sembra essere dell'avviso che il principio secondo cui, ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato é necessario aver riguardo all'effettivo contenuto del rapporto stesso, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalle parti, non implica che la loro dichiarazione di volontà in ordine alla fissazione di tale contenuto debba essere stralciata nell'interpretazione del contratto e che non debba tenersi conto del relativo affidamento delle parti: tale dichiarazione costituisce, al contrario, un elemento di carattere fondamentale e prioritario, salva la necessità di verificare alla stregua delle effettive modalità di svolgimento del rapporto l'esattezza della qualificazione operata dalle parti27. Si afferma inoltre che per qualificare un rapporto non si può prescindere dalla preventiva ricerca delle volontà delle parti: quando i contraenti nel regolare i reciproci interessi abbiano dichiarato di voler escludere l'elemento della subordinazione, non si può pervenire ad una diversa qualificazione del rapporto, soprattutto nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili con l'uno e l'altro tipo, se non si dimostra che in concreto tale elemento si sia di fatto realizzato28.

In recenti sentenze si precisa poi che la pur preliminare indagine sull'effettiva volontà negoziale diretta ad accertare, anche attraverso il nomen iuris attribuito al rapporto, se le parti abbiano inteso conferire alla prestazione il carattere della subordinazione non può essere disgiunta da una verifica dei relativi risultati con riferimento alle caratteristiche e modalità concretamente assunte dalla prestazione stessa nel corso del suo svolgimento: deve quindi riconoscersi l'acquisizione di tale carattere quando lo svolgimento del rapporto non é coerente con la sua originaria denominazione29.

Viene, dunque, affermata la prevalenza del concreto atteggiarsi del rapporto sulla qualifica astratta attribuita a quest'ultimo dalle parti: ciò presuppone, però, un accertamento approfondito delle modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative, al fine di verificare se dette modalità fossero idonee a dimostrare che in realtà il rapporto nella sua esecuzione si fosse sviluppato in modo diverso da quanto facevano supporre elementi formali, quali le trattative precontrattuali e la qualificazione negoziale del rapporto: dovrà quindi prestarsi particolare attenzione all'esistenza o meno di elementi rivelatori quali l'ingerenza del capo dell'impresa nelle modalità di esecuzione del lavoro e la fornitura al lavoratore del materiale e dell'attrezzatura necessaria30.

Viene inoltre, in alcune sentenze, attribuita rilevanza alla riserva di analoga attività per altre imprese manifestata dal lavoratore nel corso delle trattative precedenti l'assunzione e la sua iscrizione alla cassa di previdenza come libero professionista31.

Questa vasta ed articolata produzione giurisprudenziale, pur essendosi sviluppata in riferimento ai decreti degli anni '50 e all'art. 2094 c.c. mantiene la sua rilevanza anche oggi, dopo l'emanazione della nuova normativa. Infatti pur avendo il d.lgs. n° 626 definito la figura del lavoratore non viene meno la necessità di richiamarsi all'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sviluppatasi nel corso dei decenni passati: infatti l'art. 2 lett. a, qualificandolo come "la persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro ... con un rapporto di lavoro subordinato anche speciale, utilizza una formulazione brachilogica di subordinazione che non si differenzia nella sostanza rispetto a quella fatta propria dall'art. 2094 c.c.: rispetto all'espressione contenuta nell'art. 2 permangono quindi tutti gli equivoci e i lati oscuri che la dottrina aveva posto in evidenza e a cui la giurisprudenza aveva cercato di porre rimedio. Dunque in mancanza di una definizione di tale tipo di rapporto, anche per verificare la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato di cui all'art. 2, al fine di applicare la nuova normativa antinfortunistica é necessario accertare la presenza dei vari requisiti richiesti dall'art. 2094 c.c., tra cui l'elemento dell'onerosità del rapporto32. L'altro requisito risiede nella soggezione del lavoratore alle disposizioni del capo dell'impresa e si traduce nella eterodeterminazione del contenuto e delle modalità dell'attività esercitata.

La distinzione tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo é fondamentale al fine di applicare in modo corretto la normativa prevenzionistica delineata dal d.lgs. n° 626/94, dal momento che essa tutela i lavoratori autonomi solo in via marginale e solo nel caso in cui vengano loro affidati lavori da eseguire all'interno dell'azienda33: in caso di infortunio sul lavoro la giurisprudenza al fine di stabilire la responsabilità per la mancata prevenzione identifica il criterio distintivo tra contratto d'opera e contratto di lavoro subordinato nel fatto che nel primo si ha una promessa del risultato da parte del lavoratore autonomo, mentre nel secondo si ha una prestazione di attività lavorativa senza riferimento al risultato, quindi un'obbligazione di mezzi34.

La ricomprensione inoltre nell'ambito della nozione di lavoratore dei dipendenti che siano parte di "un rapporto di lavoro subordinato anche speciale" costituisce un'opzione legislativa dalla dubbia rilevanza pratica: questa scelta infatti ha suscitato le perplessità di gran parte della dottrina che ha avanzato delle riserve sull'utilità di una tale specificazione e sulla stessa portata precettiva35, dal momento che, da una parte, già in passato venivano considerati destinatari della tutela prevenzionale anche i dipendenti legati da un rapporto normalmente ritenuto speciale, come gli apprendisti o i giovani assunti con contratto di formazione e lavoro, dall'altro vengono dallo stesso art. 2 esclusi, in parte o totalmente, dall'applicazione del decreto alcuni rapporti comunemente considerati speciali, quali il lavoro a domicilio, il lavoro domestico, il portierato, alcuni tipi di impiego nella pubblica amministrazione36.

 

 

 6.2 OBBLIGHI E RESPONSABILITA' DEL PRESTATORE DI LAVORO

Una responsabilità penale del lavoratore per la violazione di misure di prevenzione era già prevista nei d.p.r. n° 547/55 e n° 303/56; nella nuova normativa derivante dall'emanazione del d.lgs. n° 626/94, la sfera di responsabilità del prestatore di lavoro é stata ampliata: le pene inoltre sono state inasprite36 bis.

L'art. 5 comma 2 elenca gli obblighi generali che gravano sul lavoratore: essi sono muniti si sanzione penale ex art. 93; quest'ultimo articolo é stato modificato dal d.lgs. 19 dicembre 1994 n° 758: é stata introdotta anche per i lavoratori la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda. L'obbligo di cui al comma 1, invece, che abbiamo già analizzato in precedenza, ha un contenuto generico e la sua violazione non é sanzionata penalmente: per dare una maggiore concretezza a tale obbligo sono percorribili due strade. Una prima consiste nel prevedere, nell'ambito del codice disciplinare aziendale, concrete ipotesi di infrazione, che specificano l'obbligo di al comma 2 del decreto: ad esse viene poi collegato l'apparato sanzionatorio disciplinare; una seconda strada é percorribile in quei casi in cui il comportamento del lavoratore, per la sua particolare gravità, integra la nozione di "giusta causa" é costituita dal licenziamento: in tal caso, secondo l'orientamento costante della giurisprudenza, non é necessaria la previsione dell'infrazione nel codice disciplinare, poiché il divieto in quanto previsto dalla legge é già presente nella coscienza sociale37.

Il comma 2 in parte riprende, seppur con alcune modifiche, l'art. 6 del d.p.r. n° 547/55, in parte introduce nuovi obblighi38: i lavoratori devono osservare "le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale"39, utilizzare "correttamente i macchinari, le apparecchiature, gli utensili, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e le altre attrezzature di lavoro nonché i dispositivi di sicurezza"40, utilizzare "in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione"41. Essi inoltre non devono rimuovere o modificare "senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo" e non devono compiere "di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori".

E' ora espressamente previsto, alla lett. g, l'obbligo di sottoporsi ai controlli sanitari previsti nei loro confronti: l'obbligo in esame aveva già assunto, ad opera della giurisprudenza della Cassazione una sua rilevanza giuridica ed il rifiuto, da parte del lavoratore, di sottoporvisi era stato ritenuto illegittimo in quanto contrastante con le misure disposte dal datore di lavoro e quindi sanzionabile penalmente42.

Oltre a questi obblighi generali, sui lavoratori incombono anche particolari obblighi, sanzionati penalmente, previsti da altre norme del d.lgs. n° 626 in relazione a specifiche situazioni43.

Dunque le eventuali violazioni da parte del lavoratore agli obblighi elencati nel d.lgs. n° 626 comportano l'applicazione nei suoi confronti delle previste sanzioni penali; il lavoratore inoltre potrà essere ritenuto penalmente responsabile in relazione ad un infortunio occorso ad un collega di lavoro: può infatti accadere che la violazione, ad esempio, dell'art. 5 comma 2°, oltre a costituire un'autonoma fattispecie contravvenzionale, assurga a criterio di individuazione della colpa ex art. 43 c.p. ai fini di un coinvolgimento del lavoratore nei delitti di omicidio o di lesioni personali. Tuttavia la giurisprudenza ha ritenuto esente da colpa in caso d'infortunio il prestatore di lavoro per le disattenzioni rientranti nel normale rischio indotto dall'attività praticata e normalmente prive di effetti pregiudizievoli se prevenute mediante le prescritte misure antinfortunistiche44. Lo stesso favor rei é presente nell'orientamento che ritiene non responsabile di un infortunio il lavoratore che abbia violato una norma antinfortunistica in presenza di un costante prassi risalente nel tempo e tollerata dal datore di lavoro45.

Occorre ora però chiarire il problema dell'eventuale erosione dell'area della responsabilità penale e civile del datore di lavoro: il comportamento del lavoratore va infatti analizzato in rapporto a quello degli altri soggetti obbligati alla sicurezza, al fine di accertare il nesso di causalità tra azione od omissione ed evento. Nel precedente paragrafo si é visto come il lavoratore abbia dei doveri di collaborazione nella prevenzione del rischio, ma l'obbligo primario ed inderogabile grava comunque al datore di lavoro, che é tenuto a garantire la sicurezza dell'ambiente di lavoro. Inoltre sul datore di lavoro grava un dovere di vigilanza sulla corretta applicazione delle disposizioni di sicurezza: nel d.p.r. n° 547/55 ciò era espressamente previsto nell'art. 4 lett. c; ora l'obbligo in questione può essere ricavato dall'art. 4 lett. f che impone al datore di lavoro di richiedere "l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione"46. Egli é dunque tenuto a supplire anche alle eventuali iniziative disattente del lavoratore, così da tutelarlo anche contro gli incidenti che, pur dipendenti da sua imprudenza o negligenza, rientrano nel novero dei rischi da lavoro che quella determinata attività determina: un esempio può essere costituito dall'infortunio provocato dall'affaticamento o dalla ripetitività dell'operazione, che comporta l'abitudine alla stessa e dunque può indurre ad abbassare l'attenzione e sottovalutare il pericolo47. In occasioni di questo tipo, pur concorrendo la colpa del lavoratore con quella del datore di lavoro, non può essere attribuito alcuna rilevanza alla prima, poiché essa non assurge al ruolo di concausa: essa rimane assorbita come occasione o modalità dell'iter produttivo dell'evento, il cui verificarsi sarebbe stato impedito dall'adozione delle cautele prescritte dalla legge a carico del datore di lavoro48. In sostanza l'osservanza del precetto di cui all'art. 4 ha valore assorbente rispetto al comportamento del lavoratore, la cui condotta può assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che i soggetti destinatari della norma abbiano realizzato gli adempimenti prescritti. Unico responsabile, in questo caso, sarà il datore di lavoro: ciò é in sintonia con la ratio della normativa antinfortunistica, che mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non soltanto dai rischi derivanti da fatalità, ma anche quelli che possono scaturire dalla sua stessa negligenza, disattenzione ed avventatezza, purché normalmente connesse con l'attività lavorativa49. Al di là di questa ipotesi limite la condotta colposa del lavoratore può essere valutata come possibile causa concorrente nella realizzazione dell'infortunio: la giurisprudenza ha, in più occasioni, ravvisato il concorso di colpa del lavoratore quando con un minimo di diligenza avrebbe potuto ovviare alla mancanza della misura di sicurezza, dal momento che anch'egli é tenuto a contribuire, nei limiti del possibile, ad evitare il verificarsi di incidenti: il lavoratore deve dunque prestare la prudenza necessaria per ovviare al palese pericolo provocato dalla mancata adozione o dal difettoso funzionamento della misura di sicurezza50.

Il problema dell'incidenza della condotta del lavoratore viene dunque risolta sulla base dell'esistenza o meno di rapporto di causalità, così come regolato dall'art. 41 c.p.: viene accolta la teoria dell'equivalenza delle cause, in base alla quale le cause concorrenti, che non siano da sole sufficienti a determinare l'evento, sono tutte causa dell'evento stesso; sussiste dunque il nesso di causalità anche se la condotta, di per sé inidonea, produce l'evento solo per il concorso di colpa altrui, poiché il nesso eziologico può essere interrotto solo da una causa sopravvenuta eccezionale, del tutto indipendente dal fatto dell'agente, imprevedibile ed atipica, che non rappresenti quindi uno sviluppo evolutivo della causa precedente. La causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento viene, dunque, identificata in un fatto del tutto avulso dalla condotta del soggetto, non prevedibile, capace, per esclusiva forza propria, di produrre l'evento anche senza la presenza della situazione costituita dalla serie causale già posta in essere dalla condotta antecedente51. Si può dunque escludere la responsabilità del datore di lavoro, nonostante un suo comportamento omissivo antidoveroso, quando il fatto del lavoratore si concretizzi in una condotta del tutto abnorme, anomala, atipica, esorbitante dalla mansione a cui é addetto, incompatibile con i sistema di lavorazione, quindi inopinabile ed imprevedibile: non riveste, però, queste caratteristiche, per giurisprudenza costante, il comportamento meramente imprudente o disaccorto, collegato alla scarsa esperienza, al temperamento non sufficientemente riflessivo, all'affaticamento o alla ripetitività di determinate operazione52.

La casistica giurisprudenziale é molto ampia: il comportamento abnorme del lavoratore, per assumere il carattere di fatto interruttivo del nesso di causalità, deve essere in grado per esclusiva forza propria di produrre l'infortunio53. In tema di infortuni sul lavoro, quando risulti accertato l'errore grave del dipendente a cui abbia fatto seguito un comportamento anormale che nessuna misura antinfortunistica avrebbe potuto scongiurare, il datore di lavoro non potrà essere considerato punibile, per inesigibilità di una condotta obiettivamente non prevedibile54.

Comportamento abnorme è quello del lavoratore che agisca di propria iniziativa, senza necessità, all'insaputa del datore di lavoro, ponendo in essere un'attività del tutto estranea alle modalità tipiche di svolgimento dei compiti che gli sono stati affidati55, o quello consistente nel rimuovere volontariamente l'efficacia dei dispositivi di sicurezza56, o quello doloso o di tanto evidente quanto macroscopica imprudenza57.

In alcune pronunce della Corte di Cassazione si usa l'espressione "rischio elettivo" per indicare alcune delle situazioni in precedenza esaminate: in particolare esso viene definito come il rischio generato da un'attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso58. Dal momento che si tratta di una nozione appartenente al diritto previdenziale occorre chiarire se deve essere intesa, nella stessa accezione, anche nel diritto penale. Ai sensi dell'art. 2 t.u. n° 1124/1965 l'espressione rischio elettivo riguarda le ipotesi nelle quali viene meno "l'occasione di lavoro" e dunque l'evento non é indennizzabile, al pari dei quello determinato dal dolo autolesionistico del lavoratore, da parte dell'Istituto assicuratore: l'infortunio dipende infatti da un atto volontario che non ha nessuna connessione con l'attività lavorativa, essendo dettato da impulsi e motivazioni personali; il rischio che viene creato in questo caso, pur esplicandosi sul luogo e durante l'orario di lavoro, non può riportarsi a quello creato dall'attività lavorativa59.

In ambito previdenziale la nozione di rischio elettivo ha un contenuto più ristretto di quella utilizzata in diritto penale, in particolare in materia antinfortunistica60: la giurisprudenza penale vi ricomprende infatti anche i fatti esorbitanti dai normali processi di lavorazione che, pur non interrompendo il nesso causale tra lavoro e danno, spezzano il diverso nesso tra comportamento del datore di lavoro e danno61. Diversa é infatti la finalità che viene perseguita nei due casi: nel primo si tratta di identificare in quali situazioni é necessario che intervenga la particolare tutela previdenziale che viene assicurata a chi subisce una lesione proprio in quanto lavoratore, nel secondo caso deve essere risolto il diverso problema consistente nel determinare se il comportamento del datore di lavoro sia causalmente collegato all'infortunio che ha colpito il lavoratore. E' questa seconda accezione dell'espressione "rischio elettivo" che deve essere tenuta presente per interpretare in modo corretto le sentenze che a tale nozione si richiamano62.

Un punto controverso riguarda un'altra serie di fatti interruttivi del nesso causale tra condotta commissiva ed omissiva del datore di lavoro e l'infortunio occorso al lavoratore: in varie occasioni la Corte di Cassazione ha accostato, quale causa di esclusione della responsabilità del datore, alla condotta anomala del lavoratore l'inosservanza da parte di quest'ultimo di precise disposizioni antinfortunistiche, particolari ordini o prescrizioni ricevute63. In altre pronunce la Suprema Corte ha posto l'accento sull'"aperto dispregio" di precise direttive o norme antinfortunistiche o sul "comportamento coscientemente e volontariamente inosservante" delle stesse, per dedurne la esclusione di responsabilità dell'imprenditore64. Dunque, secondo questa impostazione, egli non é penalmente responsabile in quanto la trasgressione agli ordini impartiti e la conseguente difforme esecuzione della prestazione lavorativa rispetto alle direttive impartite hanno reso inefficace la vigilanza da lui predisposta.

Questa impostazione é stata criticata da una parte della dottrina65, la quale ha sottolineato come essa si ponga in contrasto con altre affermazioni espresse in varie sentenze in tema di obbligo di vigilanza del datore di lavoro: é infatti orientamento costante in giurisprudenza che l'attività imprudente e negligente della parte lesa non può considerarsi causa sopravvenuta, sufficiente da sola a determinare l'evento66 e che inoltre la volontaria inosservanza da parte del lavoratore delle disposizioni impartite dal datore di lavoro non elimina la responsabilità di quest'ultimo, dovendo egli o un suo collaboratore vigilare affinché le misure siano effettivamente osservate67. Parte della dottrina, dunque, ritiene che permanga l'efficacia causale dell'omissione del datore di lavoro, quando la mancata vigilanza abbia determinato le condizioni di produzione dell'evento dannoso, anche se l'ultimo atto della serie causale sia riconducibile alla colpa del lavoratore leso68. L’inosservanza di ordini ricevuti non deve, dunque, di per sé ritenersi causa di esonero di responsabilità, ma potrà esserlo se ed in quanto l’aver impartito l’ordine inadempiuto possa considerarsi sufficiente adempimento del dovere di sicurezza.

Occorre ora chiarire un aspetto particolarmente importante: quale contenuto ha il dovere di diligenza che grava sul datore di lavoro? Parte della dottrina, per dare maggiore concretezza alle affermazioni che si ritrovano spesso in varie sentenze, in ordine agli effetti che eventuali condotte anomale del lavoratore possono produrre sull'iter causale dell'evento-infortunio sul lavoro da quest'ultimo subito, si richiama al principio dell'affidamento69 e ritiene che il problema del concorso colposo del lavoratore nell'infortunio sul lavoro possa trovare soluzione all'interno della dottrina della colpa, piuttosto che nell'ambito della delimitazione del nesso causale penalmente rilevante70 Il problema quindi deve essere affrontato sotto i profili riguardanti la prevedibililà, prevenibilità e la realizzazione del rischio nell'evento.

E' però necessario tener presente che un limite all'operatività del principio di affidamento viene identificato in dottrina nello specifico obbligo, gravante sul soggetto-datore di lavoro per la sua particolare posizione nella gerarchia aziedale, di prevenire l'altrui azione scorretta o limitarne comunque gli effetti pregiudizievoli per lo stesso e gli altri soggetti con vengano in contatto con il lavoratore.

Occorre quindi contemperare queste due affermazioni che prima facie sembrano inconciliabili: sul punto é intervenuto la Corte di Cassazione, che ha fatto espressamente riferimento al principio in esame per circoscrivere l'obbligo di sorveglianza e controllo sull'esatta osservanza da parte dei lavoratori delle misure antinfortunistiche predisposte, gravante sui garanti per la sicurezza, datore di lavoro, dirigente e preposti71. La Suprema Corte afferma infatti che "non può pretendersi che l'imprenditore, i dirigenti e i preposti, nell'organizzazione del lavoro, si spingano oltre certi ragionevoli limiti dettati dalla natura e dalla qualità del lavoro da eseguire. La ragionevolezza dei limiti significa che i responsabili destinino anzitutto all'esecuzione del lavoro, tenuto conto della sua particolarità e delicatezza, persone che siano, senza riserve, all'altezza dello stesso; ribadiscano, in secondo luogo, nonostante la consolidata esperienza degli addetti, le dovute istruzioni sul perfetto modo di eseguirlo e, soprattutto, nel caso che i disagi ... possano compromettere la felice realizzazione del lavoro, ne prevedano l'esecuzione da un numero di addetti qualificati tale da consentire di superare agevolmente quei disagi. Una volta che i responsabili dell'organizzazione abbiano Cass.pen. 9 febbraio 1993 cit. predisposto nel migliore dei modi le operazioni da compiere per l'esecuzione del lavoro, hanno motivo per contare sull'esatto adempimento dell'obbligazione di lavoro da parte dei lavoratori e per attendersi da costoro l'uso della normale diligenza nell'eseguire l'operazione"72.

Dunque la Suprema Corte, pur concordando con quell'orientamento dottrinale che ritiene che il principio di affidamento non possa implicare come conseguenza che si possa agire imprudentemente affidandosi alla diligenza altrui73 e che quindi il datore di lavoro ed il dirigente debbano assolvere con diligenza agli obblighi che la legge fa gravare su di loro, osserva che per togliere operatività al principio di affidamento in ragione di un obbligo di controllo e sorveglianza dell'operato altrui non basta la posizione di superiorità gerarchica, ma occorrono "ragioni obiettive e soggettive che facciano dubitare del fatto che il terzo possa tenere un comportamento conforme a diligenza"74. Si sottolinea inoltre, e ciò é utile per fugare qualsiasi dubbio in ordine alla pretesa contraddizione in cui sarebbe caduta la Corte, che ciò su cui si ammette possa farsi affidamento non é il rispetto da parte dei lavoratori della norma, ossia l'art. 5 d.lgs. n° 626, che impone loro di conformarsi alle prescrizioni in tema di salute e sicurezza dettatte dai vertici aziendali, ma di quelle ulteriori disposizioni e ordini che, dettati in adempimento del citato obbligo di controllo, hanno come scopo quello di far rispettare ai lavoratori la normativ antinfortunistica 75.

Quindi se, da un lato, una parte della dottrina ritiene che non si possa arrivare ad una sostanziale vanificazione del principio di affidamento che persegue lo scopo di conciliare il principio della responsabilità personale, di cui all'art. 27 Cost., con la specializzazione e la divisione dei compiti76, dall'altro é affermazione altrettanto frequente che il principio in esame debba cedere il posto all'obbligo di prevedere l'altrui inosservanza, non solo quando ad esempio il datore rivesta una posizione di garanzia nei confronti di un altro soggetto, quale il lavoratore, ma anche quando ricopra tale posizione nei confronti di una fonte di pericolo.

