.QUESITO IN ORDINE AI POTERI SANZIONATORI DEGLI ENTI
LOCALI.
N.
Sezione 885/2001 La Sezione
Oggetto:
Ministero
dell’interno.
Quesito
in ordine ai poteri sanzionatori degli enti locali.
Vista la relazione trasmessa con nota 25000/1135/00102847 in data 1 agosto 2001, pervenuta il successivo 28 agosto, con la quale il Ministero dell’interno – Direzione generale dell’Amministrazione civile – Ufficio coordinamento e affari generali ha richiesto il parere del Consiglio di Stato in ordine al quesito richiamato in oggetto;
ESAMINATI gli atti e udito il relatore-estensore Consigliere
Antonino Anastasi;
RITENUTO in fatto quanto esposto dalla riferente
Amministrazione;
PREMESSO:
Evidenzia
l’Amministrazione che in sede applicativa il vigente ordinamento degli enti
locali, ora complessivamente disegnato dal T.U. 18 agosto 2000 n. 267, lascia
emergere complesse problematiche relative alla imposizione di sanzioni
amministrative conseguenti a violazioni dei Regolamenti comunali e provinciali.
In
particolare, la questione interpretativa sottoposta a questo Consiglio di Stato
concerne gli effetti derivanti dalla intervenuta abrogazione, ad opera
dell’art. 274 del T.U. n. 267 del 2000, dell’art. 106 del vecchio T.U. 3 marzo
1934 n. 383: tale articolo, che irrogava una sanzione amministrativa
dell’importo massimo di lire un milione per le contravvenzioni alle
disposizioni dei Regolamenti comunali e provinciali, era concordemente ritenuto
la fonte del potere sanzionatorio degli Enti locali.
Abrogato
l’art. 106, si pone ora il problema di accertare se al presente detto potere
sanzionatorio permanga in capo alle Amministrazioni locali, in un contesto
ordinamentale in cui, come è noto, da un lato l’art. 23 della Costituzione
riserva alla legge ogni imposizione di prestazioni personali patrimoniali e
dall’altro l’art. 1 della legge quadro 24 novembre 1981 n. 689 (modifiche al
sistema penale) sancisce, in coerenza con il dettato costituzionale, il principio
di legalità per l’illecito amministrativo.
In
presenza del cennato vuoto normativo, l’orientamento della Amministrazione – la
quale fa proprie le risultanze del parere espresso sul punto dall’Osservatorio
per l’applicazione del nuovo Testo Unico – è nel senso di far rientrare il
potere sanzionatorio nell’ambito della autonomia normativa ormai positivamente
riconosciuta agli Enti locali.
In
siffatto contesto l’Amministrazione, sulla scorta di una accurata esegesi delle
innovazioni normative che hanno nel tempo ampliato e rafforzato i contenuti
dell’autonomia statutaria e regolamentare commessa dal Legislatore primario a
Comuni e Province, opina per una lettura adeguatrice della norma introdotta
dall’art. 1 della legge n. 689 nonché per una individuazione dei vincoli
negativi discendenti dalla riserva di cui all’art. 23 della Costituzione
strettamente coordinata col principio positivo di valorizzazione delle
autonomie locali derivante dal combinato disposto degli artt. 3 e 128 della
Costituzione.
In
sostanza, l’Amministrazione propende per ritenere che le sanzioni
amministrative di cui si discute possano essere autonomamente comminate dai
vari Regolamenti, all’uopo modificati: peraltro, non disconoscendo la
problematicità delle riferite conclusioni ermeneutiche, chiede al riguardo il
parere del Consiglio di Stato.
Nel
caso di positiva soluzione del quesito principale, l’Amministrazione chiede
altresì se l’importo massimo e minimo delle sanzioni comminabili possa essere
definito in base alle previsioni di chiusura di cui agli artt. 10 e 11 della
legge n. 689.
CONSIDERATO:
Come
nelle premesse riferito, la delicata questione interpretativa sottoposta al