Per risolvere questa apparente antinomia occorre chiarire che cosa doveva rappresentarsi l'agente, nel nostro caso il datore di lavoro, per far fronte al suo dovere di evitare l'evento-infortunio sul lavoro, nel caso in cui le circostanze del caso concreto facciano ritenere che il lavoratore, la cui condotta interferisce con quella del management, non si comporterà secondo lo standards di diligenza richiesto77; é proprio a questo punto che entra in gioco il principio di affidamento, delimitante in base al parametro dell'agente modello il concetto di prevedibilità di eventuali condotte anomale del lavoratore e di conseguenza il novero degli eventi che la normativa antinfortunistica tende ad evitare: costituisce uno strumento concettuale per riempire di significato, in relazione ai vari casi concreti, l'affermazione in base alla quale non tutti gli eventi prevedibili possono essere posti a carico di un determinato soggetto, né gli può essere addebitato di non averli evitati, anche nel caso in cui vi fosse stata una possibilità di impedirli, allorché si accerti che tale soggetto, ad esempio il datore di lavoro, ha valutato la situazione in cui ha agito in modo adeguato a quello esigibile: non possono essere infatti addebitati, a titolo di colpa, al soggetto gli eventi eccezzionali, che esulano dalla normalità, anche se non sono propriamente qualificabili come fortuiti 78.

In base al principio in esame possono essere considerati imprevedibili e non rappresentabili determinati comportamenti, limitando così il contenuto delle regole cautelari che pur hanno ad oggetto la tutela di determinati soggetti, anche dalle conseguenze di loro atteggiamenti imprudenti: in concreto il principio di affidamento, in materia di salute e sicurezza del lavoro consiste nel confidare da parte del datore di lavoro o del dirigente nel fatto che gli altri destinatari della normativa antinfortunistica, tra i quali anche i lavoratori, si conformino alle prescrizioni che la legge rivolge loro, svolgendo il ruolo assegnato loro nel quadro complessivo delle gestione della sicurezza in azienda. Ciò si traduce nell'esonero da qualsiasi obbligo di controllo in ordine alla conformità o meno delle prestazioni di questi ultimi agli standards di diligenza, ai quali devono conformarsi tutti i soggetti che operano in un determinato luogo di lavoro79.

Affinché il datore di lavoro possa però fare legittimamente affidamento sul fatto che gli standards di sicurezza vengano rispettati dai lavoratori é necessario che quest'ultimi siano in grado di conformarsi ad essi: a questo punto risulta palese la differenza che sussiste tra il limite che contraddistingue il principio di affidamento nel d.lgs. n° 626/94 rispetto a quello presente nel d.p.r. n° 547/55: infatti diverso é il ruolo che, come abbiamo visto in precedenza, il lavoratore ricopre nella nuova normativa rispetto a quello che i decreti degli anni '50 gli assegnavano. Il passaggio da un sistema di prevenzione oggettiva ad un sistema di prevenzione soggettiva o partecipato, in cui rivestono grande importanza i diritti di informazione e formazione in materia di sicurezza, determina un mutamento nel quantum di diligenza su cui é legittimo fare affidamento in presenza di un lavoratore adeguatamente informato e formato: ad esempio l'obbligo di "richiedere l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione, di cui all'art. 4 comma 5 lett. f d.lgs. n° 626 può considerarsi adempiuto ribadendogli preventivamente le istruzioni concernenti le prescrizioni da seguire nell'espletamento della prestazione lavorativa alla quale é chiamato80.

Si impone un'ulteriore precisazione: anche in materia antinfortunistica il principio di legittimo affidamento non ha valore assoluto; i garanti per le sicurezza potranno richiamarsi al suddetto principio quale esimente delle loro responsabilità a condizione che non emergano indizi tali da far dubitare, ad esempio, che la formazione in rapporto alle mansioni ricoperte dal lavoratore sia ancora da completare o tali da rivelare che, malgrado il completamento del periodo di formazione, il lavoratore dia segni riconoscibili di non essere ancora in grado di uniformarsi alle misure di sicurezza81.

Comunque, al di là del contrasto di posizioni riscontrato in dottrina su alcuni aspetti che riguardano la responsabilità del lavoratore, si può, in conclusione, affermare, analizzando l'ampio repertorio giurisprudenziale in materia, che la responsabilità penale esclusiva del lavoratore risulta essere ipotesi eccezionale, mentre più spesso ricorrono casi di corresponsabilità di quest'ultimo e del datore di lavoro. L'attuale orientamento giurisprudenziale sviluppatosi sulla base dei d.p.r. n° 547/55 e n° 303/56, che afferma la responsabilità, anche cumulativa, del datore di lavoro, del dirigente e del preposto, non sembra aver tenuto in adeguata considerazione il fatto che il legislatore ha dettato dei precisi obblighi a carico del lavoratore, riconducibili ad un generale dovere di diligenza che deve contraddistinguere anche il suo comportamento. In futuro é possibile che la giurisprudenza confermi il proprio consolidato orientamento, svalutando l'innovazione costituita dal d.lgs. n° 626, che ha ampliato la serie degli obblighi gravanti sul lavoratore ed attribuito a questo un ruolo attivo nel sistema di sicurezza in azienda, richiamandosi magari al disposto dell'art. 5 comma 3 della direttiva Ce(e) n° 391/89, secondo il quale "gli obblighi dei lavoratori nel settore della sicurezza e della salute durante il lavoro non intaccano il principio della responsabilità del datore di lavoro". La dottrina é divisa sull'opportunità che la giurisprudenza compia una inversione di tendenza: alcuni autori manifestano forti perplessità verso forme di eccessiva responsabilizzazione dei lavoratori, i quali pur essendo anch'essi obbligati all'adempimento dell'obbligazione di sicurezza, rimangono i principali beneficiari della disciplina antinfortunistica82, altri ritengono che, almeno sul piano del concorso di colpa, la novità costituita dal nuovo art. 5 e dai diritti di informazione e formazione che gli sono riconosciti ex art. 21 e 22 venga valorizzata dalla giurisprudenza più di quanto sia avvenuto in passato83.

7. LE POSIZIONI DI GARANZIA ESTERNE AL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO: PROGETTISTI- FABBRICANTI- VENDITORI- NOLEGGIATORI- CONCEDENTI IN USO- INSTALLATORI E MONTATORI DI IMPIANTI E MACCHINE

Il quadro normativo a cui dobbiamo fare riferimento é anche in questo caso complesso: il d.lgs. n° 626/94 é intervenuto a disciplinare anche la responsabilità di soggetti estranei al rapporto di lavoro, non inclusi quindi nella tradizionale quadripartizione, datore di lavoro, dirigenti, preposti e lavoratori. Questi soggetti vengono generalmente indicati con la dizione di fornitori1: la ratio dell'estensione dell'obbligazione di sicurezza a carico anche di tali soggetti risiede nella necessità di rendere completa ed efficace la tutela dei lavoratori; si vieta infatti di costruire e di mettere in circolazione degli apparecchi che possano essere fonti di pericolo per i lavoratori.

Infatti esigenze di coerenza con il generale disegno di "prevenzione globale", che abbiamo finora analizzato, hanno indotto il legislatore ad anticipare la tutela antinfortunistica, estendendo l'operatività della normativa in materia di igiene e sicurezza del lavoro ed imputando debiti prevenzionistici a carico di soggetti, che pur estranei al rapporto di lavoro, sono ugualmente coinvolti nella realizzazione di un ambiente di lavoro salubre e sicuro2: l'attività di questi soggetti incide infatti sulla misura globale della sicurezza dell'ambiente di lavoro.

Con una disposizione di carattere generale si fa arretrare il limite della tutela prevenzionistica al momento in cui vengono predisposti ed immessi sul mercato gli strumenti di lavoro3. Questa scelta non é del tutto nuova: già il d.p.r. n° 547/55, all'art. 7, inseriva nel novero dei soggetti obbligati i costruttori, i commercianti, i noleggiatori, i concedenti in uso macchine, parti di macchine, attrezzature, utensili ed apparecchi in genere, nonché gli installatori di impianti.

La normativa introdotta negli anni cinquanta presentava però una serie di limiti e difetti: innanzitutto la scelta di estendere il debito di sicurezza anche a figure estranee al rapporto di subordinazione, seppur, in misura diverso e a vario titolo, tutte potenzialmente in grado di rendere conformi ai precetti di legge gli strumenti di lavoro, o comunque tenute ad un controllo sugli stessi, perché coinvolte nel processo della loro immissione sul mercato, risultava accolta dal d.p.r. n° 547/55, ma non dai d.p.r. n° 164/56 e 303/56, con la conseguenza che i ponteggi irregolari e tutta la problematica relativa all'igiene del lavoro non erano interessati da questa innovazione legislativa4.

Il secondo difetto consisteva nel riferimento contenuto nell'art. 7 "alle norme del presente decreto", quale parametro per esprimere un giudizio di conformità o meno alla legge degli impianti, attrezzature e macchinari in genere. Al tal proposito è apprezzabile l'orientamento giurisprudenziale volto a dilatare l'ambito di applicazione della norma, ritenendo sussistente oltre alla singola norma precettiva, che era contenuta nel citato decreto e che prevedeva uno specifico dispositivo di sicurezza, una fonte precettiva più generale, concorrente con la prima, che imponeva di adottare i più avanzati ritrovati tecnologici, anche prima che venissero previsti come obbligatori da una determinata legge5. Questa soluzione é stata in passato aspramente criticata: si sottolineava come quell'impostazione finisse per estendere, per via analogica, l'ambito di applicazione della normativa tramite un non ben precisato rinvio al progresso tecnico, pregiudicando così il principio di tassatività nell'applicazione della legge penale e quindi il principio di legalità, di cui il primo costituisce un aspetto6.

Per molti anni poi ha trovato accoglimento in giurisprudenza la tesi in base alla quale la responsabilità del costruttore, ed in generale dei fornitori, viene meno nel momento in cui i macchinari sono posti a disposizione dell'acquirente-datore di lavoro e questi li ha installati7. Quest'ultimo, secondo questa impostazione, ha non solo l'obbligo di verificarne la conformità alle norme di prevenzione, ma anche quello di applicare, dopo l'acquisto, i prescritti dispositivi di sicurezza, con la conseguenza che soltanto a suo carico può essere posta la responsabilità penale per eventi derivanti dalla violazione di norme antinfortunistiche8.

Se si collega questo orientamento9 alla limitazione del campo di applicazione dell'art. 7, contenuta nel testo della stessa norma, le conseguenze sul piano delle condizioni di sicurezza del lavoro sono estremamente negative: il divieto contenuto nell'art. 7 riguardava infatti solo le macchine destinate al mercato interno10. La conseguenza era addirittura paradossale: la nuova norma non avrebbe trovato applicazione nella fase più importante ai fini prevenzionali, quella, cioé, della costruzione delle macchine, perché un'ispezione che avesse riscontrato la non conformità di alcune di esse alle norme di prevenzione emanate non avrebbe potuto comportare nessun effetto, in quanto il fabbricante avrebbe potuto sottrarsi ad ogni conseguenza sul piano penale, sulla base della semplice affermazione che tali macchine non erano destinate al mercato interno.

Un'ultima lacuna della precedente normativa riguardava il campo di applicazione soggettiva: non prendeva in considerazione la figura del progettista.

A questi difetti la giurisprudenza prima, il d.lgs. n° 626/94, poi hanno posto rimedio: sono caduti innanzitutto due limiti che avevano fortemente condizionato l'applicazione dell'obbligo di cui all'art. 7, dal momento che é stato esteso l'ambito di riferimento a tutta la normativa prevenzionale ed é stato eliminato il richiamo al mercato interno11. La giurisprudenza poi aveva, già prima dell'emanazione del d.lgs. n° 626, affermato che l'utilizzazione di una macchina o di un impianto non conforme alla normativa antinfortunistica da parte dell'imprenditore non faceva venir meno il rapporto di causalità tra l'infortunio e la condotta di chi ha costruito, venduto o ceduto la macchina o realizzato l'impianto. Infatti la messa in funzione della macchina o dell'impianto da parte dell'imprenditore, senza ovviare alla carenza, costituisce una causa sopravvenuta, che non può rientrare tra quelle che, secondo l'art. 41 comma 2 c.p., fanno venir meno il rapporto tra la precedente causa e l'evento12.

I progettisti dei luoghi o posti di lavoro e degli impianti vengono ora inseriti tra i soggetti destinatari dell'obbligazione di sicurezza. A dire il vero, ciò non costituisce una novità assoluta per il nostro ordinamento: già da tempo infatti la giurisprudenza aveva mostrato di voler ricomprendere, seppur in modo apodittico, tra i destinatari della normativa antinfortunistica anche questa figura13; d'altra parte già il d.lgs. n° 277/91 contempla la progettazione di impianti, macchine ed apparecchiature tra le attività che devono essere svolte in conformità all'obbligo di riduzione al minimo dei rischi derivanti dall'esposizione al rumore. A essi viene ora dedicato il 1° comma, che contiene una regola di carattere generale: essi devono rispettare " i principi generali di prevenzione in materia di sicurezza e salute al momento delle scelte progettuali e tecniche e scelgono macchine e dispositivi di protezione rispondenti ai requisiti essenziali di sicurezza previsti nelle disposizioni legislative e regolamentari vigenti".

Discorso analogo deve essere fatto a proposito degli installatori e montatori, presi in considerazione dal 3° comma dell'articolo in esame, ma già contemplati da varie leggi, tra le quali la l. n° 46/90, emanata in attuazione delle direttive comunitarie n° 23/1973, n° 374/1985, n° 392/1989.

Il 2° comma disciplina, in conformità alla normativa previgente, la responsabilità dei fabbricanti, venditori, noleggiatori, concedenti in uso macchine o attrezzature o impianti non in regola con la normativa prevenzionistica; la figura del fabbricante, pur richiamata nella rubrica, non era presente nel testo dell'art. 6, nella sua prima formulazione derivante dal d.lgs. n° 626; al suo reinserimento ha provveduto il d.lgs. n° 242/9614.

Particolarmente complesso é il caso relativo alla posizione dei concedenti in leasing: per comprendere appieno la portata innovativa del d.lgs. n° 242, a cui si deve l'attuale formulazione del 2° comma, bisogna prima analizzare le varie opinioni espresse in dottrina in ordine ai criteri da adottare per la delimitazione nozionale dei c.d. soggetti obbligati esterni all'impresa.

Due sono i criteri utilizzabili per individuare in concreto i soggetti a cui la norma si riferisce: anche in questo caso si ripresenta l'alternativa tra l'utilizzo di un criterio di imputazione giuridico-formale e un criterio di imputazione sostanziale.

In verità si possono individuare due gruppi di soggetti: alcuni vengono individuati alla luce della relazione di fatto intercorrente con la macchina, altri sono connotati da una chiara ascendenza civilistica. Riguardo ai primi, tra i quali possono essere annoverati gli installatori, i montatori ed i costruttori, non nascono grandi problemi: rispetto ad essi non potrà che valere il generale canone interpretativo vigente in materia di igiene e sicurezza del lavoro, cioè il criterio dell'effettività, dal momento che una data quota dell'obbligazione prevenzionale viene a loro imputata proprio a seguito del loro rapporto con la cosa, la macchina ad esempio, e dal questo diretto contatto traggono i propri connotati qualificanti14 bis.

I maggiori problemi nascono in relazione al secondo gruppo di soggetti, tra i quali possiamo ricomprendere i venditori, i noleggiatori, i concedenti in uso: solo rispetto a questi può prospettarsi l'alternativa che abbiamo prima preannunciato; si potrà dare peso decisivo al nomen iuris dell'operazione economica sottesa alla generica messa a disposizione della res oppure si potrà prendere in considerazione l'effettiva consistenza della posizione personale rispetto all'oggetto materiale, a cui l'obbligo legale si riferisce ed attribuire ad essa quindi rilevanza, al fine di individuare in concreto il soggetto destinatario del precetto penale.

La questione non é meramente nominalistica, ma presenta una ben precisa valenza operativa, dal momento che la generalizzata imputazione di obblighi di sicurezza a tutte le figure prese in considerazione dall'art. 7, può risultare incongruente per eccesso e configurare quindi una responsabilità oggettiva, nella misura in cui comprende soggetti talvolta nemmeno potenzialmente dotati delle necessarie prerogative e capacità di controllo, invece considerate dal legislatore come presupposto dell'estensione della responsabilità penale. In sostanza ci si chiede se, per un'affermazione della riconducibilità all'area di applicazione soggettiva, di cui alla norma in esame, sia sufficiente l'essere formalmente parte di un contratto di compravendita, di locazione, di comodato.

La dottrina, in mancanza di prese di posizioni esplicite sul tema da parte del legislatore, ha cercato di trarre da una pronuncia della Corte Costituzionale, la sentenza 16 luglio 1987 n° 27115, spunti e suggerimenti per risolvere il dilemma: la Corte Costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi in ordine alla legittimità costituzionale dell'art. 7 del d.p.r. n° 547/55. Il giudice a quo16 riteneva non legittima la previsione contenuta in questa norma: si lamentava il fatto che essa sembrasse fissare una responsabilità penale a carico di soggetti estranei alla costruzione della macchina, come commercianti e noleggiatori, e quindi sostanzialmente impossibilitati a controllare la sua conformità a norme di prevenzione. La Corte ha affermato che l'aver unificato il ruolo di una serie di diversi soggetti non implica la loro automatica responsabilità congiunta: da ciò la dottrina sembra ricavare un'implicita presa di posizione del Giudice delle leggi a favore dell'adozione di criteri formali di individuazione dei destinatari dell'art. 7, identificandoli con tutti quelli che possono essere ricompresi nell'elencazione; il criterio dell'effettività non ha rilievo quindi in fase di individuazione del soggetto obbligato, ma opera sul diverso piano della colpevolezza, cioè dell'accertamento delle condizioni personali che consentono di accertare la misura in cui la condotta dovuta possa essere concretamente pretesa nel singolo caso e quindi, in ultima analisi, l'atteggiamento del debitore sia riconducibile a colpa, in un momento quindi sul piano logico ed operativo posteriore rispetto all'imputazione dell'obbligo. L'aprioristica equiparazione dei vari soggetti ai fini dell'accertamento delle responsabilità penali individuali é tuttavia esclusa, dal momento che il giudice deve valutare comunque la colpevolezza di ciascuno.

Questa conclusione sembrava essere stata contraddetta dalla novellazione dell'art. 6 comma 2, ad opera dell'art. 4 comma 2 del d.lgs. n° 242/96, in materia di locazione finanziaria17. La posizione del concedente in leasing viene dissociata da quella del concedente in uso "tout court": sul primo vengono imputati obblighi di verifica meramente esteriore e formale in ordine alla conformità alla normativa in vigore dei beni locati, accogliendo così le indicazioni che provenivano dal "diritto vivente" e in sintonia con la posizione legislativa assunta nel 1983, a cui il recente intervento in materia si richiama. Infatti questa opzione legislativa é del tutto coerente con la natura economica del leasing finanziario, nell'ambito del quale, implicando esso in sostanza null'altro che una forma di finanziamento, il concedente rimane di norma completamente all'oscuro delle caratteristiche, delle qualità e della destinazione d'uso della cosa locata. Risulta però in contrasto con il sistema di imputazione dell'obbligo di cui all'art. 6: il legislatore infatti, in occasione della novella, abbandona la linea che sembrerebbe essere sin qui stata seguita e opta per l'assunzione dell'effettività come criterio individuativo delle figure obbligate e non invece della loro colpevolezza.

La dottrina prevalente ritiene che non fosse necessario provvedere in modo espresso al parziale esonero del concedente in leasing: il singolo giudice sarebbe potuto arrivare alla stessa conclusione in seguito ad una verifica, in relazione al singolo caso concreto, volta ad accertare la colpevolezza o meno del concedente.

Il legislatore distinguendo nel comma 2 la concessione in uso dalla locazione finanziaria ha invece compiuto "una tantum" tale operazione, pregiudicando in questo modo la coerenza sistematica dell'intera norma. In ogni caso però l'esonero da una parte cospicua del debito prevenzionistico, gravante invece sulle altre figure contemplate dall'art. 6, riguarda solo il leasing finanziario e non anche il leasing operativo, nel quale il soggetto ricopre sia la posizione di concedente che quella di costruttore della cosa: da ciò deriva la piena responsabilità civile e penale di quest'ultimo soggetto17 bis.

 

 

7.1 LA RESPONSABILITA’ PENALE DEL COSTRUTTORE-VENDITORE DELL’IMPIANTO E DEL DATORE DI LAVORO-ACQUIRENTE

A questo punto, dopo aver individuato i soggetti destinatari dei divieti di cui all'art. 6 del d.lgs. 626, é necessario prendere in considerazione il problema della responsabilità penale del fornitore, in particolare del costruttore-venditore, e del datore di lavoro-acquirente.

Duplice é infatti il fronte su cui il datore di lavoro deve operare allo scopo di realizzare la sicurezza dell'ambiente di lavoro, un fronte interno, sul quale l'imprenditore dovrà agire, ripensando la propria organizzazione in funzione della sicurezza del lavoro, un fronte esterno, sul quale dovrà confrontarsi con i soggetti esterni all'impresa, che possono interferire a vario titolo sulla sicurezza del lavoro, quali appunto i fornitori di prodotti e servizi di cui l'azienda si serve per la propria attività17 bis.

Nell'ambito di questa vasta categoria di soggetti un ruolo primario é indubbiamente rivestito da quanti costruiscono o commercializzano macchine ed attrezzature di lavoro utilizzate dalle imprese. E' necessario quindi cercare di tracciare una linea di demarcazione che separi le responsabilità del datore di lavoro-acquirente ed utilizzatore di macchine da quelle del costruttore delle stesse.

Recenti sentenze della Corte della Cassazione, seguendo un orientamento già espresso in passato dalla dottrina18, sottolineano come le singole posizioni debbano essere valutate autonomamente le une dalle altre19.

L'esclusività della responsabilità ex art. 6 del costruttore di macchine non rispondenti alle norme antinfortunistiche vigenti cessa nel momento in cui le macchine vengono poste a disposizione dell'acquirente-datore di lavoro mediante la loro installazione20. Il divieto di costruire e vendere macchine non conformi alle prescrizioni di sicurezza non esclude infatti la distinta responsabilità del datore di lavoro per l'impiego di dette macchine: quest'ultimo è tenuto a verificare, prima del loro impiego, che esse siano rispondenti alla normativa in materia, oltre a non costituire fonte di pericolo per i lavoratori21.

In linea di principio, in caso di infortunio verificatosi a causa di una macchina priva dei dispositivi di sicurezza, il costruttore-venditore ed il datore di lavoro-acquirente saranno ritenuti responsabili a titolo di concorso colposo nel reato di lesioni od omicidio, in conformità all'orientamento che ritiene che la costruzione o la vendita di una macchina non in regola non costituiscano una serie causale distinta ed indipendente, ma concorrano con l’utilizzo della stessa al fine dell'affermazione della responsabilità penale22. L'utilizzo infatti della macchina da parte dell'imprenditore, senza aver ovviato alle carenze nei dispositivi di sicurezza che questa presenta, costituirebbe una causa sopravvenuta che non rientra però tra quelle che, in base all'art.41 comma 2 del codice penale, fanno venir meno il rapporto tra la precedente causa, l'illecita costruzione, e l'evento dannoso, l'infortunio: in sostanza l'eventuale fatto illecito dell'imprenditore non fa perdere rilevanza al fatto illecito del costruttore.

Per aversi concorso nel reato sarà però necessario che siano presenti in concreto i suoi presupposti, che sono diversi a seconda delle differenti posizioni soggettive: per il costruttore della macchina difettosa i successivi passaggi e le eventuali modificazioni del bene potranno porre un problema di esistenza del nesso causale tra l'infortunio e la colpa originaria; per all'utilizzatore, che è il principale garante della sicurezza dei suoi lavoratori, si tratta di stabilire se i vizi della macchina fossero riconoscibili mediante la diligenza dovuta ed esigibile in sede di controllo o se vi fosse un ragionevole affidamento nella qualità del bene fornito23.

Per quanto riguarda la responsabilità del costruttore é affermazione costante che la vendita di un macchinario ad un imprenditore che lo metta in funzione non esonera il costruttore dalla responsabilità per gli eventi lesivi subiti dai lavoratori tutte le volte in cui tali eventi siano derivati dall'inidoneità dei dispositivi di sicurezza applicati all'atto di costruzione del macchinario. Pertanto i costruttori di macchinari per uso industriale hanno il dovere di mantenere efficienti i vari congegni necessari per l'utilizzazione dei macchinari, al fine di dotarli di margini di sicurezza in relazione all'uso a cui sono destinati24.

La mancata applicazione delle misure di sicurezza da parte del datore di lavoro non é causa sopravvenuta da sola sufficiente alla produzione dell'evento dannoso, perchè l'uso dell'impianto irregolare non costituisce avvenimento anormale ed imprevedibile25. Il costruttore rimane liberato nel caso di incidente ricollegabile non alle eventuali carenze di sicurezza, ma ad altri fattori indipendenti, quali un uso completamente anomalo dello strumento, a meno che non venga dimostrato che l'applicazione sin dall'inizio del dispositivo di sicurezza avrebbe comunque evitato l'infortunio; infatti dovendo gli obbligati garantire la sicurezza del lavoro entro l'area del prevedibile, anche nella progettazione e costruzione delle macchine bisogna tener conto anche dell'imprudenza, della distrazione e degli errori di manovra dell'operatore26.

Una volta accertato il nesso causale il costruttore non potrà addurre come scusante l'eccessivo costo dei dispositivi di sicurezza che devono essere adottati per rendere quel determinato macchinario non pericoloso27. Al di là dell'aspetto economico possono esistere problemi di natura squisitamente tecnica che rendono assai difficile e a volte impossibile "la messa in sicurezza" delle apparecchiature. In questo caso il macchinario in questione non potrà essere messo sul mercato28. I costruttori agiscono illecitamente nel momento in cui costruiscono macchine, a cui non siano applicabili i dispositivi di sicurezza: devono astenersi dal progettare macchinari pericolosi per l'incolumità del lavoratore a prescindere dal fatto che sia possibile sostituirli con altri dotati, invece, dei necessari dispositivi di sicurezza29.

In relazione alla responsabilità del datore di lavoro-acquirente che sia privo dei necessari dispositivi di sicurezza nascono gli stessi problemi relativi all'eccessiva onerosità e all'impossibilità tecnica, che abbiamo analizzato in precedenza a proposito della responsabilità penale del costruttore: essi vengono risolti dalla dottrina30 e dalla giurisprudenza31 in modo analogo. Rispetto alla situazione precedentemente esaminata che vedeva come protagonista la figura del venditore ora si presenta un'ulteriore problematica non facilmente risolvibile: in linea di principio, e quindi in via generale ed astratta, il datore di lavoro, in quanto destinatario principale dei doveri di sicurezza, é tenuto a verificare la corrispondenza alla normativa antinfortunistica degli strumenti che si accinge ad utilizzare nell'attività produttiva e non può quindi invocare "sic et simpliciter" a propria scusa l'affidamento da lui riposto nel fatto che il costruttore-venditore, quale obbligato alla realizzazione di macchine conformi alle prescrizioni, abbia effettivamente adempiuto agli obblighi di legge32.

Questa regola deve però essere correttamente intesa: essa trova un limite nel principio generale della ragionevolezza. La responsabilità per omesso od insufficiente controllo a titolo di colpa del datore di lavoro é dunque subordinata ai normali criteri di esigibilità: il giudice dovrà verificare se il datore di lavoro aveva la concreta possibilità di valutare la difformità dell'apparecchio o dell'impianto ai requisiti legali di sicurezza33.

La giurisprudenza e la dottrina concordano sulla necessità di distinguere, tra i diversi difetti di sicurezza che una macchina può presentare, quelli addebitabili anche al datore di lavoro acquirente, perché evidenti e rilevabili, da quelli occulti, imputabili perciò al solo costruttore. Bisogna dunque, ed é questo il vero problema, identificare con chiarezza quali siano i difetti palesi e quali, invece, quelli che non possono che sfuggire al doveroso controllo, a cui l'acquirente é comunque tenuto34: ciò dipende dal tipo di verifica che il datore é obbligato a compiere. Egli deve far eseguire una perizia tecnica o può limitarsi ad esaminare la documentazione fornitagli dal costruttore? La Corte di Cassazione attribuisce all'obbligo dell'acquirente un contenuto che si colloca in posizione intermedia tra i due estremi appena delineati: afferma, seguendo un orientamento ormai costante, che la colpa del datore di lavoro nell'utilizzazione della macchina difforme dai prescritti livelli di sicurezza dovrà essere valutata tenendo conto della natura della violazione: quando essa interessi aspetti strutturali della macchina non apprezzabili se non procedendo ad un riesame tecnico basato su peculiari conoscenze tecnico-scientifiche, non é possibile esigere dall'imprenditore una verifica che si risolva in una ricostruzione del macchinario a partire dal progetto. In questo modo si finirebbe con l'obbligarlo ad una diligenza destinata a paralizzare il processo produttivo o con il trasformare la sua responsabilità da colpevole in oggettiva. Affinché dunque l'acquirente possa andare esente da responsabilità penale il difetto di costruzione deve essere tale da sfuggire ad un esame anche non superficiale, non potendosi però pretendere dall'acquirente un collaudo di tutte le parti per provarne la resistenza o la rispondenza ai precetti antinfortunistici35.

In conclusione, la colpa viene dunque meno quando si tratti di difetti occulti, che non possano essere rilevati con l'ordinaria diligenza e prudenza, richieste al "buon imprenditore" dalle comuni regole dell'esperienza e della tecnica, proprie della lavorazione da lui esercitata36.

 

 

8. IL SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE: LA FIGURA CARDINE DEL NUOVO SISTEMA DI SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO

La nuova normativa introdotta dal d.lgs. n° 626/94, oltre ad individuare obblighi generali e specifici per i diversi soggetti, tra i quali assume particolare rilievo quello della valutazione dei rischi, delinea un modello di relazione industriali di tipo partecipativo in tema di salute e sicurezza del lavoro. Tale nuovo approccio richiede che al sistema di prevenzione tecnologica, propria della legislazione degli anni cinquanta, si accompagni una prevenzione di tipo organizzativo ed un coinvolgimento consapevole dei lavoratori, dei loro rappresentanti e di esperti della materia antinfortunistica1.

Infatti il grande elemento di novità che contraddistingue il d.lgs. n° 626 é il nuovo approccio al tema della sicurezza nei luoghi di lavoro: in questa prospettiva risulta evidente l'importanza della struttura organizzativa che il recente intervento legislativo impone al datore di lavoro di predisporre, per adempiere al meglio all'obbligazione di sicurezza, che grava in primo luogo ed in modo indefettibile su di sé. Accanto ai soggetti tradizionali, il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti e i lavoratori, il legislatore istituisce tre nuove figure: il Servizio di prevenzione, il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ed il Medico competente. Si tratta di un sistema integrato che prevede una ripartizione di competenze e responsabilità ed in cui ogni soggetto ricopre una determinata posizione e non può trincerarsi dietro schermi o parafulmini processuali.

L'efficacia degli interventi sull'ambiente di lavoro deriva in gran parte dalla capacità di interazione di queste tre nuove strutture coinvolte nella gestione e nell’applicazione del nuovo sistema antinfortunistico1 bis.

Il Capo II del Titolo I del d.lgs. n° 626/94 é dedicato al Servizio di prevenzione e protezione: l'art. 8 sancisce infatti a carico del datore di lavoro l'obbligo di costituire questa nuova struttura, accogliendo così le indicazioni contenute nella direttiva Ce(e) n° 391/89, che all'art. 7 prevede l'obbligo del datore di lavoro di designare "uno o più lavoratori per occuparsi delle attività di protezione e delle attività di prevenzione dei rischi professionali nell'impresa e/o nello stabilimento". Tale figura era già stata presa in considerazione dalla risoluzione 20 giugno 1976 n° 1 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa.

Nella previgente legislazione questa struttura aziendale non era esplicitamente prevista e tuttavia nelle imprese industriali di medio-grande dimensione era già presente ed operante: da tempo infatti la prassi conosceva, come soggetto in parte dotato di prerogative analoghe a quelle dell'attuale Servizio di prevenzione, l'addetto alla sicurezza. In passato però questa figura aveva suscitato grandi contrasti all'interno della dottrina. Si trattava infatti di una figura dai tratti alquanto incerti e controversi: ciò era dovuto al fatto che il legislatore non aveva provveduto ad annoverarla tra i debitori di sicurezza né ne aveva delineato i contorni, sia al fatto che all'interno delle imprese era invalsa la prassi consistente nell'utilizzo del termine addetto alla sicurezza per individuare tutta una serie di figure, tutte ricondotte sotto quest'unica denominazione, a seguito del loro coinvolgimento, seppur a titolo diverso, nella predisposizione di un ambiente di lavoro sicuro.

Le maggiori difficoltà erano legate alla esatta definizione dei compiti di questa figura e delle connesse responsabilità. La dottrina era comunque concorde nel ritenere che la posizione dell'addetto alla sicurezza dovesse essere valutata in concreto. Da un lato l’addetto non poteva essere ritenuto sempre e comunque responsabile per eventuali carenze nel sistema di sicurezza adottato dall'azienda in cui lavora, dall'altro non si poteva nemmeno sistematicamente e aprioristicamente esonerarlo da ogni responsabilità. Se infatti bisognava evitare che su di lui venissero addossate colpe che facevano carico al altri, e che potesse quindi trasformarsi in un comodo diversivo adoperato con il doppio scopo di creare l'illusione di un interessamento del vertice aziendale per i problemi della sicurezza ed un paravento dietro cui nascondere i veri responsabili delle violazioni di legge2, non si poteva d'altra parte escludere che in alcuni casi potesse rivestire un peso reale nell’organizzazione del sistema antinfortunistico, essendo investito di poteri atti ad influire sull'organizzazione del lavoro. In quest'ultima ipotesi sarebbe stato inammissibile non considerarlo penalmente responsabile.

Dunque l'esatta delimitazione della figura in esame deve essere compiuta tramite il tradizionale criterio dell'effettività, che fa riferimento al complesso delle attribuzioni, delle competenze e dei poteri effettivamente conferiti. In sostanza la dottrina, in ciò trovando il conforto della giurisprudenza unanime, ricomprendeva l'addetto alla sicurezza all'interno della quadripartizione classica, qualificandolo a volte come dirigente2 bis, altre volte come preposto3 4, nel caso in cui la relativa funzione fosse esercitata da soggetti adeguatamente preparati, che già svolgevano compiti vari, quali quelli di sovrintendere al rispetto della normativa antinfortunistica, di controllare che tutti gli strumenti di sicurezza venissero posti a disposizione dei lavoratori e di verificare la salubrità degli ambienti di lavoro5.

Un tale esito era invece precluso nel caso in cui il datore di lavoro avesse affidato all'addetto solo funzioni di studio, analisi, consulenza in tema di sicurezza, riservando però a sé, ai propri dirigenti o a propri delegati lo specifico compito di adottare le opportune misure6.

Veniva dunque valutato in concreto il lavoro svolto dall'addetto alla sicurezza, indipendentemente da formali assegnazioni di qualifiche formali: egli veniva ritenuto penalmente responsabile, eventualmente in concorso con altre persone, quando particolari violazioni della normativa si fossero verificate per omissione a presisi incarichi ricevuti dal management e quando una lavorazione nociva o pericolosa si fosse sviluppata per un'errata gestione del processo produttivo7.

Questo quadro é stato profondamente modificato dal d.lgs. n° 626/94. Il "nuovo" servizio di prevenzione e protezione, a capo del quale é posto il Responsabile del servizio, persona designata dal datore di lavoro, in possesso di attitudini e capacità adeguate8, viene definito dalla stesso decreto come "l'insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni ed interni all'azienda finalizzati all'attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali nell'azienda, ovvero all'unità produttiva9: l'obbligo della sua istituzione grava sul datore sul lavoro.

Il servizio di prevenzione é il fulcro della nuova organizzazione della sicurezza nei luoghi di lavoro: esso costituisce un'apposita funzione aziendale finalizzata agli obiettivi della prevenzione e del controllo dei rischi professionali in ogni articolazione dell'azienda. Esso é la struttura operativa che nella volontà del legislatore rappresenta lo strumento concreto per il perseguimento dell'obiettivo della massima prevenzione in tutti gli ambienti di lavoro e ciò in quanto la prevenzione é intesa innanzitutto come organizzazione di uomini ed investimento di risorse, tendenti ad eliminare i rischi per l'incolumità psicofisica dei lavoratori o quanto meno a ridurli. Tramite la sua istituzione il legislatore ha inteso dare alla prevenzione un rilievo progettuale all'interno dell'organigramma aziendale: essa non può essere infatti un'attività separata dalle altre, ma deve essere integrata ad esse per poter influenzare tutto il processo produttivo10.

La normativa italiana, rispetto all'art. 7 della direttiva-quadro n° 391/89, é maggiormente analitica e rispetto ad essa presenta delle differenze significative11.

E' una struttura aziendale di diretta emanazione del datore di lavoro: il Responsabile del Servizio di prevenzione é un suo collaboratore, da lui designato. Però il d.lgs. n° 626 sembra richiedere, più che la presenza formale del servizio nella struttura organizzativa dell'azienda, che questa determinata e specifica funzione, necessaria ai fini della sicurezza, sia comunque assicurata.

Il datore di lavoro può infatti organizzare il Servizio di prevenzione in tre modi:

a) designando all'interno della propria azienda o unità produttiva una o più persone da lui dipendenti (servizio interno),

b) facendo ricorso a competenze esterne (servizio esterno),

c) svolgendo direttamente i compiti del Servizio qualora l'azienda rientri in una delle ipotesi previste nell'Allegato I (esercizio diretto).

La scelta tra queste diverse opzioni organizzative non é peraltro, per il datore, del tutto libera: egli dovrà tener conto della natura dell'attività esercitata dalla sua impresa e dalle dimensioni aziendali; dall'analisi della disciplina delle tre possibili tipologie si ricava come l'esercizio diretto da parte del datore di lavoro sia ipotesi residuale, sottoposta a rigorosi limiti. Inoltre ogni apertura verso l'esterno dell'impresa viene disincentivata, da un lato limitandola a casi determinati e sottoponendola a precise condizioni12, dall'altro rendendo obbligatorio il ricorso a competenze esclusivamente interne rispetto a realtà produttive individuate in modo tassativo e ritenute, secondo la valutazione del legislatore, dotate di un certo grado pericolosità13.

 

 

8.1 LE TRE DIVERSE TIPOLOGIE: IL SERVIZIO INTERNO

L'art. 8 comma 5 impone la costituzione di servizi interni in alcune ipotesi specificatamente individuate, in considerazione dei rischi connessi alla particolare attività produttiva o della dimensione aziendale14. Gli addetti al servizio di prevenzione, che devono essere in numero sufficiente, devono possedere le "capacità necessarie"; il Responsabile del servizio deve inoltre essere in possesso delle "attitudini e capacità adeguate": a differenza di quanto previsto per il medico competente non sono richiesti né per il Responsabile né per i singoli addetti specifici titoli professionali15. E' opinione costante che le competenze vadano individuate tenendo conto dell'attività produttiva esercitata e dei connessi rischi da contrastare, oltre che dell'attitudine e della sensibilità soggettiva al problema della sicurezza, in coerenza quindi con quanto già prospettato dal legislatore in via generale: si dispone infatti che il datore di lavoro, nell'affidare ai lavoratori funzioni attive di prevenzione e controllo debba "tener conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza"16.

Il decreto, pur non specificando quali siano i requisiti attitudinali e professionali utili ai fini della nomina dei componenti e del responsabile del servizio, ci offre uno spunto per chiarire questo problema: il comma 11 prevede che il datore di lavoro debba comunicare " all'ispettorato del lavoro e alle unità sanitarie locali territorialmente componenti il nominativo della persona designata ..."17, corredando tale comunicazione con "una dichiarazione nella quale si attesti con riferimento alle persone designate:

a) i compiti svolti in materia di prevenzione e protezione,

b) il periodo nel quale tali compiti sono stati svolti,

c) il curriculum professionale".

Da ciò può ragionevolmente ricavarsi che nell'intenzione del legislatore la competenza derivi dall'esperienza, che i compiti, cioè, in materia di prevenzione e protezione debbano essere già stati svolti per un certo periodo per l'azienda presso la quale viene ora nominato o per altre aziende che in precedenza hanno utilizzato la competenza professionale dei singoli addetti al Servizio o del responsabile: ciò dovrebbe valere almeno fino a quando non sarà data attuazione al previsto intervento regolamentare del Ministero del lavoro18.

 

 

8.2 segue: IL SERVIZIO ESTERNO

Il datore di lavoro può integrare il servizio interno attraverso consulenti esterni o affidare direttamente i compiti del servizio di prevenzione ad un staff tecnico esterno all'azienda solo nel caso in cui non abbia alle sue dipendenze soggetti dotati di capacità sufficienti per adempiere ai difficili compiti a cui é chiamata questa nuova figura. E' necessario peraltro, oltre alla previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, una scelta particolarmente oculata19: il servizio di prevenzione deve essere adeguato alle caratteristiche dell'azienda e deve avere organizzazione, uomini e mezzi, per svolgere adeguatamente le sue funzioni in relazione ai processi lavorativi espletati in azienda20.

Il testo della norma parla di "persone e servizi": ciò significa che il servizio esterno potrà essere costituito da uno specialista della sicurezza ovvero da una società di consulenza, fermo restando che il responsabile del servizio esterno dovrà essere una persona fisica.

Anche in questo caso non si può non sottolineare la scarsità di dettagli sull'organizzazione di questo servizio, forniti dal legislatore: parte della dottrina mette in connessione questo dato con l'ampio ambito di applicazione del d.lgs. n° 626/94, che accomuna realtà organizzative profondamente diverse tra di loro, sia per quel che concerne le dimensioni, che per il grado di pericolosità delle attività in esse esercitate. Ciò può aver indotto il legislatore a dettare, per il servizio di prevenzione, disposizioni generali in grado di adattarsi a tutte le realtà organizzative, imponendo così al datore di lavoro, responsabile dell'adempimento dell'obbligazione di sicurezza, di utilizzare strutture adeguate alla singola realtà organizzativa: di conseguenza il datore di lavoro sarà anche responsabile della corrispondenza tra la struttura da lui designata e le concrete necessità della sua impresa20 bis.

 

 

8.3 segue: L’ESERCIZIO DIRETTO

L'articolo 10 del d.lgs. n° 626, tramite il riferimento all'allegato I, stabilisce che per le aziende di piccole dimensioni nei settori artigiano, industriale, agricolo, zootecnico e della pesca e per le aziende di altri settori fino a duecento addetti, con espressa esclusione delle attività industriali pericolose, delle centrali termoelettriche, degli impianti e laboratori nucleari, delle aziende estrattive e minerarie, delle fabbriche e depositi di esplosivi e munizioni, di strutture di ricovero e cura pubbliche e private, il datore di lavoro può in prima persona sostituirsi al servizio di prevenzione e protezione, svolgendo direttamente i compiti previa informativa al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza21.

Lo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti del servizio di prevenzione è quindi possibile solo nelle ipotesi di scarsa pericolosità o di ridotta dimensione aziendale: il primo profilo porta all'esclusione, anche nel caso di scarsa dimensione aziendale, di alcune fattispecie che per la natura dell'attività svolta, soggiacciono a presunzione legale di pericolosità22.

Anche nel caso di esercizio diretto il datore di lavoro può avvalersi di competenze esterne per integrare la propria azione secondo quanto previsto nell'art. 8 comma 4.

Questa facoltà riconosciuta al datore di lavoro é tuttavia subordinata all'acquisizione, da parte dello stesso, di una cultura in materia di sicurezza del lavoro: "deve frequentare un apposito corso di formazione in materia di sicurezza e salute sul luogo di lavoro promosso anche dalle associazioni dei datori di lavoro"23 24.

 

8.4 IL RESPONSABILE DEL SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE

L'art. 2 lett. e) lo definisce come "la persona prescelta dal datore di lavoro avente requisiti attitudinali e capacità tecniche adeguate"25. Riguardo ai requisiti di professionalità richiesti e alle problematiche connesse si rinvia alle considerazioni svolte in precedenza a proposito dei singoli addetti al servizio di prevenzione26.

Questa figura viene nominata dal datore di lavoro, previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza27. Il d.lgs. n° 242/96 ha espressamente stabilito che il soggetto tenuto ad adempiere l'obbligo di designare il responsabile del servizio é esclusivamente il datore di lavoro e tale obbligo non può essere delegato ad altri soggetti; il datore di lavoro può invece delegare ad altro soggetto l'obbligo di designare i singoli addetti al servizio.

Il termine "responsabile" indica una figura di coordinamento tra il datore di lavoro e i dipendenti chiamati a far parte di tale servizio ovvero, nel caso di servizio esterno, la persona che è a capo di esso. Nelle imprese di piccole dimensione, caratterizzate da una presenza marginale di fattori di rischio, qualora non sia lo stesso datore di lavoro a svolgere direttamente le funzioni del servizio, può verificarsi l'identità tra servizio e responsabile, essendovi un unico lavoratore designato. Dubbi erano stati avanzati in ordine alla possibilità che, da parte di aziende tra di loro autonome, ma facenti parte dello stesso gruppo industriale, venisse nominato come responsabile dei vari servizi di prevenzione un unico soggetto non libero professionista, bensì dipendente di una delle aziende interessate28. La dottrina prevalente riteneva praticabile questa soluzione29. Ora ogni contrasto è stato risolto dalla Circolare del Ministero del Lavoro 30 maggio 1997 n° 73, che ammette esplicitamente questa possibilità. Viene comunque unanimemente considerato necessario che ogni azienda e, nel caso in cui essa sia articolata in più unità produttive, ognuna di esse sia dotata di un proprio servizio di prevenzione30. Infatti l'art. 8 comma 5 fa riferimento alternativamente all'azienda e all'unità produttiva: questo richiamo risulterebbe, in caso contrario, superfluo31.

 

 

8.5 IL RUOLO DEL SERVIZIO DI PREVENZIONE E LA SUA RESPONSABILITA' PENALE

Un aspetto molto discusso di questa nuova struttura riguarda la responsabilità del coordinatore del servizio di prevenzione e degli stessi addetti. Per risolvere questo problema nel modo corretto, evitando ogni petizione di principio e posizione aprioristica é necessario analizzare il ruolo che il d.lgs. n° 626/94 ha inteso assegnare a questo nuovo soggetto e quindi innanzitutto le sue funzioni32.

Il Responsabile del servizio é a capo del servizio di prevenzione, la cui organizzazione spetta al datore di lavoro; quest'ultimo é anche l'unico che può utilizzare tale servizio. L'esclusività del legame che intercorre tra il datore di lavoro e servizio di prevenzione é confermata anche dalla composizione del servizio: si tratta infatti di persone scelte e nominate dal datore di lavoro.

Un ulteriore elemento da prendere in considerazione, per giungere ad una soluzione corretta, consiste nell'insieme dei compiti attribuiti a questa nuova figura; essi sono:

a) l'individuazione dei fattori di rischio, la valutazione dei rischi e l'individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro;

b) l'elaborazione, in collaborazione con il datore di lavoro, delle misure preventive e protettive, dei sistemi relativi alle attrezzature di protezione utilizzate nonché dei sistemi di controllo di tali misure;

c) l'elaborazione delle procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;

d) la proposta di programmi di informazione e formazione dei lavoratori;

e) l'informazione dei lavoratori relativamente agli elementi previsti dall'art. 21.

I compiti del servizio sono dunque di natura meramente tecnico-progettuale33.

Ha inoltre il diritto di partecipare alle riunioni periodiche in materia di salute e sicurezza, che il datore di lavoro deve convocare ex art. 1134. I compiti affidati al servizio di prevenzione si traducono dunque in attività di tipo consultivo-propositivo, quindi complementari o preparatorie di quelle proprie del datore di lavoro, che resta il principale destinatario degli obblighi di sicurezza. Non si tratta quindi di funzioni operative; unica eccezione é il compito di fornire ai lavoratori le informazioni di cui all'art. 21: anche in questo caso però la norma non é assistita da sanzioni penali e per la sua violazione risponderanno il datore di lavoro, i dirigenti o i preposti35.

La natura dei compiti affidati al servizio di prevenzione ne evidenzia dunque il ruolo di supporto e di ausilio che svolge nel sistema aziendale di sicurezza. Nel caso in cui tali compiti siano svolti dagli stessi dipendenti dell'impresa l'organizzazione del servizio consente di ordinare, razionalizzandolo, il coinvolgimento dei lavoratori nella valutazione dei rischi e nelle attività di prevenzione e protezione: tale coinvolgimento costituisce il sistema più sicuro per identificare i fattori di rischio e per garantire l'efficacia delle misure di tutela adottate36. Nel caso in cui si utilizzi un servizio esterno di prevenzione il ruolo di sussidio informativo ed operativo é ancora più evidente, poiché saranno proprio i consulenti esterni che forniranno al datore di lavoro le notizie in materia antinfortunistica od elaboreranno le strategie necessarie per adempiere agli obblighi di legge.

Da questa analisi sembra emergere in modo abbastanza nitida la configurazione del responsabile del servizio di prevenzione come collaboratore e consulente tecnico del datore di lavoro: egli non ha la possibilità di adottare autonomamente nuove misure di sicurezza e non é dotato di poteri di spesa. Il legislatore non ha quindi inteso trasferire responsabilità e doveri in capo al nuovo soggetto: il datore di lavoro tramite l'istituzione del servizio di prevenzione non si libera delle responsabilità scaturenti dalla normativa in materia antinfortunistica; esse continuano a gravare su di lui37

Ad ulteriore conferma di questa impostazione si può segnalare il fatto che il 1° comma dell'art. 4, così come modificato dall'art. 3 del d.lgs. n° 242/96, individua, come destinatario dell'obbligo di valutazione dei rischi, il solo datore di lavoro. Si impone a questo punto una precisazione: l'art. 98 comma 1 sanziona non tanto la violazione dell'obbligo di cui all'art. 4 comma 1, quanto l'inosservanza al disposto dell'art. 4 comma 2, che prevede che il datore di lavoro debba, al termine del procedimento di valutazione dei rischi, elaborare il piano di sicurezza, nel quale viene formalizzato l'adempimento degli obblighi di prevenzione e protezione su di lui gravanti.

Dalla lettura congiunta di questo articolo e dell'art. 1 comma 4 ter, che dichiara espressamente non delegabili l'adempimento, tra gli altri, degli obblighi che abbiamo appena preso in esame, si può ricavare un ulteriore sostegno a favore della tesi dell'esclusiva responsabilità penale in materia del datore e della conseguente irresponsabilità del responsabile del servizio di prevenzione e protezione 37 bis.

L'istituzione del servizio di prevenzione e protezione deve essere quindi letta alla luce di quel processo di strutturale ridefinizione delle problematiche della sicurezza in azienda operato dal d.lgs. n° 626, i cui tratti qualificanti sono la programmazione e la partecipazione38.

Occorre però evitare di portare alle estreme conseguenze i rilievi appena svolti, dal momento che, argomentando anche a questo riguardo sulla base dell'ormai tradizionale canone dell'effettività, non si può concedere al servizio una sorta di immunità, esonerandolo da ogni responsabilità penale anche di fronte a infortuni e tecnopatie: é infatti possibile che il verificarsi di infortuni sul lavoro o il manifestarsi di una malattia professionale possano essere dovuti a malfunzionamento del servizio; ciò dimostrerebbe che il Responsabile del servizio, nel caso naturalmente in cui egli abbia poteri e capacità necessarie, ha esercitato in modo non corretto i compiti che gli competono per legge. A questo proposito la dottrina distingue tradizionalmente l'ipotesi in cui il responsabile del servizio non abbia effettuato la valutazione dei rischi a lui affidata, da quella in cui si verifichi un infortunio dovuto ad erronee valutazioni a lui imputabili39. Mentre nel primo caso il responsabile del servizio non sarà considerato responsabile dal punto di vista penale40, nel secondo caso si potrà avere un'affermazione di responsabilità a suo carico, eventualmente in concorso con il datore di lavoro, dal momento che permangono comunque su quest'ultimo l'obbligo di selezione di personale competente, l'obbligo di controllo e vigilanza sull'attività dei propri dipendenti, nonché la titolarità esclusiva dei generali poteri incidenti sull'organizzazione produttiva.

Bisogna inoltre ora tener conto del fatto che la Corte di Cassazione in alcune recenti sentenze relative al d.lgs. n° 277/91, chiamata a pronunciarsi in ordine alla responsabilità penale dei consulenti per una valutazione parziale o inadeguata del rischio da rumore, ha dichiarato che "se dalla condotta colposa del consulente deriva una malattia professionale anche o solo il consulente può essere perseguito penalmente per il reato di lesioni personali colpose"41: il responsabile del servizio di prevenzione può dunque incorrere in colpa professionale qualora, nell'esercizio della sua attività di consulenza e collaborazione, non abbia tenuto conto dello "stato dell'arte" ed abbia svolto le sue mansioni con diligenza, prudenza e perizia.

La tutela della sicurezza dei lavoratori non é più dunque lasciata alla sola accortezza del datore di lavoro, dovendo questi confrontarsi ed interloquire con una serie di soggetti in possesso delle competenze e delle capacità personali idonee a garantire che tale tutela sia approntata nei tempi e nei modi migliori. Il datore di lavoro risponderà quindi penalmente per le omissioni del servizio, la cui presenza nell'impianto normativo del d.lgs. n° 626 ha lo scopo precipuo di fornire al capo dell'impresa uno strumento tecnico-operativo per adempiere nel migliore dei modi ai gravosi obblighi stabiliti dalla legge, coinvolgendo il maggior numero di soggetti possibile, e non quello di esonerare il datore di lavoro dalle sue responsabilità in campo antinfortunistico.

Considerando questo quadro42, si può capire perché il legislatore non abbia previsto sanzioni penali in caso di violazione delle varie disposizioni contenute nell'art. 9.

Strettamente connesso al problema della responsabilità è quello relativo all'individuazione della persona che in concreto riveste la funzione di servizio di prevenzione e protezione.

Parte della dottrina non ritiene necessario creare ex novo una struttura apposita43: essa non esclude che si possa attribuire al personale già presente in azienda, se dotato delle professionalità richieste dalla legge, anche il ruolo di responsabile del servizio di prevenzione o di semplice addetto allo stesso; é infatti probabile che, data la difficoltà di reperire le competenze necessarie, si diffonda la prassi di designare quale responsabile del servizio la persona alla quale in passato era stata conferita la delega in materia di sicurezza. Dunque si potrà avere una sovrapposizione di ruoli: lo stesso soggetto ricoprirà la qualifica di dirigente o preposto e quella di responsabile del servizio. In questo caso, ferma restando l'assenza di responsabilità per l'attività svolta quale responsabile del servizio44, si dovrà chiarire quali compiti sono a lui attribuiti in qualità di responsabile del servizio e quali invece sono su di lui gravanti per la sua qualifica di dirigente o preposto: a queste ultime qualifiche infatti la legge riconnette delle precise responsabilità. Se infatti é il datore di lavoro che deve valutare i rischi esistenti nel luogo di lavoro, servendosi della collaborazione del servizio di prevenzione, spetta poi anche ai dirigenti ed ai preposti, oltre che al datore di lavoro, adottare, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, le misure di sicurezza necessarie44 bis. E' a questo punto che la delega di funzioni può assumere rilevanza: se infatti il responsabile del servizio di prevenzione ricopre anche la carica di dirigente, nell'ambito e nei limiti della delega ricevuta, potrà, ed al tempo stesso dovrà, adottare le misure antinfortunistiche necessarie: potrà quindi essere considerato penalmente responsabile in caso di inosservanza della normativa in materia, con conseguente esonero del datore di lavoro da ogni responsabilità penale44 ter.

Alla stessa conclusione perviene, pur utilizzando strumenti concettuali diversi, anche quella parte della dottrina che non esclude che il datore di lavoro possa delegare al servizio di prevenzione una serie più ampia di funzioni rispetto a quella legalmente tipizzata, riconoscendogli anche maggiori prerogative di intervento45. Anche in questo caso si avrà una duplicità di ruoli in capo alla medesima persona: sarà necessario quindi valutare attentamente se l'infortunio eventualmente verificatosi a danno di un lavoratore dell'azienda sia ricollegabile al comportamento tenuto dal soggetto nella sua veste di dirigente o preposto oppure in quella di responsabile del servizio di prevenzione. In quest’ultimo caso si riproporranno i problemi in precedenza esaminati; nel caso in cui invece l'evento dannoso sia causalmente collegato ad esempio ad omissioni addebitabili al dirigente, il quale non ha svolto in modo corretto le mansioni a lui affidate, per legge o per contratto, egli potrà essere ritenuto penalmente responsabile: si afferma infatti, da parte dei sostenitori di questa teoria, che non vi é nessun ostacolo a che il servizio possa essere chiamato a rispondere per violazioni di legge riferibili a competenze legittimamente trasferite.

Queste conclusioni vengono vivacemente contrastate da parte di quegli Autori che appuntano la propria attenzione sulla natura del ruolo attribuito in particolare al Responsabile del servizio di prevenzione46: si tratta infatti di una figura c.d. di staff, un consulente incaricato di un compito di aiuto e consiglio nella preparazione ed attuazione di un'adeguata politica di prevenzione. Quindi attribuendo peso decisivo a questa circostanza si giunge ad affermare "che il responsabile del servizio di prevenzione non può essere scelto nella "line dirigenziale" dell'impresa o tra i preposti in quanto deve essere una figura dotata di una propria autonomia e non integrata nell'organigramma verticistico dell'impresa"47. Non si ritiene quindi possibile neppure una parziale o specifica delega di funzioni: questo infatti provocherebbe anche una deplorevole confusione dei ruoli e delle connesse responsabilità, che pregiudicherebbe il livello di sicurezza all'interno dell'impresa in cui ciò si verificasse.

Si afferma inoltre, a sostegno della tesi dell'impossibilità di utilizzare la delega, che il Responsabile del servizio ha nei confronti del datore di lavoro un ruolo di antagonista, dovendo egli svolgere incarichi che potrebbero in taluni casi risultare in contrasto con gli interessi del datore di lavoro. A questa obiezione si può forse rispondere sottolineando come in realtà non si ponga nei confronti del capo dell'impresa in un rapporto conflittuale e di antagonismo, bensì di collaborazione47 bis.

Constatato il contrasto esistente all'interno della dottrina non si può che aspettare che il Governo, tramite una Circolare interpretativa, o la giurisprudenza chiariscano questo punto dall'importanza non secondaria.

Vi é un unico punto su cui la dottrina sembra aver raggiunto un accordo, dopo un periodo in cui era assestata su posizioni non coincidenti; viene ritenuta pressoché unanimemente non sovrapponibile la disciplina relativa al servizio di prevenzione al tema della delega di funzioni: dal momento che si tratta di istituti diversi aventi diverse finalità48. Infatti in sede di prima applicazione del decreto parte della dottrina tendeva ad equiparare49 la figura del responsabile del servizio al soggetto destinatario della delega di funzioni: il soggetto delegante, in tale contesto, é il datore di lavoro a cui la legge imputa originariamente i compiti di prevenzione e protezione; soggetti delegati, per converso, sono quei soggetti, il responsabile del servizio e i singoli addetti, che é la legge stessa a stabilire che "devono essere in numero sufficiente e disporre di mezzi e di tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati"50.

Ora la dottrina pressoché unanime sostiene che la riconduzione del meccanismo sotteso alla designazione del servizio di prevenzione allo schema della delega non rappresenti però risultato pacifico e che sono anzi numerosi gli indici che suggeriscono l'opportunità di una diversa configurazione della fattispecie regolata nel decreto.

Il responsabile del servizio di prevenzione é una figura la cui presenza é obbligatoria e ha contenuto vincolato: ciò differenzia questa figura dal delegato, connotato dalla facoltatività della sua introduzione nonché per la libertà in ordine alla determinazione contenutistica degli obblighi. In secondo luogo la diversità tra le due figure si sviluppa sul piano applicativo, con particolare riguardo alla problematica dell'individuazione del soggetto penalmente responsabile in caso di violazione delle norme antinfortunistiche: se si affermasse che le due figure coincidono si dovrebbe risolvere in senso affermativo la discussa questione dell'imputabilità al servizio di prevenzione della responsabilità penali in caso di violazione delle norme la cui osservanza rientri nell'ambito di competenze e funzioni di questo. Ora invece è opinione costante in dottrina che, con l'introduzione del servizio di prevenzione, il legislatore non abbia voluto fornire al datore di lavoro uno strumento per trasferire su altri soggetti i propri doveri e le connesse responsabilità: la nomina di una persona quale responsabile del servizio, pur non costituendo una vera e propria delega delle responsabilità, é comunque il presupposto per l'individuazione di un'eventuale corresponsabilità dei "tecnici della sicurezza" in caso di infortunio51.

 

 

9. IL RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA: IL PROBLEMA DELLA SUA INDIVIDUAZIONE

In Italia fino al d.lgs. n° 626/94 era presente "un modello di prevenzione oggettivo", che si fondava in gran parte su misure prescrittive per la messa in sicurezza di impianti ed ambienti di lavoro, a cui i lavoratori dovevano attenersi; il modello era funzionale ad un'organizzazione delle attività lavorative ispirata al principio "comanda e controlla", in cui la legge detta alcune prescrizioni e gli organi di vigilanza, i servizi di prevenzione delle USL, verificano che siano correttamente applicate. Questo modello risulta ora non adeguato, non solo per la limitatezza delle risorse destinate alle strutture di vigilanza, ma soprattutto per la riorganizzazione del sistema produttivo: si verificano, da un lato, fenomeni di riduzione delle dimensioni aziendali ed esternazionalizzazione della produzione collegati alla crisi del modello organizzativo fordista-taylorista, dall'altro, si afferma il concetto di qualità del prodotto come condizione delle scelte manageriali, che ora sono spesso supportate da "procedure di autocontrollo" e di "adattamenti just in time" della produzione: ai lavoratori si chiede di partecipare attivamente al processo produttivo1.

Ciò non può che produrre un cambiamento anche nel modello di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali: si ha quel fenomeno che é stato analizzato nel capitolo II e che può sintetizzarsi nel passaggio dalla "nocività conflittuale" alla "sicurezza partecipata". E' questa la nuova filosofia sottesa alla direttiva-quadro n° 391/89: nel proemio della direttiva é previsto infatti che "per garantire un migliore livello di protezione é necessario che i lavoratori e/o i loro rappresentanti siano informati circa i rischi per la sicurezza e la salute e circa le misure occorrenti per ridurre o sopprimere questi rischi; ... é inoltre indispensabile che essi siano in grado di contribuire, con una partecipazione equilibrata, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali, all'adozione delle misure di prevenzione". Il legislatore comunitario definisce poi all'art. 3 lett. c come "rappresentante dei lavoratori il quale ha una funzione specifica in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori qualsiasi persona eletta, scelta o designata, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali, per rappresentare i lavoratori per quanto riguarda i problemi della protezione della loro sicurezza e salute durante il lavoro". La direttiva sembra quindi prefigurare una rappresentanza specifica in materia antinfortunistica, pur lasciando ai singoli legislatori nazionali libertà di scelta in ordine alla procedura da seguire per la loro nomina: ad essa vengono attribuiti compiti specifici e garanzie2.

Con il d.lgs. n° 626/94 il legislatore italiano non si é limitato a dare attuazione alla disciplina comunitaria, ma ha colto l'occasione per dare attuazione ad una serie di nodi interpretativi ed applicativi in ordine ai quali da tempo la dottrina sottolineava l'opportunità di un intervento legislativo chiarificatore. Un ruolo centrale ai fini della realizzazione del modello prevenzionale partecipato delineato dal recente decreto ha la nuova figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza: la nuova disciplina ispirandosi alla normativa comunitaria, individua dunque una rappresentanza specifica in materia di salute e sicurezza, alla quale attribuisce determinati poteri. Questa figura, così come appare oggi disciplinata, é certamente nuova, ma le esigenze ed i bisogni ad essa sottesi erano avvertiti da tempo: nel nostro ordinamento giuridico era già presente infatti una norma, l'art. 9 dello Statuto dei lavoratori, che attribuiva ai lavoratori il diritto "di controllare mediante loro rappresentanti l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica". L'intenzione del legislatore era, secondo l'opinione unanime della dottrina, quella di affermare la competenza strumentale di rappresentanze non predefinite sotto il profilo strutturale e teleologico3: in considerazione della rilevanza assunta alla fine degli anni sessanta dai movimenti spontaneistici che avevano rivendicato il ruolo primario del "gruppo omogeneo" dei lavoratori e l'importanza dei principi della "non delega" e della "validazione consensuale" viene dunque lasciata la possibilità ai lavoratori di costituire rappresentanze che esprimessero direttamente gli interessi della "comunità di rischio"3 bis. Quindi mentre l'art. 19 Stat.lav., in cui viene disciplinata la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, riportava le rappresentanze dei lavoratori in azienda, i consigli dei delegati, nell'ambito del sindacato, l'art. 9 Stat.lav. creava un canale rappresentativo potenzialmente alternativo, diverso nella composizione e specializzato nella tutela dell'integrità psicofisica dei lavoratori. In realtà quest'ultimo ha coinciso nella prassi applicativa e con il conforto della giurisprudenza prevalente con le r.s.a.3 ter. Ciò ha destato le perplessità di gran parte della dottrina4: essa ha sottolineato come a seguito di questa "sindacalizzazione" delle rappresentanze ex art. 9 Stat.lav. si sia prodotto un'equiparazione del loro modello d'azione a quello che caratterizza generalmente il sindacato; la logica compromissoria che contraddistingue il contratto collettivo sarebbe quindi destinata ad incidere anche sulla gestione del problema della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, producendo effetti deprecabili in quanto un diritto indisponibile, quale il diritto alla salute, potrebbe diventare merce di scambio; infatti obiettivo preminente dell'azione sindacale é stato il mantenimento dei livelli occupazionali e la salvaguardia dei salari più che la tutela della salute negli ambienti di lavoro. Altri autori mettono in evidenza come i sistemi basti su di una forte specializzazione delle rappresentanze sindacali incontrino dei limiti, quali un’eccessiva enfasi sul ruolo degli esperti spesso non indipendenti dal datore di lavoro e il rischio di una separatezza dagli altri organismi di rappresentanza dei lavoratori che comporterebbe una minore tutela della sicurezza5. In ogni caso non si può negare la diversità delle funzioni che spettano alla rappresentanza ex art. 9 Stat.lav. e quelle svolte normalmente dal sindacato, in particolare dalla r.s.a.: "le rappresentanze per la sicurezza" hanno un ruolo consultivo-propositivo, di orientamento in ordine agli obiettivi della contrattazione in materia e di verifica sulla qualità degli accordi raggiunti, ma non un potere negoziale, proprio invece delle rappresentanze sindacali.

Era infatti opinione diffusa prima dell'emanazione del d.lgs. n° 626/94 che il nostro ordinamento, per adeguarsi alla direttiva, dovesse semplicemente "ritornare al passato", rivitalizzando cioè proprio le rappresentanze di cui all'art. 9 Stat.lav., liberandole dall'opera di normalizzazione della giurisprudenza, della contrattazione collettiva e della legislazione successiva6. Una parte della dottrina non condivide questa ricostruzione, sottolineando invece come la direttiva comunitaria potesse apportare significative integrazioni alla disciplina allora esistente: innanzitutto la lacuna costituita dall'estrema genericità dell'art. 9 Stat.lav. potrebbe essere colmata dalle disposizioni maggiormente analitiche contenute nel provvedimento comunitario, inoltre alcune delle prerogative che vengono da esso assicurate ai rappresentanti dei lavoratori, quali il diritto alla formazione e consultazione non erano in Italia ancora garantiti a livello legislativo, ma trovavano riconoscimento solo nella contrattazione collettiva. Il legislatore con il d.lgs. n° 626/94, facendo proprie queste ultime considerazioni, ha recepito la direttiva comunitaria ed introdotto la nuova figura del "rappresentante dei lavoratori per la sicurezza".

L'art. 2 lett. f definisce questo soggetto come la "persona ovvero le persone eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto riguarda gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro ...". Nell'art 18 comma 1 si precisa, poi, che tale figura é presente in tutte le aziende e unità produttive: questa norma non subisce, in ordine al campo di applicazione, alcuna limitazione; la dimensione occupazionale assume un certo rilievo soltanto in relazione alle modalità di costituzione di questa nuova figura. Ciò rappresenta un primo tratto innovativo rispetto alle rappresentanze di cui all'art. 9 Stat.lav.: mentre la presenza di queste ultime era meramente eventuale, ora la costituzione delle "nuove" rappresentanze é prevista come strutturalmente necessaria; l'obbligatorietà della loro presenza, a prescindere da qualsiasi requisito minimo di organico, é coerente con l'attribuzione a questa nuova figura di specifiche e fondamentali funzioni e con il suo coinvolgimento nel processo globale di gestione della sicurezza7 8. Il secondo elemento che differenzia il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (r.l.s.) rispetto alla rappresentanza sindacale disciplinata dallo Statuto dei lavoratori nell'art. 9 riguarda il diverso soggetto a cui é demandata la sua nomina: non sarà più possibile, salvo ipotesi residuali, che siano espressione della stessa comunità di rischio, ma la loro collocazione sarà in linea di massima all'interno delle rappresentanze sindacali aziendali (r.s.a.).

Dunque la disciplina delegata ha espresso, sia pure con qualche eccezione, una chiara opzione di favore verso l'affidamento delle funzioni di rappresentanza dei lavoratori in materia di sicurezza ad organismi aziendali di natura sindacale9. In particolare il legislatore distingue due aree applicative: la prima riguarda le aziende e unità produttive con meno di 16 dipendenti, la seconda quelle con un numero di dipendenti pari o superiore a 1610. Nelle aziende più piccole il r.l.s. é eletto direttamente dai lavoratori al suo interno11: dunque nelle realtà produttive di minore dimensione é da ritenersi prevalente la diretta volontà dei lavoratori. Vengono però previste altre due modalità alternative di individuazione: il r.l.s. può essere individuato nell'ambito territoriale ovvero del comparto produttivo. In questo modo preso atto delle inevitabili difficoltà che possono ostacolare la costituzione delle rappresentanze in materia di salute e sicurezza nelle aziende di dimensioni ridotte, si é voluto offrire ai singoli lavoratori e alla contrattazione collettiva un ulteriore modello organizzativo: la ratio della scelta legislativa sembra risiedere nella constatazione che in questi casi può risultare più proficuo individuare un solo soggetto che ricopra il ruolo di r.l.s. unico e comune alle varie aziende, che sono situate in aree caratterizzate da insediamenti produttivi di natura omogenea che presentano problemi analoghi. Una tale possibilità presenta però una serie di problemi, tra i quali quello relativo all'estrazione di questo soggetto. Oltre a difficoltà di natura organizzativa che nascono per l'azienda da cui proviene il rappresentante territoriale o di comparto, la sua elezione genera problemi a livello operativo: i compiti che la legge gli assegna presuppongono una stretta connessione tra questi e la struttura produttiva in cui deve operare, poiché é necessaria una sua conoscenza approfondita delle reali condizioni di lavoro; l'esercizio di tali compiti richiede inoltre una preventiva attività di informazione e formazione, che non può che essere svolta dal datore di lavoro a capo della singola azienda, e comporta la sopportazione di oneri economici che andrebbero, in caso di nomina congiunta, divisi; inoltre la rappresentanza esterna, per la sua stessa natura, potrebbe portare ad una maggiore conflittualità sulle materie della salute e sicurezza dei lavoratori, che il legislatore ha invece voluto che venissero affrontate tramite gli strumenti della partecipazione e collaborazione12.

Ai lavoratori viene data un'ulteriore possibilità: il r.l.s. "può essere designato o eletto dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali, così come definite dalla contrattazione collettiva di riferimento": questa eventualità si riferisce in particolare al caso costituito dalla rappresentanza territoriale o di comparto, dal momento che l'assetto legislativo vigente prevede la presenza di rappresentanze sindacali solo nell'unità produttive con più di 15 dipendenti; non si può però escludere che laddove una rappresentanza sindacale aziendale sia comunque costituita il r.l.s. possa essere scelto nell'ambito di questa, dato il tendenziale legame posto dal legislatore tra rappresentanza specifica per la sicurezza e rappresentanza sindacale13.

Infatti nell'accordo interconfederale 20 dicembre 199314, in cui vengono riconosciute le rappresentanze sindacali unitarie (r.s.u.) quali rappresentanze sindacali in azienda dei sindacati, destinate progressivamente a prendere il posto delle r.s.a., é ammessa la costituzione di r.s.u. anche nelle unità di produttive di piccole dimensioni, con meno di 15 dipendenti: ciò rende possibile applicare quanto previsto nel comma 2 ultimo periodo.

Un criterio diverso è invece utilizzato per le aziende o unità produttiva con più di 15 addetti: il r.l.s. "é eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali esistenti in azienda. Solo in assenza di queste ultime é prevista l'elezione da parte dei lavoratori dell'azienda al loro interno". Si é così stabilito per le imprese di dimensione medio-grande un collegamento pressoché stabile e necessario tra r.l.s. e rappresentanza sindacale: infatti il rappresentante per la sicurezza deve essere individuato tra i soggetti già appartenenti agli organismi aziendali di rappresentanza, laddove costituiti; in caso di assenza, invece, di organismi aziendali rappresentativi a livello aziendale l'individuazione del r.l.s. avviene su base elettiva tra i lavoratori occupati nell'azienda.

Nel testo della norma si parla, oltre che di elezione, di designazione: questo riferimento pone innanzitutto un problema di concreta configurabilità di questa procedura. L'alternativa in esame può essere fonte di equivoci: comunque alla luce dei lavori parlamentari e dei primi contratti collettivi sembra potersi affermare che la regola é costituita dall'elezione, mentre la designazione deve essere relegata ad ipotesi eccezionali e specificatamente previste in sede di contrattazione15.

La procedura di designazione richiede che un soggetto diverso dalla collettività, in questo caso, dei lavoratori sia titolare del potere di procedere all'indicazione, più o meno immediatamente efficace, di colui che é deputato all'assolvimento di un determinato incarico16; un ulteriore distinzione tra i due termini potrebbe essere ravvisata nel fatto che essa presuppone una indicazione unitaria17. Al di là comunque delle perplessità in ordine all'utilizzo di questo termine, la dottrina ritiene che la scelta definitiva dovrà comunque essere rispettosa della volontà dei lavoratori: non si potrebbe, dunque, procedere alla designazione del r.l.s. da parte delle rappresentanze sindacali senza l'accettazione di tale nominativo da parte dei lavoratori18 19.

Occorre ora chiarire l'esatto significato dell'espressione "rappresentanza sindacale in azienda"20, utilizzata nell'art 18 comma 3 con riferimento alla fattispecie rappresentata dalle aziende con più di 15 dipendenti. La dottrina prevalente ritiene che tale formula non abbia carattere definitorio: non vale, cioè, a selezionare determinate strutture sindacali aziendali piuttosto che altre; non sono stati infatti utilizzati termini tecnici quali, ad esempio, rappresentanze sindacali aziendali ex art. 19 Stat.lav. o rappresentanze sindacali unitarie. L'indicazione contenuta nell'art. 18 viene ritenuta aperta: il r.l.s. potrà essere scelto, secondo le procedure individuate dalla contrattazione collettiva, tra i componenti di tutte le rappresentanze sindacali costituite in azienda, siano esse R.s.a., R.s.u. o altre21. A favore della non assimilabilità tra R.s.a e "rappresentanze sindacali in azienda" depone dunque il dato testuale, refrattario alla ricezione della figura di elaborazione statutaria ed indicativo invece della volontà del legislatore di accreditare una nozione atecnica di rappresentanza allo scopo di garantire il collegamento del r.l.s. con l'organismo sindacale endoaziedale, a prescindere dalla sua costituzione nelle forme individuate dall'art. 19 Stat.lav.22. Questa soluzione potrebbe però comportare un effetto negativo: la rinuncia infatti del legislatore ad adottare criteri selettivi potrebbe determinare pericolose forme di concorrenza tra organismi che, anche al fine di mera propaganda, operino in contrasto con le r.s.a., rendendosi disponibili ad una "corsa al ribasso o rialzo" nella rivendicazione delle misure di sicurezza; a questo pericolo potrebbe rimediare la contrattazione collettiva, a cui l'art 18 comma 4 demanda espressamente il compito di stabilire le modalità di designazione o di elezione di tali rappresentanti, che potrà prevedere requisiti e/o condizioni di accesso allo svolgimento delle funzioni di cui all'art. 19, con il solo limite del rispetto del principio di libertà sindacale ci cui all'art. 39 Cost.23.

I primi accordi sindacali ed in particolare l'accordo Cgil-Cisl-Uil/Confindustria 22 giugno 1995 stabiliscono che il r.l.s. deve essere scelto nell'ambito delle r.s.u. con l'unica eccezione costituita dalle aziende che occupano tra i 201 e 300 dipendenti per le quali é previsto un rappresentante aggiuntivo, al fine di evitare una completa sovrapposizione tra r.l.s. e componenti delle r.s.u.. Viene così confermata la preferenza delle parti sociali per la conservazione di un canale unico di rappresentanza24.

Il d.lgs. n° 626 detta quindi solo le linee generali della disciplina riguardante il r.l.s.: innanzitutto demanda alla contrattazione collettiva il compito di stabilire "il numero, le modalità di designazione o di elezione"; il legislatore non ha voluto quindi intervenire in materie che sono sempre state tradizionalmente rimesse alla contrattazione e quindi alle parti sociali.

La dottrina prevalente ritiene che il riferimento contenuto nell'art. 18 comma 4 alla contrattazione collettiva debba essere inteso in senso ampio, come comprendente anche il livello aziendale25. Il legislatore si limita ad indicare, nell'art. 18 comma 6, un numero minimo di r.l.s.26 rapportato al numero degli addetti nell'azienda27. L'accordo interconfederale 22 giugno 1995 fa propria la previsione normativa: l'unica deroga é presente nel caso, già citato, costituito dalle aziende con un numero di occupati compreso tra le 201 e le 300 unità. Per quanto riguarda le modalità di designazione o di elezione, facendo propria la summa divisio stabilita nel decreto tra imprese superiori e quelle inferiori alla soglia dimensionale di 15 addetti, per le prime rafforza la caratterizzazione sindacale del r.l.s., imponendone di regola l'individuazione tra i componenti della R.s.u., mentre per le seconde prevede che il ricorso preferenziale al metodo elettivo possa essere derogato a livello di contratto di categoria. Vengono inoltre stabilite regole di dettaglio: si precisa che la carica viene ricoperta dal candidato che riceva più voti, in apposite votazioni a suffragio universale e diretto e a scrutinio segreto; hanno infatti diritto di voto tutti i lavoratori iscritti a libro matricola e possono essere eletti tutti i lavoratori non in prova con contratto a tempo indeterminato che prestano la propria attività nell'azienda28; la durata dell'incarico é triennale.

L'accordo interconfederale 27 ottobre 1995 stipulato dai tre sindacati confederali e dalla Confapi conferma nella sostanza il precedente accordo confindustriale; maggiormente originale é invece l'accordo 22 novembre 1995 per il settore artigiano: il carattere endoaziendale del rappresentante viene considerata una mera eventualità, definita addirittura come inadeguata, rispetto alla quale é preferibile l'opzione rappresentata dal rappresentante c.d. territoriale29.

 

 

9.1 LE ATTRIBUZIONI DEL R.L.S.

Per quanto riguarda le prerogative dei r.l.s. il d.lgs. n° 626/94 in parte riprende la previsione dell'art. 9 Stat.lav., in parte la integra. L'art. 19 ora attribuisce loro una serie più ampia di funzioni, le cui modalità di svolgimento vengono disciplinate nei citati accordi interconfederali, contemperando i diritti sindacali con le esigenze produttive e di riservatezza dell'azienda.

Viene innanzitutto riconosciuto al r.l.s. un diritto d'accesso ai luoghi di lavoro, che assume un carattere strumentale rispetto all'esercizio delle altre funzioni di cui é titolare: l'esercizio di questo diritto può essere procedimentalizzato, sottoponendolo a vincoli e/o condizioni30.

Ha inoltre diritto ad essere informato sui risultati della valutazione dei rischi, sull'esistenza di fattori di pericoli, sull'andamento degli infortuni nell'azienda e sulla situazione sanitaria dei lavoratori esposti a rischi particolari. Tali informazioni vengono acquisite in tempi e con modalità diverse, ad esempio accedendo direttamente a determinati documenti, attraverso il medico competente o gli organi di vigilanza oppure nel corso della riunione periodica di cui all'art. 11.

Ampio é anche l'ambito dei diritti di consultazione: é consentita al rappresentante la possibilità di esprimere tempestivamente e preventivamente le proprie valutazioni in ordine all'approntamento e gestione delle misure di prevenzione e protezione31.

Il r.l.s. può inoltre promuoverne l'elaborazione, l'individuazione e l'attuazione e fare proposte in ordine all'attività di prevenzione. L'intervento del rappresentante avviene in sede consultiva e di conseguenza non vi é alcun obbligo per il datore di lavoro di attenersi alle sue osservazioni e proposte32: la decisione finale e quindi la conseguente ed eventuale responsabilità, anche sul piano penale, graverà esclusivamente sul datore di lavoro33.

Il d.lgs. n° 626 contiene inoltre una disposizione destinata a garantire l'effettività delle misure antinfortunistiche in esso previste: si tratta dell'art. 19 comma 1 lett.o ai sensi del quale il r.l.s. "può far ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro e i mezzi impiegati per attuarle non sono idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro"34: la formula sembra ricomprendere, oltre al ricorso all'UsSsLl e all'ispettorato del lavoro, anche quello in sede giudiziaria35.

 

 

9.2 GARANZIE E TUTELE

Al fine di garantire l'effettività dell'esercizio delle funzioni del r.l.s. il d.lgs. n° 626 non prevede soltanto sanzioni penali nei confronti di chi leda le sue attribuzioni36, ma gli fornisce gli strumenti necessari per adempiere alla sua funzione in modo efficace: il r.l.s. infatti il diritto ad una "formazione particolare ... concernente la normativa in materia di salute e sicurezza e i rischi specifici esistenti nel proprio ambito di rappresentanza, tale da assicurargli adeguate nozioni sulle principali tecniche di controllo e prevenzione dei rischi stessi", comunque non inferiore a quella garantita a tutti gli altri lavoratori; solo infatti un soggetto sufficientemente preparato può svolgere in modo adeguato un ruolo così delicato37. Non viene però precisato su chi ricada l'obbligo della formazione38: si può escludere certamente che possa gravare sullo stesso r.l.s.39. Il decreto interministeriale 16 gennaio 199740 detta i contenuti minimi di tale formazione, elencando le materie su cui essa dovrà vertere; viene poi riconosciuta alla contrattazione collettiva nazionale di categoria la possibilità di stabilire le modalità ed i contenuti specifici41.

L'esercizio delle attribuzioni di cui é investito il rappresentante per la sicurezza deve avvenire senza perdita di retribuzione, in conformità al principio generale per il quale le misure di tutela attuate dal datore di lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori; il r.l.s., così prevede l’art.19 comma 2, deve disporre del tempo necessario allo svolgimento dell’incarico42. L'accordo interconfederale precisa poi che il r.l.s. deve disporre di un monte-ore annuo di 40 ore ulteriore rispetto a quello a cui ha diritto come componente della R.s.u., per l'espletamento dei compiti di cui all'art. 1943 44.

Il r.l.s. deve inoltre disporre dei mezzi necessari per l'esercizio delle sue funzioni45.

Il d.lgs. n° 626 stabilisce anche che "il rappresentante non può subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività" e che "nei suoi confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali"46.

Rispetto a questa disposizione nascono alcuni problemi interpretativi, dal momento che essa é priva dei necessari elementi di collegamento con il titolo III del Statuto dei lavoratori a cui rinvia47: la dottrina prevalente ritiene innanzitutto che il riferimento alle "rappresentanze sindacali" sia da intendere in realtà ai dirigenti delle r.s.a., poiché solo per tali soggetti sono previste forme particolari di tutela. Di conseguenza il r.l.s. ha diritto a permessi retribuiti per l'espletamento del suo mandato e a permessi non retribuiti per partecipare a congressi e convegni relativi all'incarico ricevuto; in caso di trasferimento dall'unità produttiva in cui presta attività lavorativa deve essere richiesto il nulla osta alle associazioni sindacali di appartenenza; in caso di giudizio diretto ad ottenere la loro reintegra nel posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo trova applicazione la particolare procedura cautelare, che consente al Pretore di reintegrare il lavoratore anche a processo non ancora ultimato, quando appaiono irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova addotti dal datore di lavoro48 49.

In relazione alle garanzie in tema di trasferimento e licenziamento si pone il problema di individuare il soggetto legittimato a rilasciare il nullaosta relativo, nel caso in cui il r.l.s. non appartenga ad alcuna organizzazione sindacale: su questo punto l'opinione prevalente in dottrina, confermata dall'unica sentenza emanata finora sul tema, ritiene che il soggetto legittimato é una delle organizzazioni sindacali che tramite la contrattazione collettiva, abbiano adempiuto alle funzioni previste dall'art. 18 comma 450.

Inoltre in caso di ostacolo da parte del datore di lavoro all'esercizio dell'attività del r.l.s. é stata in alcuni casi riconosciuta a quest'ultimo, in considerazione del carattere sindacale, nel senso lato di attività corrispondente ad interessi collettivi, delle sue funzioni, la possibilità di far ricorso alla procedura ex art. 28 Stat.lav.51.

 

 

9.3 RESPONSABILITA' DEL R.L.S. SUL PIANO DISCIPLINARE, CIVILE E PENALE

Dall'analisi dell'art. 18 compiuta in precedenza, si può notare come l'ambito delle funzioni assegnate alla figura in esame sia ampio; il r.l.s. é dotato di notevoli poteri: egli, in sintonia con il nuovo modello di gestione delle problematiche relative alla sicurezza del lavoro introdotto con il d.lgs. n° 626, a fondamento del quale vi é il coinvolgimento e la collaborazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, é chiamato a partecipare attivamente all'attuazione delle principali prescrizioni di legge; é anch'egli artefice del sistema aziendale di sicurezza ed al contempo garante della sua conformità ai livelli prefigurati dal legislatore. Tuttavia tale partecipazione non si traduce in una forma di codecisione: ciò trova conferma nel fatto che, a differenza di quanto é previsto per altri soggetti chiamati a realizzazione dell'obiettivo della salute dei lavoratori, nessuna sanzione penale o amministrativa é stabilita nei suoi confronti, in relazione ad eventuali ipotesi di violazione o inadempimento dei doveri connessi alle funzioni che gli sono attribuite. Su questa scelta del legislatore la dottrina é divisa: da parte di alcuni autori si sottolinea come vi sia il rischio che si crei una zona franca che potrebbe dar luogo a comportamenti arbitrari52; la dottrina prevalente ritiene invece opportuna la scelta operata nel d.lgs. n° 626 perché in caso contrario si scoraggerebbe l'assunzione di tale incarico e anche per il fatto che perfino la consultazione, che rappresenta la forma più avanzata di partecipazione prevista dal decreto legislativo, implica comunque che la decisione finale e quindi la relativa responsabilità spetti al datore di lavoro53.

Anche se non sono state previste, a carico del r.l.s., sanzioni penali e amministrative, non é totalmente immune, in caso di non corretto svolgimento dei suoi compiti, da ogni conseguenza: innanzitutto é responsabile su un piano più generale, politico e morale, nei confronti dei lavoratori e degli altri soggetti coinvolti nella prevenzione degli infortuni: il suo operato é quindi sanzionabile dalla collettività nel cui interesse opera attraverso la revoca del mandato conferitogli. E' inoltre responsabile in caso di dolo, cioé quando intenzionalmente induca in errore il datore di lavoro, in ordine ad esempio alla valutazione dei rischi, nonché nel caso in cui violi uno degli obblighi, specificatamente sanzionati dal decreto, che gravano in linea generale sui lavoratori54.

Un ulteriore caso in cui viene pacificamente affermata la responsabilità dei r.l.s. é contemplato dall'art. 9 comma 3 in cui si afferma esplicitamente che "sono tenuti al segreto in ordine ai processi lavorativi di cui vengano a conoscenza nell'esercizio delle funzioni di cui al presente decreto"; questo principio viene ribadito nell'Accordo interconfederale del 22 giugno 1995 in cui si precisa che il r.l.s., ricevute le notizie e la documentazione, é tenuto a farne un uso strettamente connesso alla sua funzione, nel rispetto del segreto industriale. Infatti nei suoi controlli ed indagini, oltre a dover rispettare le esigenze produttive della singola azienda in cui opera55, é tenuto a mantenere la massima riservatezza in relazione alle informazioni di cui sia venuto a conoscenza56. Il confine tra dovere di riservatezza e di diritto di informarsi ed informare non può peraltro essere fissato a priori, una volta per tutte, rappresentando il frutto di un contemperamento di interessi, entrambi costituzionalmente protetti, che dovrà essere compiuto in relazione alle singole fattispecie; il riferimento ai processi lavorativi deve essere interpretato in senso restrittivo poiché la ratio della norma é quella di evitare forme di pirateria industriale57; non esiste quindi nessun obbligo al segreto nel caso in cui il r.l.s. venga a conoscenza di notizie la cui occultazione possa causare situazioni di rischio per l'incolumità dei lavoratori o aggravarle58.

Dalla violazione della norma in esame derivano conseguenze, oltre che sul piano disciplinare, su quello civile e penale: non solo il datore di lavoro eventualmente danneggiato potrà esperire l'azione di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., ma nei confronti del lavoratore potranno essere applicate, nel caso in cui si configurino i reati di rivelazione del contenuto di documenti segreti ex art. 621 c.p., di segreto professionale ex art. 622 c.p., di segreti scientifici e industriali ex art 623 c.p., le relative sanzioni penali.

Il completamento della disciplina dettata nelle sue linee generali dal d.lgs. n° 626 da parte della contrattazione collettiva ha portato a compimento il progetto del legislatore, collegando i r.l.s. alle nuove strutture sindacali in azienda, le r.s.u.: Gli accordi interconfederali vanno al di là di quanto previsto nel decreto: mentre questo sembra cercare un equilibrio tra una legittimazione dal basso, cioè tramite elezione da parte dei lavoratori ed il contemporaneo collegamento alle strutture sindacali in azienda, nella contrattazione collettiva si privilegia il rapporto con le rappresentanze sindacali; infatti nel caso in cui le r.s.u. siano già costituite saranno i componenti di queste ultime a designare al loro interno i r.l.s..

Questa soluzione é stata criticata sulla base di argomentazioni di natura diversa: i ruoli di r.l.s. e di rappresentante sindacale devono rimanere distinti, ricercando però tra le due figure forme di collaborazione, evitando così il rischio, da alcuni paventato, di creazione di organismi paralleli di rappresentanza in possibile competizione tra di loro59. Il rappresentante per la sicurezza svolge un ruolo fondamentale per la tutela dei lavoratori sia come loro punto di riferimento nei rapporti con il datore di lavoro, sia come garante della qualità degli accordi sindacali in materia di prevenzione degli infortuni, in rapporto anche dialettico con la rappresentanza sindacale in azienda, in grado di respingere, in tempi di crisi occupazionale, le tentazioni di un ritorno a forme di monetizzazione della salute, di indennizzo quindi per attività svolte in condizioni pericolose60 . Si sottolinea quindi come "l'assorbimento anche quantitativo" dei r.l.s. nelle r.s.u. possa comportare ulteriori conseguenze negative: l'importanza della funzione riconosciuta dal d.lgs. n° 626 ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza nel quadro generale del nuovo assetto della prevenzione in azienda sembra richiedere che questi abbiano una competenza speciale; essi quindi dovrebbero possedere oltre ad una competenza specifica sulla materia anche una competenza esclusiva sulla stessa; essi quindi non dovrebbero svolgere le altre funzioni che sono proprie del rappresentante sindacale61. La compresenza di funzioni diverse in capo allo stesso soggetto comporta infatti sia il rischio che non possa essere da lui raggiunta un'adeguata specializzazione, data anche la complessità dei compiti che gravano su di lui nella sua veste di r.l.s., sia che non abbia il tempo sufficiente per svolgere in modo adeguato il suo delicato ruolo di "garante" della sicurezza dei lavoratori62. Il quadro é ulteriormente complicato dal fatto che il comportamento del rappresentante sindacale é caratterizzato da una logica d'azione diversa da quella che deve contraddistinguere il r.l.s.: il buon funzionamento del sistema delineato dal d.lgs. n° 626 essendo inscindibilmente collegato all'affermazione di prassi partecipative nella gestione della sicurezza in azienda non potrebbe essere assicurato da un soggetto la cui azione é caratterizzata da un'ottica conflittuale e compromissoria; il raggiungimento di una sicurezza del lavoro, che é tale in quanto é "partecipata" trova un ostacolo nell'identificazione tra il r.l.s. e rappresentante sindacale, e nella relativa sovrapposizione dei ruoli63.

 

 

10. IL MEDICO COMPETENTE: LA NOZIONE

Il medico competente é una figura non certo nuova per il nostro ordinamento, ma che viene ora compiutamente definita, acquistando una particolare rilevanza nel quadro della "globalizzazione dell'intervento prevenzionale". Il d.lgs. n° 626/94 infatti ridefinisce la figura e le funzioni di questo soggetto, al quale é affidata innanzitutto la sorveglianza sanitaria in azienda: le nuove disposizioni tendono sostanzialmente a riordinare il quadro normativo preesistente, che generava non pochi dubbi interpretativi, soprattutto a causa del succedersi di interventi legislativi il cui coordinamento non si presentava agevole1.

Infatti il decreto n° 626, che ricomprende tra i soggetti obbligati ai fini prevenzionistici anche il medico competente, fissando a carico di questo precise responsabilità di rilievo penale, non costituisce in questa parte un'autentica novità per il panorama legislativo italiano: varie leggi nell'ambito della materia dell'igiene e sicurezza del lavoro fanno riferimento a quello che di volta in volta viene definito "medico di fabbrica", "medico competente", "medico autorizzato", "presidio sanitario"... . Buona parte di tali leggi, specialmente quelle meno recenti, si limitavano a prevedere che il medico svolga determinati incombenze senza disciplinare in modo organico le sue funzioni e senza precisare in quale branca della medicina dovesse avere una competenza specifica.

Nell'art. 33 del d.p.r. n° 303/56, contenente norme generali per l'igiene del lavoro, veniva sanzionato l'obbligo2 per il datore di lavoro di sottoporre i lavoratori addetti a "lavorazioni industriali che espongono all'azione di sostanze tossiche o infettanti o che risultano comunque nocive", il cui elenco é contenuto nella tabella allegata al decreto, a visite mediche periodiche3: veniva inoltre disposto che le visite in oggetto fossero effettuate da un medico competente senza però dare alcuna indicazione in ordine ai requisiti professionali che tale figura avrebbe dovuto possedere per ricoprire tale delicato incarico4; in assenza dunque di una definizione della figura si lasciava alla discrezionalità dell'imprenditore l'individuazione in concreto del medico competente. Nella vigenza del d.p.r. n° 303 e fino alla fine degli anni '60 il datore di lavoro, in base ai principi generali concernenti il rapporto subordinato ed in conseguenza della necessità di assicurare il buon andamento dell'impresa, aveva inoltre l'incondizionata facoltà di far controllare dai propri servizi medici interni all'azienda o comunque da un medico di fiducia lo stato di salute dei lavoratori dipendenti non esposti a rischi specifici, sia in caso di presumibile o dichiarata malattia, sia per ogni altro scopo, compreso quello del licenziamento per sopravvenuta inidoneità generica o specifica.

Si diffonde in questi anni la figura comunemente definita come "medico di fabbrica": si tratta di un soggetto alle dipendenze dell'imprenditore, un suo collaboratore quindi, il quale esercitando contemporaneamente funzioni di prevenzione a tutela dei lavoratori e funzioni di controllo a tutela di interessi imprenditoriali, faceva dubitare della sua imparzialità rispetto alla stessa sorveglianza sanitaria5.

Il quadro normativo é però divenuto alquanto complesso a seguito dell'emanazione dello Statuto dei lavoratori e della legge di riforma sanitaria: l'art. 5 St.lav. stabilisce che "sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sull'infermità per malattia e infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha la facoltà di far controllare l'idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico".

L'art. 14 della l. 23 dicembre 1978 n° 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, ha poi ha attribuito alle unità sanitarie locali la competenza in tema di igiene del lavoro e di prevenzione di infortuni e malattie professionali precedentemente assegnata agli ispettori del lavoro.

L'art. 5 St.lav. é stato interpretato, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza in modo non univoco: infatti in un primo tempo la Corte di Cassazione in due sentenze, una nel 1978 della sesta sezione penale6, l'altra nel 1980 della terza sezione penale7, aveva affermato che l'articolo in esame non precludeva al datore di lavoro la possibilità di nominare un medico di sua fiducia anche privato, senza dover ricorrere necessariamente alla struttura pubblica. Alcuni anni dopo, in altre due sentenze, questa volta della sezione lavoro, una del 1986, l'altra del 1987, la Corte di Cassazione si é orientata in senso diametralmente opposto, affermando che le visite preventive e periodiche sui lavoratori avrebbero dovuto essere eseguite dalle strutture pubbliche, le UuSsLl8. Il dissidio interpretativo tra la sezione lavoro e le sezioni penali risulta poi in modo palese dalla stessa motivazione della sentenza 20 giugno 1991 n° 6828, emanata dalla terza sezione penale9, in cui si dice che "la norma di cui all'art. 33 d.p.r. n° 303 non é in contrasto con l'art. 5 dello Statuto dei lavoratori. Né possono essere condivise le conclusioni della sentenza di questa stessa Corte, sezione lavoro 21 aprile 1986, secondo cui anche gli accertamenti sanitari obbligatori previsti dall'art. 33 d.p.r. n° 303 sono di competenza esclusiva delle strutture pubbliche. Ciò porterebbe ad escludere la diretta personale responsabilità del datore di lavoro che non sarebbe più perseguibile né penalmente né civilmente sol che dimostri di avere tempestivamente provocato l'intervento della struttura pubblica, in palese contrasto con la giurisprudenza e la dottrina che ha invece sempre ritenuto responsabile delle eventuali conseguenze dannose derivate al dipendente il datore di lavoro che abbia omesso di sottoporre il lavoratore ad adeguato controllo sanitario proprio in considerazione che su di esso grava l'obbligo specifico di provvedere al riguardo".

Ora la dottrina pressoché unanime non solo penalistica, ma anche giuslavoristica, é concorde nel ritenere che a seguito dell'emanazione della l. 20 maggio 1970 n° 300, si debba operare una distinzione tra gli accertamenti sanitari che il datore di lavoro é obbligatoriamente tenuto ad eseguire che restano di competenza del c.d. medico competente, e che quindi possono essere compiuti anche da un medico di fiducia dell'imprenditore, ed invece gli accertamenti disposti discrezionalmente dallo stesso datore di lavoro che devono essere demandati a medici appartenenti a strutture pubbliche10.

L'art. 5 St.lav. infatti elimina soltanto la facoltà del datore di lavoro di far eseguire direttamente da medici di fiducia, nell'esclusivo interesse dell'impresa, accertamenti sanitari sull'idoneità ed infermità dei lavoratori: pur riconoscendo come legittime e giuste le esigenze aziendali sottese a queste visite mediche, impone, per evidenti motivi di imparzialità, che della loro esecuzione vengano incaricati enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico11. L'oggetto giuridico, ossia il bene tutelato dalla norma, nel caso dell'art. 5 St.lav. quindi é la personalità morale del lavoratore; dal momento che, invece, l'oggetto giuridico dell'art. 33 d.p.r. 303/56 é l'integrità psico-fisica del lavoratore ed indirettamente dei suoi colleghi, i campi di applicazione delle due norme sono diversi. Dunque l'art. 5 St.lav. incide, escludendola, solo su quella facoltà prima riconosciuta al datore di lavoro di far eseguire visite mediche sui propri dipendenti da parte del proprio medico al di fuori di quei casi in cui é la legge stessa a prescrivere tale adempimento come obbligatorio.

In un contesto normativo che, come abbiamo visto, si presentava già come abbastanza confuso é intervenuto il d.lgs. 15 agosto 1991 n° 277, relativo alla protezione dei lavoratori dai rischi derivanti da esposizione a piombo, amianto e rumore, che all'art. 3 lett. c prevede che la sorveglianza sanitaria obbligatoria sia espletata "ove possibile" dalle strutture del servizio sanitario nazionale. Ai sensi dunque del citato art. 3 il datore di lavoro dovrà affidare l'incarico possibilmente ad un medico che oltre ad essere in possesso di un determinato titolo compreso tra quelli elencati, per la prima volta in modo preciso, dal legislatore sia un dipendente del servizio sanitario nazionale. L'espressione "ove possibile" é stato oggetto di interpretazioni più o meno estensive da parte della dottrina12; comunque il fatto stesso che il legislatore l'abbia utilizzata comporta due effetti su cui nessuno discute13 : da un lato in tal modo si é implicitamente riconosciuto diritto di cittadinanza in materia alla figura del c.d. medico di fabbrica, dall'altro, se si legge questa disposizione insieme a quella serie di provvedimenti legislativi che hanno un qualche collegamento con tale figura, non si può non derivare l'impressione che la possibilità per il datore di lavoro di farvi ricorso fosse ridotta, nella vigenza del d.lgs. n° 277/91, ai minimi termini14. Vi era una netta preferenza per "il medico pubblico"15.

Su questo frastagliato panorama legislativo é da ultimo intervenuto il d.lgs. n° 626/94: sebbene la direttiva-quadro n° 391/89 non contenga alcun riferimento esplicito alla figura del medico competente, viene dedicato a questo "nuovo" soggetto grande rilievo da parte del recente decreto16: ad esso viene infatti riconosciuto un ruolo centrale nel sistema complessivo della prevenzione sul lavoro. Gli articoli 16 e 17 del decreto ampliano la scarna definizione di controllo sanitario contenuta nell'art. 14 della direttiva, che rimanda a misure stabilite conformemente alle prassi nazionali.

Il d.lgs. n° 626 dà una definizione di questo soggetto in parte diversa e comunque più precisa di quelle già contenute in precedenti normative: la portata generale di tale norma fa si che ad essa debba necessariamente farsi riferimento ogni volta che una qualche forma di sorveglianza sanitaria é prevista dalla legislazione in materia di sicurezza ed igiene del lavoro17; in precedenza si era in presenza di una pluralità di nozioni, tra loro non coordinate, di medico competente in conseguenza di un fenomeno di confusa stratificazione normativa che aveva portato, come risultato, alla definizione di una pluralità di aree di intervento, alla quale corrispondeva un diverso profilo professionale, più o meno facilmente individuabile.

L'art. 2 lett. d qualifica come medico competente "il medico in possesso di uno seguenti titoli:

1) specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia ed igiene del lavoro o in clinica del lavoro ed altre specializzazioni individuate, ove necessario, con decreto del Ministero della sanità di concerto con il Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica;

2) docenza o libera docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia ed igiene del lavoro;

3) autorizzazione di cui all'art. 55 del decreto legislativo 15 agosto 1991 n° 277"18.

In base a tale disposizione quindi sono abilitati allo svolgimento delle funzioni che competono al medico competente i soggetti in possesso di determinati titoli: si tratta degli stessi titoli indicati dalla normativa precedente, ai quali si aggiungono espressamente le specializzazioni in igiene industriali o in fisiologia ed igiene del lavoro o in clinica del lavoro. Un'altra differenza sul punto tra la disposizione contenuta nel decreto in commento e quella del d.lgs. n° 277/91 consiste nell'eliminazione del ricorso all'eliminazione del ricorso alla nozione di specializzazione equipollente: al riguardo il d.lgs. n° 626, a seguito della modifica apportata dall'art. 2 d.lgs. n° 242, fa riferimento ad altre specializzazioni individuate "ove necessario" con decreto del Ministero della sanità di concerto con quello dell'università: si é in questo modo voluto evitare un giudizio di equipollenza tra le specializzazioni, rispetto al quale non era neppure chiaro quale fosse il soggetto chiamato ad esprimerlo18 bis.

La differenza più profonda tra i due provvedimenti é quella relativa all'eventuale appartenenza del medico ad una struttura pubblica: dall'inciso "ove possibile", contenuto nell'art. 3 d.lgs. n° 277, dal quale si poteva ricavare la chiara opzione del legislatore per una presenza imparziale garantita dal rapporto d'impiego con una struttura pubblica, il servizio sanitario nazionale, si é passati alla previsione di una facoltà alternativa di scelta, fruibile ad libitum dal datore di lavoro, che consente di far rivivere la vecchia figura del "medico competente" ante statuto dei lavoratori.

Il medico competente, in base al 5° comma dell'art. 17, può "svolgere la propria attività in qualità di:

a) dipendente da una struttura esterna pubblica o privata convenzionata con l'imprenditore per lo svolgimento dei compiti di cui al presente capo19;

b) libero professionista20;

c) dipendente del datore di lavoro".

Il datore di lavoro ed il medico competente possono dunque autonomamente stabilire la natura del rapporto di lavoro. La norma in esame infatti prevede tre diverse tipologie di medico competente a cui corrispondono tre diversi rapporti di lavoro: nel caso previsto dalla lett. a si ha un'azienda di servizi pubblica o privata, che in base ad un preciso accordo offre all'imprenditore le prestazioni dei propri dipendenti; nell'ipotesi di cui alla lett. b si instaura un rapporto di lavoro autonomo o collaborazione tra il datore di lavoro ed il medico; nel caso contemplato nella lett. c il medico fa parte dell'organico dell'azienda. Spesso la società di servizi si accorda con il datore di lavoro al fine di svolgere i compiti di sorveglianza sanitaria e poi stipula delle convenzioni con altri soggetti per lo svolgimento in concreto dei suddetti compiti: dal momento che tale ipotesi non é però contemplata dalla norma in esame non dovrebbe essere più ammessa.

La scelta compiuta dal legislatore italiano é d'altronde conforme a quanto previsto dall'art. 14 comma 3 della direttiva Ce(e), che prevede: "il controllo sanitario può far parte di un sistema sanitario nazionale": tale disposizione non ha affermato una prelazione od un'esclusiva del servizio pubblico in questo campo, ma ha permesso una tale ipotesi volendo salvaguardare il mantenimento dello status quo ante negli Stati in cui era presente tale soluzione; quando l'art. 14 parla di servizio sanitario nazionale non si riferisce infatti esclusivamente ad un servizio pubblico, potendo il servizio nazionale essere di natura privata. La direttiva dunque introduce in quegli Stati in cui non era presente la possibilità per il datore di lavoro di scegliere il medico competente tra i sanitari in possesso di determinati requisiti professionali, senza quindi compiere opzioni preferenziali20 bis.

L'unica limitazione alla designazione del medico competente é quella individuata dal comma 7 dell'art. 17, che impedisce al medico dipendente da una struttura pubblica di svolgere l'attività di medico competente qualora la struttura alla quale egli appartiene sia chiamata a svolgere attività di vigilanza. Nel testo é stato soppresso ad opera del d.lgs. n° 242/96 il riferimento alla lettera a) del comma 5 dell'art. 17, presente invece nella precedente formulazione: ciò comporta per il dipendente di una struttura pubblica che esplichi attività di vigilanza un divieto generale di svolgere l'attività di medico competente, anche qualora operi come libero professionista.

Non vi é accordo in dottrina sulla legittimità o meno dell'esercizio dei compiti di medico competente da parte del dipendente di un organo di vigilanza in un ambito territoriale diverso da quello di sua competenza a fini ispettivi. La tesi dell'incompatibilità assoluta tra funzioni di vigilanza e di consulenza viene sostenuta da parte di chi, oltre a sottolineare come possano rendersi necessarie indagini anche al di fuori dell'ambito territoriale in cui si esercita il controllo, attribuisce peso decisivo al dato letterale: il testo della legge nello stabilire il divieto usa l'espressione "qualora" e non "laddove" si esplichi l'attività di vigilanza21.

Ciò trova giustificazione nella volontà di tener distinte le funzioni di sorveglianza sanitaria da quelle di controllo sulla stessa; questa preoccupazione comporta però, in concreto, l'impossibilità di designare come medico competente un dipendente dell'USL che svolga attività di vigilanza.

Inoltre le funzioni di medico competente possono essere svolte anche da un professionista legato da un rapporto parasubordinato di convenzione, ad esempio con l'Inail e specialista nella branca della medicina del lavoro, sempre che non svolga compiti di vigilanza, altrimenti vi sarebbe una causa di incompatibilità22.

Occorre chiarire in quali casi é obbligatoria la presenza del "medico competente": per individuare le mansioni a rischio per le quali é prevista la sorveglianza sanitaria é necessario rifarsi, in base a quanto prevede il 1° comma dell'art. 16, ai casi previsti dalla normativa previgente. Essi sono:

a) casi di cui all'art. 33 d.p.r. 303/56;

b) lavorazioni che comportano esposizione a piombo, amianto e rumore secondo gli articoli 1 e 7 del d.lgs. n° 277/91;
c) casi di cui all'art. 34 d.p.r. 303/56, ossia le lavorazioni per le quali é obbligatoria l'assistenza obbligatoria l'assistenza contro le malattie professionali incluse nella tabella approvata con d.p.r. n° 1124/65, da ultimo modificata dal d.p.r. 13 aprile 1994 n° 336, se tali lavorazioni a giudizio dell'organo ispettivo risultino pregiudizievoli per la salute dei lavoratori addetti;

d) lavorazioni comportanti rischi di cui ai titoli V, VI, VII, VIII del d.lgs. 626/94, relativi rispettivamente ai movimentazione manuale dei carichi, uso di attrezzature munite di videoterminali, protezione da agenti cancerogeni e da agenti chimici23 .

L'art. 4 comma 4 lett. c prevede, a carico del datore di lavoro, l'obbligo di nominare il medico competente: l'adempimento di quest'obbligo rientra tra quelli delegabili da parte del datore di lavoro, qualora sussistano i presupposti oggettivi e soggettivi per l'ammissibilità della delega di funzioni.

 

 

10.1 ATTRIBUZIONI E RESPONSABILITA’ DI QUESTO GARANTE DELLA SICUREZZA IN AZIENDA

Il medico competente é considerato un collaboratore necessario del datore di lavoro per l'espletamento innanzitutto dell'obbligo di sorveglianza sanitaria: l'art. 16 precisa che il controllo sanitario dei lavoratori si scinde in due momenti essenziali, quello costituito dagli accertamenti preventivi, finalizzati alla verifica dell'idoneità alla mansione specifica a cui il lavoratore é destinato, e quello successivo, che si sostanzia in visite periodiche anch'esse mirate al controllo dello stato di salute dei lavoratori ed alla formulazione del giudizio in ordine al permanere o meno di tale idoneità specifica24. Se il dipendente é giudicato idoneo potrà svolgere regolarmente l'attività prevista; nel caso invece di idoneità parziale il lavoratore potrà svolgere l'attività a cui stato destinato solo se vengono rispettate determinate condizioni di tutela. In caso di non idoneità, non potendo il lavoratore essere adibito alle mansioni a rischio, il medico competente dovrà fornire indicazioni sulle possibilità d'impiego del lavoratore e dovrà darne comunicazione al datore di lavoro e al lavoratore interessato25.

Le attribuzioni del medico competente sono ben più ampie di quelle indicate nell'art. 16: l'art 17 gli assegna varie funzioni, tanto da farlo diventare il principale consulente del datore di lavoro in tutta la materia sanitaria, ma non solo; gli viene attribuito un ruolo attivo di collaborazione con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione in materia antinfortunistica.

Il medico competente infatti:

a) collabora con i due soggetti da ultimo citati nella "predisposizione dell'attuazione delle misure per la tutela della salute e dell'integrità psico-fisica dei lavoratori";

b) istituisce ed aggiorna per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria una cartella sanitaria e di rischio ed informa i lavoratori sia sul significato degli accertamenti cui sono sottoposti sia sull'esito degli stessi26;

c) partecipa alle riunioni periodiche di cui all'art. 11;

d) visita, almeno due volte all'anno, i locali di lavoro27 e partecipa alla programmazione del controllo dell'esposizione dei lavoratori28;

e) collabora con il datore di lavoro alla predisposizione dei servizi di pronto soccorso;

f) collabora all'attività di informazione e formazione in materia di salute e sicurezza;

g) effettua visite mediche su richiesta del lavoratore qualora tali visite siano connesse all’esistenza di rischi professionali29.

Il medico competente non é quindi da considerare un semplice collaboratore del datore di lavoro: egli infatti é chiamato a svolgere un ruolo autonomo e distinto da quello del datore di lavoro, dotato di obblighi propri, sanzionati penalmente e dei quali é tenuto a rispondere sia verso l'azienda che verso la collettività; tale figura può essere collocata a metà strada tra linea operativa e la linea consultiva.

Pur essendo legato all'impresa da un rapporto di natura privatistica svolge una funzione con valenza pubblicistica: ha un ruolo molto importante che non si esaurisce nella mera valutazione degli aspetti sanitari, ma si inserisce in una strategia complessiva a carattere globale di prevenzione degli infortuni. Tutto ciò imporrebbe la massima imparzialità nello svolgimento di questa delicata attività: il medico deve infatti operare non nell'interesse di una parte, e tanto meno del debitore della sicurezza nell'ambiente di lavoro, ma per la migliore realizzazione della tutela della salute dei lavoratori. La dottrina ha avanzato forti dubbi sull'opportunità di prevedere la designazione, quale medico competente, di soggetti estranei alle strutture pubbliche o addirittura dipendenti del datore di lavoro30: si tratta di una scelta legislativa che non offre sicure garanzie di imparzialità, trasparenza e credibilità nella gestione complessiva delle articolate funzioni che vengono attribuite a questa figura. Vi é dunque il rischio che questo nuovo soggetto venga utilizzato dal datore di lavoro per un fine diverso da quello che aveva spinto il legislatore comunitario a raccomandarne l'adozione: il complesso iter procedimentale, in cui questa figura si inserisce, persegue infatti, in particolare, l'obiettivo di garantire la serietà della programmazione della prevenzione e, oltre ad un controllo effettivo dei lavoratori sulle condizioni di sicurezza, la possibilità per il datore di lavoro di avvalersi di soggetti qualificati nell'elaborazione del programma di prevenzione31. Il medico competente, così come il servizio di prevenzione, potrebbe invece essere sfruttati dal capo dell'impresa, come consulenti ed esperti tecnici, per far fronte ai propri obblighi in un rapporto dialettico e conflittuale con il sindacato, impersonato all'interno dell'azienda dal rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, frustrando così lo spirito della direttiva comunitaria. Unico freno a questa possibile degenerazione é costituito dalla previsione di sanzioni penali a carico del medico in caso di mancato adempimento dei propri compiti32: il decreto legislativo n° 626/94 ribadisce infatti il principio, introdotto dal d.lgs. n° 277/91, della responsabilità penale di tale soggetto

Il medico competente infatti, oltre ad essere eventualmente responsabile ex art. 622 c.p.32 bis per violazione del segreto professionale, nel caso in cui riveli a terzi ciò di cui sia venuto a conoscenza nell'esercizio delle sue funzioni, in primis le notizie contenute nella cartella sanitaria e di rischio che egli deve custodire e tener aggiornata32 ter, può essere punito con l'arresto fino a due mesi o con l'ammenda da lire un milione a lire sei milioni per la violazione degli articoli 17 comma 1 lett. b), d), h) e l), 69 comma 4, 86 comma 2 bis, con l'arresto fino ad un mese o con l'ammenda da lire cinquecentomila a lire tre milioni per la violazione degli articoli 17 comma 1 lett. e), f), g) ed i), nonché del comma 3. Il medico competente è quindi penalmente responsabile in caso di inottemperanza ai precisi obblighi che la normativa antinfortunistica fa gravare su di lui: é infatti destinatario di specifiche fattispecie contravvenzionali previste nel d.lgs. n° 626/94.

In connessione all'attività del medico sorgono obblighi anche a carico di altri soggetti: il datore di lavoro, il dirigente o il preposto devono "richiedere l'osservanza" da parte del sanitario degli obblighi previsti a suo carico dal decreto, "informandolo inoltre sui processi e sui rischi inerenti all'attività produttiva"33: ciò sottolinea il ruolo di garanzia di questi ultimi soggetti sull'operato del medico, del quale sono chiamati a rispondere anche penalmente34.

Quando il medico competente é dipendente del datore di lavoro, quest'ultimo deve fornirgli i mezzi e gli deve assicurare le condizioni necessarie per lo svolgimento dei suoi compiti; il datore di lavoro deve inoltre sopportare gli oneri economici derivanti dalla collaborazione di medici specialisti, peraltro da lui scelti, di cui il medico competente può avvalersi per motivate ragioni35.

D'altro canto i lavoratori non possono, senza giustificato motivo, rifiutare di sottoporsi ai controlli sanitari: in tal caso incorrerebbero in sanzioni penali e disciplinari36.

Occorre ora chiarire una problematica connessa all'esercizio da parte del medico competente della sua funzione di sorveglianza sanitaria. Egli deve infatti, in base agli articoli 16 e 17, accertare precedentemente all'assunzione, l'assenza di controindicazioni per i lavoratori in relazione alle mansioni a cui saranno assegnati e deve inoltre verificare, a cadenza periodica, lo stato di salute ed esprimere quindi un giudizio sulla perdurante idoneità del lavoratore alla mansione specifica: entrambe le previsioni si collegano alle lettere l) e m) dell'art. 3 le quali, rispettivamente prescrivono l'adozione di "controlli sanitari dei lavoratori in funzione di rischi specifici" e "l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione a rischio, per motivi sanitari inerenti la sua persona"37. Il d.lgs. n° 626/94 non tiene nella debita considerazione il fatto che l'allontanamento del lavoratore dalla mansione a cui era adibito a seguito del giudizio del medico competente, confermato in seconda istanza, potrebbe comportare il conseguente licenziamento del lavoratore, ove non esistesse una mansione equivalente a cui assegnarlo.

Nessuno dei due articoli in esame infatti dispone in ordine al problema dell'adizione ad altre mansioni del lavoratore giudicato inidoneo alla mansione specifica. Si pone dunque il problema se sia legittimo lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni, anche inferiori, laddove per motivi sanitari sia riconosciuto inidoneo ai compiti in precedenza svolti: é necessario prendere in considerazione da un lato il fatto che l'art. 13 St.lav.38 stabilisce che "il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali é stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione ...", d'altro lato il fatto che sulla base di una ormai consolidata giurisprudenza, l'inidoneità sopravvenuta allo svolgimento delle mansioni costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento e che in capo al datore di lavoro non grava alcun obbligo di adibire il lavoratore a mansioni diverse39. Altro elemento a cui si deve fare riferimento per risolvere il problema in esame é costituito dall'art. 8 comma 1° e 2° del d.lgs. n° 277/91 che stabilisce espressamente l'obbligo di assegnare il lavoratore, in quanto possibile, ad altro posto di lavoro della stessa azienda, con conservazione della retribuzione precedente e della qualifica originaria qualora sia adibito a mansioni inferiori, nel caso in cui per motivi sanitari, su parere del medico competente, sia temporaneamente allontanato da un'attività comportante l'esposizione ad agente chimico, fisico e biologico40.

Ora la dottrina, considerato l'intero quadro normativo, ritiene legittimo adibire il lavoratore per il quale sia sopravvenuta l'inidoneità alla mansione specifica a mansioni diverse, anche inferiori41: in tale ipotesi la salvaguardia assoluta della posizione professionale del lavoratore verrebbe a scontrarsi con il suo prevalente interesse alla conservazione dell'occupazione42; un eventuale accordo tra datore di lavoro e lavoratore rivolto ad evitare il licenziamento attraverso l'assegnazione di quest'ultimo a mansioni diverse, seppure inferiori, non può infatti considerarsi nullo ex art. 2103 ultimo comma c.c.43.

SEZIONE III

I DESTINATARI DELL’OBBLIGAZIONE DI SICUREZZA NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

1 L'APPLICABILITA' DEL D.LGS. N° 626/94 ALLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E LE DEROGHE ALL'APPLICAZIONE GENERALIZZATA

L'emanazione del d.lgs. n° 626/94 ha portato chiarezza in un campo, quale quello delle pubbliche amministrazioni, che si presentava in precedenza assai complesso e frastagliato. Nella vigenza dei d.p.r. n° 547/55 e n° 303/56 alcune sentenze della Corte di Cassazione avevano negato l'applicabilità dei citati decreti allo Stato e agli altri enti pubblici, facendo leva sul fatto che i titoli II e III del d.p.r. 303 facevano riferimento alle imprese industriali, commerciali ed agricole: in alcune pronunce la Corte di Cassazione aveva indicato che i regolamenti di prevenzione e l'art. 2087 c.c. potevano essere applicati agli enti pubblici solo quando questi si fossero avvalsi dell'opera di lavoratori subordinati per esercitare attività dirette alla produzione di beni o servizi, non quando essi si fossero limitati ad adempiere ai loro compiti istituzionali di natura non economica; comunque, la normativa antinfortunistica, anche se non direttamente applicabile, poteva costituire il fondamento della responsabilità aquiliana, in quanto recepiva principi di comune prudenza ed esperienza1.

In contrasto con questo orientamento, rimasto peraltro minoritario, in numerose occasioni la Suprema Corte aveva sancito l'applicabilità di tutte le disposizioni dei citati decreti a tutte le attività lavorative, prescindendo dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro. Alcune sentenze2 fanno leva sul carattere esplicitamente onnicomprensivo dell'art. 13, altre, pur limitando l'applicabilità della normativa in esame alle aziende industriali, commerciali e agricole, secondo le previsioni dei titoli II e III del decreto n° 303, sanciscono che tali categorie vanno intese nel senso più ampio possibile, comprendendovi quelle attività svolte da enti pubblici che, se fossero esercitate da privati, rientrerebbero nel suo ambito di applicazione4. Altre pronunce, sottolineando la centralità del rapporto di lavoro subordinato quale unico ed esclusivo parametro di riferimento, affermano l'applicabilità della normativa in esame a tutte le attività a cui siano addetti lavoratori subordinati5; si precisa che "la normativa antinfortunistica non attribuisce alcuna rilevanza al carattere di impresa dei datori di lavoro, ma prende in considerazione l'attività svolta dai lavoratori subordinati ed articola la disciplina a seconda delle condizioni e delle modalità in cui tale attività si svolge, nell'ottica di tutela dei lavoratori": quando si fa riferimento ai concetti di azienda industriale o commerciale o agricola non si richiamano automaticamente le corrispondenti categorie proprie del diritto civile e commerciale, ma si ha riguardo al tipo di attività lavorativa che nelle aziende viene svolta, assimilabile a quella dell'azienda industriale e commerciale in senso proprio6.

Questo indirizzo giurisprudenziale decisamente prevalente é stato confermato dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 24 marzo 1995: essa ha posto fine ad ogni possibile contrasto giurisprudenziale, avente ad oggetto la questione dell’applicabilità delle disposizioni dei decreti prevenzionistici allo Stato e agli enti pubblici; anche il dipendente di un ente pubblico non economico, quando svolga attività pericolose, deve esser destinatario della normativa antinfortunistica, alla stregua di qualunque altro lavoratore7. Infatti la finalità della normativa antinfortunistica é la tutela della vita e dell'integrità psico-fisica dei lavoratori: essa quindi non può che essere assicurata a tutte le attività a cui essi siano addetti, a prescindere dalla figura che ricopre il ruolo di datore di lavoro, imprenditore singolo o società, soggetto pubblico o privato8.

Ora dopo l'emanazione del d.lgs. n° 626 non può esservi più alcun dubbio sull'applicabilità della nuova normativa antinfortunistica allo Stato e agli enti pubblici. La direttiva Ce(e) n° 391/89, all'art. 2 comma 1, identifica il suo campo di applicazione in "tutti i settori d'attività privati o pubblici (attività industriali, agricole, commerciali, amministrative, di servizi, educative, culturali, ricreative, ecc.); nel 2° comma la direttiva viene dichiarata non applicabile "quando particolarità inerenti ad alcune attività specifiche nel pubblico impiego, per esempio nelle forze armate o nella polizia, o ad alcune attività specifiche nei servizi di protezione civile vi si oppongono in modo imperativo". Il legislatore, a differenza di quello comunitario, non definisce espressamente il campo di applicazione, ma utilizza l'espressione "tutti i settori di attività privati o pubblici", che é formula più generica, d’altronde corrispondente al carattere onnicomprensivo del decreto legislativo, in cui non vi é alcuna distinzione, se non per particolari obblighi specifici, in relazione alla natura giuridica, alle dimensioni o alla tipologia economica. Pertanto il d.lgs. n° 626/94 si applica anche ai lavoratori alle dipendenze dello Stato e alle altre pubbliche amministrazione; ciò, pur essendo giustificato dal fatto che il bene tutelato, l'integrità psico-fisica, non ammette alcuna discriminazione, ha creato qualche problema: é stato innanzitutto necessario operare una serie di precisazioni, ad esempio in ordine all'individuazione dei soggetti obbligati; inoltre per particolari attività pubbliche si é dovuto introdurre un meccanismo di adattamento alla normativa prevenzionistica.

L'attuazione nel nostro ordinamento della direttiva comunitaria é stata infatti caratterizzata dalla progressiva presa d'atto delle difficoltà che l'automatica applicazione della normativa in materia di igiene e sicurezza del lavoro alle pubbliche amministrazione avrebbe potuto generare: mentre, infatti, l'originaria versione dell'art. 1 comma 2 identificava, richiamandosi pedissequamente alla direttiva, nelle sole "Forze armate e di Polizia e dei servizi di protezione civile" le amministrazioni in ordine alle quali le norme del decreto sarebbero state "applicate tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato e delle attribuzioni loro proprie, individuate con decreto del Ministero competente di concerto con i Ministri del lavoro e della previdenza sociale, della sanità e della Funzione pubblica", l'attuale testo novellato dal d.lgs. n° 242/96 ha notevolmente ampliato il novero delle amministrazioni nelle quali si é ritenuto che le disposizioni del decreto rendano necessario un adattamento. Si tratta delle strutture giudiziarie e penitenziarie, di quelle destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia in ordine e sicurezza pubblica, delle università, degli istituti di istruzione ed educazione di ogni ordine e grado, degli archivi, delle biblioteche, dei musei e delle aree geologiche dello Stato9, delle rappresentanze diplomatiche e consolari e dei mezzi di trasporto aerei e marittimi"10 . Non vi é però differenza tra il campo di applicazione della direttiva comunitaria e quello del d.lgs. n° 626: infatti la prima indica le poche attività a cui essa non si applica, il secondo indica i casi in cui le prescrizioni generali vanno applicate tenendo conto delle "particolari esigenze connesse al servizio espletato".

Dunque il d.lgs. n° 626 si applica, seppur con gli adattamenti di dettaglio richiesti da particolari esigenze di servizio, alle varie amministrazioni pubbliche: ne devono però rimanere inalterate le linee generali e l'applicabilità immediata11.

Tale conclusione a favore dell'applicabilità del nuovo decreto legislativo alle pubbliche amministrazioni viene confermata dall'analisi del testo del provvedimento da cui si possono ricavare vari indici applicativi, diretti e indiretti.

Un primo indice diretto di applicazione del d.lgs. n° 626 al settore pubblico può essere ricavato dall'art. 1 comma 1, in base al quale le misure dettate per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori, in esso contenute, si applicano a tutti i settori di attività pubblici o privati. Un altro indice diretto é contenuto nel art. 2 comma 1 lett. b, che da la definizione di datore di lavoro12: essendo dedicata, nella nuova stesura di questa norma, derivante dal d.lgs. n° 242/96, una parte di essa all'identificazione del datore di lavoro nel settore pubblico viene meno ogni dubbio sull'applicabilità della normativa anche a questo particolare ambito.

Un indice indiretto di riferibilità del d.lgs. n° 626 alle pubbliche amministrazioni é costituito dalla nozione di lavoro, contenuta nel art. 2 comma 1 lett. a: da essa si ricava che il beneficiario della normativa in materia di igiene e sicurezza é il titolare di un rapporto di lavoro subordinato13, anche speciale. E' proprio quest'ultimo riferimento che fa propendere per la tesi dell'applicabilità: infatti é nell'ambito dei rapporti speciali di lavoro che la dottrina giuslavoristica ha da sempre inquadrato il rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazione14; questo orientamento ormai consolidato non sembra essere stato contraddetto, nella sostanza, dal d.lgs. 3 febbraio 1993 n° 29 (Riforma del pubblico impiego): esso, pur non contenendo alcun richiamo, nella sua ultima stesura, alla specialità del rapporto di lavoro pubblico, fa comunque riferimento all'interesse pubblico generale15.

Nella definizione di lavoratore é presente anche un altro indice indiretto di applicabilità: si tratta di quella parte dell'art. 2 in cui vengono equiparati ai lavoratori gli allievi di scuole, università e corsi di formazione professionale; nel caso in cui l'istruzione venga impartita da strutture pubbliche, queste saranno destinatarie, ai fini del d.lgs. n° 626, dell'obbligazione di sicurezza16.

2. IL DATORE DI LAVORO NEL SETTORE DEL PUBBLICO IMPIEGO

Quello che stiamo per esaminare costituisce in dottrina uno dei principali temi di discussione: la nozione di datore di lavoro nella pubblica amministrazione é infatti fonte di svariati dubbi che dipendono sia dalla complessità organizzativa della stessa p.a., che dalla difficoltà di adattare ad essa tipologie e concetti ricavati dal rapporto di lavoro privato.

Anche in questo caso una breve ricostruzione della situazione precedente all'emanazione del d.lgs. n° 626 può agevolare la comprensione della reale portata innovativa del recente provvedimento di recepimento della direttiva Ce(e) n° 391/89. Prima della sua entrata in vigore la figura del datore di lavoro nel settore pubblico, ai fini prevenzionistici, viene identificata tramite l'utilizzo del criterio giurisprudenziale basato sull'effettività dei poteri e delle funzioni esercitate in tema della sicurezza del lavoro. Infatti la giurisprudenza affermava che per il combinato disposto degli articoli 1 e 4 del d.p.r. n° 547/55 sono obbligati ad attuare le misure antinfortunistiche tutti coloro che dirigono e sovrintendono alle attività alle quali siano addetti lavoratori subordinati. comprese quelle esercitate dallo Stato e dagli altri enti pubblici1 e che l'individuazione dei destinatari della normativa antinfortunistica va dunque fatta non tanto in relazione alla qualifica rivestita nell'ambito dell'organizzazione quanto con riguardo alle mansioni esercitate ed alla effettiva conoscenza dei problemi insorti per la sicurezza dei lavoratori2. La Corte di Cassazione applica in più occasioni il principio in questione, ad esempio con riferimento alle Unità sanitarie locali: il presidente della USL non può essere ritenuto responsabile per il solo fatto di rivestire quella carica; infatti nelle pubbliche amministrazioni, così come nelle imprese ad organizzazione complessa, rispetto alle quali indubbie sono le analogie strutturali, occorre far riferimento alla ripartizione interna ed istituzionale delle specifiche competenze; di conseguenza la normativa antinfortunistica deve ritenersi violata dai soggetti preposti al singolo ramo dell'impresa3. Il criterio basato sull'effettività non consente tuttavia, nella maggior parte dei casi, di esimere completamente l'organo di vertice dell'amministrazione dalla responsabilità per la violazione dell'obbligazione di sicurezza: spesso infatti viene affermata la corresponsabilità anche di tale figura accanto a quella degli organi ad essa sottordinati, aventi specifici compiti in materia4; gli può essere addebitata, oltre che la violazioni di specifiche norme a lui dirette5, l'inosservanza degli obblighi di vigilanza6. Questo indirizzo giurisprudenziale é stato ulteriormente approfondito negli ultimi anni: la stessa Corte di Cassazione in una sentenza emanata a sezioni unite ha precisato che in caso di violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro occorre operare una distinzione tra deficienze strutturali che devono essere addebitate al presidente dell'unità sanitari locale e difetti occasionali inerenti all'ordinario buon funzionamento delle strutture che vanno invece riferiti al titolare del servizio tecnico, a cui é attribuita piena autonomia tecnica e funzionale. Dunque per individuare i soggetti penalmente responsabili si deve far riferimento, oltre che al tradizionale criterio delle "funzioni in concreto esercitate, che prevalgono rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia la sua funzione formale", al "criterio dell'oggettività delle carenze riscontrate"7.

Il quadro normativo é stato modificato all'inizio degli anni '90 con l'emanazione della l. 8 giugno 1990 n° 142, sull'ordinamento delle autonomie locali: l'art. 51 opera una chiara distinzione tra responsabilità politiche e responsabilità amministrativa degli organi degli enti locali; la prima viene attribuita agli organi elettivi, sindaco, giunta e consiglio comunale, la responsabilità gestionale invece agli organi amministrativi8. La figura del dirigente compie dunque gli atti di ordinaria gestione amministrativa legati al raggiungimento degli obiettivi fissati dagli organi elettivi, ai quali restano solo funzioni di direzione e controllo. Questa norma ha inciso anche sulla problematica che stiamo affrontando: essa é stata però interpretata dalla Corte di Cassazione in modi differenti nel corso degli anni. Nella prima sentenza che ha affrontato il tema della ripartizione delle responsabilità tra sindaco e dirigenti amministrativi di un Comune alla luce della nuova legge sulle autonomie locali si afferma che la netta divisione tra poteri di indirizzo e controllo spettante al primo e la gestione amministrativa attribuita ai dirigenti di uffici e servizi esclude la responsabilità del sindaco per le violazioni collegate alla correttezza ed efficienza nella loro gestione9.

In una seconda sentenza emanata due anni dopo, invece, la Suprema Corte sembra compiere un passo indietro: in essa si afferma che nel contemplare la responsabilità diretta dei dirigenti-funzionari dell'ente locale non si intende escludere quella del legale rappresentante di tale ente, in quanto le sue altre "responsabilità di natura politica non possono elevarsi a valore di esimenti"10.

Al di là di queste due sentenze appena analizzate si andato consolidando, a partire dalla citata sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione, anche in materia di enti locali, un orientamento giurisprudenziale volto a creare un distinguo tra difetti strutturali ed occasionali11.

Il quadro normativo é stato ulteriormente modificato dal d.lgs. n° 626/94, che, preso atto del fatto che il parametro giurisprudenziale che fa leva sull'effettività, pur essendo un indispensabile punto di riferimento, non é sufficiente ad individuare con precisione, in ambito pubblicistico, la figura del datore di lavoro ai fini prevenzionistici, ne fornisce una definizione che però, al di là dell'apprezzabile intento del legislatore, non riesce a portare chiarezza sul punto12. Infatti l'art. 2 comma 1 lett. b, nella sua originaria versione, qualificava come datore di lavoro nel settore pubblico, così come nel settore privato, il soggetto in capo al quale sussistessero congiuntamente i requisiti della "titolarità del rapporto di lavoro con il dipendente" e quello della "responsabilità dell'impresa o dello stabilimento".

Si riproponevano quindi gli stessi problemi analizzati in precedenza nel paragrafo dedicato al datore di lavoro nel settore privato: unico punto di riferimento era dunque ancora il principio d effettività, in base al quale si ancorava la qualifica al concreto ed effettivo potere di gestione13. Ciò non impediva però che, in alcune occasioni, venisse affermata la responsabilità del rappresentante legale dell'ente pubblico: si ritiene, da parte di alcuni, che si potessero considerare datori di lavoro il ministro per le amministrazioni statali, il sindaco, il presidente della regione o della provincia per gli enti territoriali14.

In questo modo non si teneva nella dovuta considerazione l'innovazione introdotta dall'art. 51 l. n° 142/90 e confermata dall'art. 3 d.lgs. 3 febbraio 1993 n° 29, ossia la distinzione tra attività politica di indirizzo e attività amministrativa di gestione. Infatti in base alla previsione contenuta nell'art. 4 comma 5, che fa riferimento all'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, potrebbe ritenersi che l'introduzione nell'ordinamento delle norme richiamate comportasse che l'organo elettivo-politico dell'ente non dovesse rispondere del mancato rispetto della normativa antinfortunistica.

Da ultimo é stato emanato il d.lgs. n° 242/96: esso ha portato chiarezza in un panorama legislativo che, come abbiamo visto, era alquanto complesso e frastagliato. L'attuale versione dell'art. 2 comma 1 lett. b, contenente la definizione di datore di lavoro, si compone di due parti: la prima parte avente, secondo parte della dottrina, portata generale15, applicabile, secondo altri autori, al solo settore privato16, é stata già analizzata in riferimento al datore di lavoro nelle imprese private; la seconda parte della norma é dedicata specificatamente al datore di lavoro nel settore pubblico per la cui individuazione vengono quindi dettati criteri diversi. Ai sensi del novellato art. 2 deve intendersi datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, quali indicate dall'art. 1 comma 2 d.lgs. n° 29/9317, "il dirigente al quale spettano i poteri di gestione ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale".

Quindi il soggetto che ricopre il ruolo di datore di lavoro ai fini prevenzionistici deve possedere una qualifica dirigenziale: é irrilevante la natura giuridica, privatistica o pubblicistica, del rapporto o il tipo di contratto, a tempo indeterminato o a termine. In particolare gli obblighi prevenzionistici riferiti al datore di lavoro normalmente gravano sul soggetto che si trova all'apice della categoria dirigenziale, cioè in capo al dirigente generale, dal momento che é a questo livello che si esercitano "i poteri di spesa"18; in assenza di tale figura i suddetti obblighi incombono sul "dirigente preposto all'ufficio di più alto livello" della struttura organizzativa19. Non ricoprono invece il ruolo di dirigenti-datori di lavoro i ministri, i sindaci, gli assessori, i presidenti di giunte provinciali e regionali, i rettori delle università o i presidi di facoltà20.

L'art. 2 contempla inoltre un'ipotesi residuale: la qualifica di datore di lavoro può essere infatti ricoperta anche da un funzionario, in presenza però di un determinato presupposto.

La figura delineata nella prima parte della norma si attaglia perfettamente a quella di dirigente pubblico di cui all'art. 3 d.lgs. n° 29/93, in base al quale infatti ad esso "spetta la gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa, compresa l'adozione di tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo. Essi sono responsabili della gestione e dei relativi risultati".

Non corrisponde, invece, al modello di dirigenza delineato dal d.lgs. n° 29 la nozione di funzionario: essa legittima infatti in via eccezionale un decentramento verso il basso degli obblighi e delle connesse responsabilità20 bis.

Bisogna però tener presente che l'individuazione della figura in esame nelle pubbliche amministrazioni é semplificata dalla disposizione contenuta nell'art. 30 comma 1 d.lgs. n° 242/96: essa prevede che siano "gli organi di direzione politica o comunque di vertice" delle amministrazioni pubbliche a procedere all'individuazione, entro 60° giorni dall'entrata in vigore del d.lgs. n° 242, dei soggetti ai quali riconoscere la qualifica di datore di lavoro ex art 2, tenendo conto dell'"ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività". Il legislatore ha in questo modo conciliato l'esigenza di una definizione a carattere generale, dati i risvolti penalistici della materia e la connessa necessità di certezza del diritto, con quella consistente nel salvaguardare gli specifici assetti organizzativi di ciascuna amministrazione.

Infatti l'art. 51 comma 1 l. n° 142/90, così come l'art. 3 d.lgs. n° 29/93, riserva all'autonomia organizzatoria degli enti locali, mediante l'adozione di specifiche norme di rango regolamentare, in conformità alle norme statutarie, l'organizzazione degli uffici e dei servizi, nonché l'attribuzione delle facoltà gestionali ai dirigenti. E' pertanto in tale ambito di riserva regolamentare che l'amministrazione interessata all'applicazione della citata normativa dovrà provvedere all'individuazione del dirigente o del funzionario-datore di lavoro21.

Nel caso in cui un ente non disponga nel suo organico di figure dirigenziali le funzioni gestionali e amministrative vengono affidate al personale appartenente alle figure massime apicali in esso presenti22.

L'individuazione da parte degli organi di vertice dell'amministrazione come datore di lavoro di un soggetto non in possesso dei requisiti previsti nell'art. 2 d.lgs. n° 626 é contra legem, quindi invalida o inefficace sotto il profilo della responsabilità disciplinare, civile, amministrativa e penale: responsabile dunque sarà il soggetto che, nella specifica organizzazione, abbia i requisiti indicati dalla legge23.

2.1 RESPONSABILITA' PENALE DELL’ORGANO DI DIREZIONE POLITICA DELL’ENTE PUBBLICO

La nuova normativa sembra accogliere quindi l'orientamento dottrinale favorevole all'esonero da ogni responsabilità degli organi di direzione politica delle amministrazioni pubbliche24. Parte della dottrina25 ha invece criticato quella che sembra essere, almeno ad una prima analisi, la scelta del legislatore, che si poneva in contrasto anche con l'orientamento giurisprudenziale prevalente: esso infatti aveva ritenuto inevitabile il coinvolgimento degli organi delle pubbliche amministrazioni competenti in materia di indirizzo politico e di programmazione26.

L'unico punto che sembra in dottrina non essere controverso é l'affermazione della responsabilità dell'organo politico dell'ente pubblico nel caso in cui esso non proceda, ex art 30 comma 1 d.lgs. n° 242, alla nomina, come datore di lavoro, del dirigente o funzionario dotato dei requisiti previsti dall'art. 2 d.lgs. n° 626.

Parte della dottrina si spinge oltre: sottolinea come l'esercizio dei poteri gestionali da parte del dirigente sia strettamente connesso al possesso di una dotazione finanziaria ed al riconoscimento di autonomi poteri di spesa, oltre che di organizzazione delle risorse umane. Dal momento che il dirigente non ha il potere di provvedere autonomamente all'acquisizione delle risorse finanziarie ed é vincolato dai piani di programmazione e di bilancio, in mancanza della disponibilità di denaro necessaria per rispettare la normativa prevenzionistica potrà soltanto e, nello stesso tempo, dovrà sollecitare l'organo politico che ha la possibilità ed é tenuto a provvedere per adeguare l'ambiente di lavoro alle prescrizioni delle leggi in materia di sicurezza. Di conseguenza non si può escludere a priori una corresponsabilità, anche sotto il profilo penale, dell'organo politico che non abbia stanziato in bilancio le somme necessarie per un'adeguata politica di sicurezza in azienda.

Dunque poiché sull'organo politico grava la responsabilità di predisporre le risorse finanziarie necessarie per realizzare le misure di sicurezza imposte dalla legge o previste dal piano di cui all'art. 4 d.lgs. n° 626, il dirigente-datore di lavoro adempie agli obblighi che su di lui incombono per legge allorché abbia predisposto il piano di cui all'art. 4 ed abbia chiaramente indicato priorità e modalità per la graduale attuazione delle misure antinfortunistiche27.

Alla stessa conclusione, l'affermazione della responsabilità penale dell'organo politico, giunge anche quella parte della dottrina che sottolinea come la definizione di datore di lavoro novellata dal d.lgs. n° 242 sembri essere stata dettata appositamente per una particolare tipologia di amministrazione pubblica, le sedi locali delle amministrazioni statali centrali, in cui l'organo di vertice é dotato di idonea qualifica dirigenziale e la lontananza geografica dall'organo politico ministeriale fa propendere per una qualificazione del dirigente locale come datore di lavoro ai fini prevenzionistici.

Si mette in evidenza come invece ciò non si possa verificare nel caso degli enti locali territoriali: di conseguenza in questi ultimi casi l'organo politico potrà assumere la qualifica di datore di lavoro e le connesse responsabilità, nonostante il dettato dell'art. 2 comma 1 lett. b28.

Per quanto riguarda invece i dirigenti-datori di lavoro si sottolinea come il presupposto per l'affermazione della loro responsabilità penale sia la loro autonomia finanziaria: gli organi politici dovranno riconoscere loro un potere di spesa che permetta loro, pur rispettando criteri di economicità, di pagare le eventuali prestazioni di consulenti esterni ed adottare le misure di sicurezza necessarie. In mancanza di questa autonomia finanziaria, che é indice concreto del possesso di un reale potere decisionale, il dirigente-datore di lavoro non potrà essere considerato responsabile per le eventuali violazioni della normativa antinfortunistica.

In questo quadro si inserisce l'art. 4 comma 12, in base al quale "gli obblighi relativi ad interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme e convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tal caso gli obblighi previsti dal presente decreto si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico".

La norma si riferisce a tutti i casi in cui il soggetto che gestisce l'ufficio non abbia anche il potere di compiere quegli interventi strutturali o di manutenzione che sono necessari per applicare le disposizioni in tema di sicurezza del lavoro, in quanto questi interventi spettano ad altri uffici o ad altre amministrazioni.

In questi casi l'obbligo dei dirigenti di cui all'art. 2 lett. b consiste nell'individuare le misure di sicurezza da adottare o quelle che necessitano di un aggiornamento tecnologico e nel segnalare all'amministrazione competente la necessità di predisporle.

In definitiva l'opzione legislativa diverge sensibilmente da quella del settore privato: prefigura infatti una distribuzione capillare delle responsabilità dall'alto verso il basso che può favorire processi di deresponsabilizzazione dei soggetti, che in realtà avrebbero le possibilità di assicurare la sicurezza negli ambienti di lavoro29.

3. LA DIRIGENZA AMMINISTRATIVA: RUOLO E RESPONSABILITA’ NELL’APPLICAZIONE DEL D.LGS. N°626/94

Nel settore delle pubbliche delle amministrazioni, così come nel settore delle imprese private, la nozione di dirigente ai fini prevenzionistici non é stata definita in modo esplicito dal legislatore: occorre quindi ricavarla in via interpretativa. In essa vengono ricomprese innanzitutto le figure dirigenziali di cui all'art. 15 del d.lgs. n° 29/93, quindi i dirigenti generali e i dirigenti1. Bisogna però tener conto del fatto che l'art. 2 d.lgs. n° 626/94, così come modificato dal d.lgs. n° 242/96, equipara al datore di lavoro "il dirigente al quale spettano i poteri di gestione". Poiché tra le linee generali della legge di Riforma del pubblico impiego ritroviamo proprio la valorizzazione delle professionalità, l'effettivo conferimento di poteri di gestione ed una maggiore responsabilizzazione della dirigenza pubblica, sarà difficile tener distinti, in materia di igiene e sicurezza del lavoro, il ruolo di dirigente da quello di datore di lavoro.

Ulteriori problemi derivano dalla presenza, nel settore del pubblico impiego, di figure professionali non classificabili come dirigenti in senso proprio: ci si riferisce in primo luogo ai docenti. Essi vengono dalla dottrina ricompresi tra i dirigenti2: infatti l'art. 2 lett. a) d.lgs. n° 626 assimila ai lavoratori "gli allievi degli istituti di istruzione ed universitari e i partecipanti a corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, macchine, apparecchi e attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici"; di conseguenza non può che gravare anche sugli insegnanti l'obbligo di garantire la sicurezza dei soggetti, che, dalle legge, vengono equiparati ai lavoratori. Lo stesso problema consistente nella dissociazione tra nozione formale e sostanziale di dirigente, fenomeno d'altronde presente anche nel settore privato, si ripresenta in relazione agli organi collocati al vertice di uffici statali periferici, quali ad esempio le Prefetture, i provveditorati agli studi, le Intendenze di finanza: normalmente ad essi viene attribuita la qualifica di dirigente e le stesse prerogative dei dirigenti di pari livello preposti ad uffici ministeriali3. Non é quindi più possibile in sede di configurazione dell'obbligo di sicurezza circoscrivere la nozione di dirigente ai soli soggetti in possesso di una formale qualifica dirigenziale. Anche in questi casi però viene avanzato il dubbio che per quanto riguarda la materia antinfortunistica tali soggetti possano essere qualificati come datori di lavoro ex art. 2 lett. b e quindi gravati delle connesse responsabilità: infatti la dottrina prevalente ritiene che il legislatore, nel redigere l'art. 2 lett. b, abbia preso come modello proprio questa tipologia di pubbliche amministrazioni. In questi casi la sede locale dell'amministrazione statale centrale presenta una caratteristica, la lontananza dall'organo politico, il Ministro competente per materia, che rende assurdo addossare su quest'ultimo la responsabilità per un'eventuale omissione di cautele antinfortunistiche verificatosi nel singolo ufficio locale: ciò é conforme al principio giurisprudenziale dell'inesigibilità della condotta penalmente sanzionata.

In conclusione, nel settore delle pubbliche amministrazioni, non sembra essere configurabile la nozione di dirigente: questa affermazione trova una conferma nel testo del d.lgs. n° 626, in cui si fa espresso riferimento ad una sola categoria di dirigenti, quelli convenzionalmente indicati come datori di lavoro4.

 

 

4 IL PREPOSTO

Anche in relazione al preposto, come nel caso del dirigente, si ripropone il problema se questa figura, connotata da specifiche attribuzioni e responsabilità, possa rivestire analoghe competenze quando opera nell'ambito di una ente pubblico. Da parte di alcuni si sottolinea come nelle pubbliche amministrazioni possano essere individuate figure, quali segretari e impiegati direttivi, che si collocano in posizione intermedia tra dirigenti e lavoratori e che potrebbero essere assimilati al preposto1.

Poiché anche di tale figura il d.lgs. n° 626 non fornisce una definizione, unici punti di riferimento sono l'elaborazione giurisprudenziale formatasi con riferimento al settore privato durante la vigenza del decreti prevenzionistici degli anni '50 e l'elenco dei compiti penalmente sanzionati di cui all'art. 90 d.lgs. n°626. Il preposto è quel dipendente che, in virtù di un diretto ed immediato contatto con l'ambiente di lavoro e le persone che vi prestano la loro opera, esercita compiti di coordinamento e supervisione del lavoro: su di essi gravano obblighi relativi al controllo, alla vigilanza sull'applicazione delle norme di prevenzione e alla connessa informazione e istruzione dei lavoratori; in alcuni casi, nelle situazioni di emergenza, su di questi incombe anche l'obbligo di immediata applicazione di misure di prevenzione.

Dunque il preposto, oltre a compiti di diretto controllo delle modalità esecutive della prestazione lavorativa, è dotato anche di un limitato potere conformativo della stessa alle norme di prevenzione.

Un ulteriore elemento qualificante sembra poi riscontrabile nel possesso di adeguate cognizioni tecniche in materia di sicurezza del lavoro.

In conclusione le figure-tipo di preposto nelle pubbliche amministrazioni sono i capi-ufficio e il capo-servizio, a cui sono attribuite, nella maggior parte dei casi, la VII qualifica, quella di collaboratore.

Anche nel settore pubblico, per quanto riguarda la specifica materia antinfortunistica, la responsabilità del dirigente o del preposto non esclude quella del datore di lavoro: il principio della corresponsabilità infatti deriva dal comma 4-bis dell'art. 1 del d.lgs. n° 626, introdotto dall'art. 1 comma 2 d.lgs. n° 242/96, in base al quale "il datore di lavoro ... e, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze i dirigenti ed i preposti, sono tenuti all'osservanza delle disposizioni del presente decreto"2.

Però anche in relazione alle figure qualificate come preposti deve essere tenuta presente la definizione di datore di lavoro di cui all'art. 2 lett. b: nel caso infatti di preposizione ad un ufficio avente autonomia gestionale la norma identifica il funzionario formalmente privo della qualifica dirigenziale con il datore di lavoro.

 

 

5. IL LAVORATORE

Per quanto riguarda la posizione dei lavoratori come soggetti destinatari dell'obbligazione di sicurezza, ex art. 5 d.lgs. n° 626, non si riscontrano particolari differenze tra lavoro pubblico e privato.

Crea invece maggiori problemi l'ultima parte dell'art. 2 lett. c: in essa vengono equiparati ai lavoratori "gli allievi degli istituti di istruzione ed universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, macchine e apparecchi ed attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici". Il testo della norma non chiarisce infatti se gli allievi degli di istruzione scolastica ed universitaria siano equiparati "tout court" ai lavoratori o se lo siano, come gli allievi di formazione, qualora utilizzino apparecchiature particolari o adoperino agenti nocivi. Sia l'esegesi sintattica della frase sia la constatazione che gli studenti vengono inclusi tra i beneficiari delle prestazioni Inail1 fanno propendere per un'equiparazione piena: gli studenti verrebbero equiparati ai dipendenti dal punto di vista della sicurezza anche qualora siano impegnati in studi umanistici, e non solo tecnico-scientifici2.

 

 

6. IL SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE

Anche i datori di lavoro pubblici devono istituire questa nuova figura, che é stata introdotta dal d.lgs. n° 626/941. L'art. 8, infatti, nel dettare le tre possibili forme in cui può essere organizzato il servizio di prevenzione, gestione diretta da parte del datore di lavoro, servizio interno ed esterno, non distingue tra settore privato e pubblico2: difficilmente però il s.p.p. potrà coincidere con strutture già esistenti nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, poiché tali uffici hanno normalmente compiti di manutenzione ordinaria o straordinaria del patrimonio immobiliare dell'ente stesso, ma non hanno competenze tecnico-scientifiche specifiche in materia di igiene e sicurezza del lavoro. Non sarà facile nemmeno reperire tra i dipendenti di un determinato ente pubblico quei soggetti che posseggano "le capacità necessarie"3 e che dispongano di "adeguata formazione"4. Ancora più problematica sarà l'individuazione di quel soggetto in grado di assumere le funzioni di responsabile del s.p.p.5: deve infatti essere in possesso di attitudini e capacità adeguate6.

La circolare del Ministero del lavoro 17 dicembre 1996 n° 3, preso atto di questa situazione, ha precisato che "ben può operare anche nel caso degli enti locali la facoltà di avvalersi di persone esterne in possesso delle conoscenze professionali necessarie e che a tal fine può essere utilizzato lo strumento normativo previsto dall'art. 7 comma 6 d.lgs. n° 29/93 il quale prevede che per esigenze, cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di comprovata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione".

Occorre ricordare che le uniche amministrazioni obbligate a ad organizzare al loro interno il servizio di prevenzione sono le strutture pubbliche di ricovero e cura7.

Non può dunque che destare perplessità la circolare del Ministero di Grazia e Giustizia 25 marzo 1997 che ha indicato ai Capi dei vari uffici giudiziari, come "soluzione auspicata", quella di nominare il responsabile del s.p.p. tra i dipendenti dei vari uffici.

Un ulteriore aspetto della normativa che disciplina il s.p.p. si presenta in modo diverso nel settore pubblico: la possibilità che il datore di lavoro ha di avvalersi di consulenti esterni per integrare l'azione di prevenzione e protezione8 trova un limite nell'esistenza di precisi vincoli di legge in ordine al conferimento di incarichi esterni, aventi lo scopo di contenere la spesa pubblica: nel caso quindi di carenza all'interno della pubblica amministrazione di soggetti dotati delle competenze tecniche necessarie é forse preferibile affidare in toto il servizio di prevenzione a persone o servizi esterni all'ente9.

 

 

7. IL RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA

Anche questo soggetto non presenta sostanziali differenze rispetto all'omologa figura presente nel settore privato e già analizzata in precedenza1. Anche nel settore della pubblica amministrazione sono stati siglati, in applicazione degli articoli 18, 19 e 20 del d.lgs. n° 626/94, vari accordi sindacali; particolarmente importante é l'accordo-quadro del 7 maggio 19962: esso contiene indicazioni sulla natura dell'elezione, che deve essere effettuata a suffragio universale diretto, a scrutinio segreto e con candidature eventualmente concorrenti, su alcune sue modalità operative, nomina del segretario del seggio, redazione del verbale e sua comunicazione, senza ritardo, al datore di lavoro, nonché sull'elettorato attivo3, che é riservato ai dipendenti non in prova, assunti con contratto a tempo indeterminato o a tempo determinato, purché la durata del contratto consenta la svolgimento del mandato, che é di tre anni.

In funzione di alcune fattispecie particolari che si possono in concreto verificare l'accordo-quadro ha inoltre previsto regole precise4 5.

In relazione allo specifico settore che stiamo ora esaminando nasce un problema particolare: occorre chiarire se i meccanismi di rappresentanza dei lavoratori delineati nell'art. 18 riguardino i soggetti equiparati ai lavoratori in base all'art. 2 comma 1 lett. a. La dottrina non riconosce a questi soggetti il diritto ad un'autonoma rappresentanza: i r.l.s. verranno quindi eletti o designati tra il personale dipendente dall'amministrazione. Si ritiene che militi a favore di questa conclusione, oltre che l'utilizzo nell'art. 18 ult.comma del termine "dipendenti" anziché "lavoratori", il rinvio che in materia l'art. 18 comma 4 effettua alla contrattazione collettiva: infatti il richiamo alla fonte contrattuale impedisce alle categorie "non sindacalizzate-contrattualizzate" di partecipare alla definizione del numero e delle modalità di designazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza6.

 

 

8. IL MEDICO COMPETENTE

Questa nuova figura, la cui disciplina é contenuta negli articoli 16 e 17 d.lgs. n° 626, non si differenzia da quella che ritroviamo nell'ambito delle imprese private1.

Una norma, l'art. 17 ult.comma, assume un particolare rilievo nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, dal momento che proprio le USL sono competenti in ordine all'attività di vigilanza di cui all'art. 23 ss.: in base ad essa "il dipendente di una struttura pubblica non può svolgere l'attività di medico competente ... qualora esplichi attività di vigilanza".

Bisogna ora tener presente il documento elaborato il 5 febbraio 1995 in sede di Conferenza dei Presidenti delle regioni e province autonome, secondo cui "la USL che volesse svolgere tale attività di consulenza dovrebbe pertanto costituire strutture ad hoc non adibite a funzioni di vigilanza oppure ricorrere a medici specialisti convenzionati"2.

Dunque l'articolo in esame trova applicazione sia nel caso in cui i dipendenti di una USL svolgano l'attività di medico competente per privati datori di lavoro sia nel caso in cui esercitino la sorveglianza sanitaria all'interno della stessa USL a cui appartengono3.


 

ALLEGATO I

DICHIARAZIONE DI IDONEITA' DELL'APPALTATORE O PRESTATORE D'OPERA

 

L'appaltatore (o prestatore d'opera) ........................................ dichiara di avere attentatamente esaminato la descrizione, i disegni e gli elaborati tecnici delle opere da compiere e di avere accuratamente ispezionato i luoghi ove l'opera deve essere eseguita e collocata e

 

DICHIARA

 

Sotto la propria responsabilità di essere regolarmente iscritto alla C.C.I.A. e di essere idoneo sotto il profilo tecnico-professionale, anche in relazione alle dimensioni della sua impresa, ai macchinari impiegati e alla sua competenza, a svolgere l'opera commissionata.

La suddetta dichiarazione viene effettuata in adempimento di quanto prescritto dall'art. 7 comma 1 lett. a) D.lgs. 19/9/1994 n° 626.

 

..................... , lì ............ (firma appaltatore)

..................................

 

 

CRITERI PER LA VALUTAZIONE DELL'IDONEITA' TECNICO-PROFESSONALE DELLE IMPRESE APPALTATRICI.

1. INFORMAZIONI ANAGRAFICHE NECESSARIE PER LA VALUTAZIONE

Impresa ...........................................................................

con sede legale in .............................................................

iscritta al Tribunale di ........................................................

iscritta al CCIA di .............................................................

P.IVA ......................... settore ..........................................

2. Informazioni specifiche

Organizzazione aziendale per la prevenzione e protezione dai rischi

Procedure di sicurezza per l'esecuzione dei lavori oggetto dell'appalto

Metodologie e strumenti per il controllo della sicurezza durante l'esecuzione dei lavori oggetto dell'appalto

Protezioni collettive ed individuali utilizzate

Metodologie e strumenti informativi utilizzati

Interventi formativi erogati negli ultumi cinque anni

Programmi formativi da attuare eventualmente per gli specifici lavori oggetto dell'appalto

Andamento degli infortuni e malattie professionali negli ultumi anni di attività

Procedimenti giudiziari in corso

Attrezzature, macchine ed impianti da utilizzare per l'esecuzione dei lavori

Numero di lavoratori presenti giornalmente sul luogo di lavoro

Elenco dei lavori simili eseguiti negli ultimi tre anni e referenze dei committenti

 

 

 

CLAUSULA DI NON INGERENZA DEL COMMITTENTE NELL'ESERCIZIO DELL'OPERA APPALTATA

L'appaltatore (o il prestatore d'opera) .......................................................

DICHIARA

sotto la propria responsabilità che la propria impresa, regolarmente iscritta alla C.C.I.A., avendo svolto in precedenza analoghi lavori, é perfettamente in grado sotto il profilo tecnico-professionale di portare a compimento il lavoro commissionatogli senza alcuna ingerenza da parte del committente nell'esecuzione del lavoro medesimo.

Il committente ................................................. prende attto delle dichiarazioni dell'appaltatore e si obbliga a non ingerirsi in alcun modo nella concreta esecuzione dell'opera.

il committente l'appaltatore

........................................ .....................................

 

CLAUSULA RELATIVA AI RISCHI SPECIFICI DA COMUNICARE ALL'APPALTATORE O AL PRESTATORE D'OPERA

Il committente ....................................... informa l'impresa appaltatrice (o l'esecutore dell'opera) ........................................... che i lavori oggetto del presente contratto dovranno essere eseguiti nel reparto ........................................ dello stabilimento facente parte dell'unità produttiva o dell'azienda sita in ........................................... Nel suddetto ambiente di lavoro sono prevedibili i seguenti rischi specifici: ................ ..........................................................................................................................

Nell'ambiente di lavoro sono inoltre adottate le seguenti misure di prevenzione e protezione e di emergenza: ..............................................................................................................................................................................................................................

La suddetta dichiarazione viene effettuata in ottemperanza a quanto prescritto dall'art. 7 comma 1 lett. b D.lgs. 19/9/1994 n° 626.

DICHIARAZIONE CONGIUNTA DI COOPERAZIONE E COORDINAMENTO TRA COMMITTENTE E APPALTATORE

Il committente ........................................... e l'appaltatore ........................................

con il presente atto

DICHIARANO

che il committente ha regolarmente promosso la cooperazione ed il coordinamento prescritto dal comma 2 dell'art. 7 del D.lgs. n° 626/94:

a) cooperazione all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto;

b) coordinamento degli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente tra committente ed appaltatore anche al fine di eliminare i rischi dovuti alle interferenze tra lavoratori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva.

La suddetta dichiarazione viene effettuata in adempimento di quanto prescritto dal'art. 7 comma 3 D.lgs. 19/9/1994 n° 626.

..................., lì ......................

il commitente l'appaltatore

............................................... ..............................................

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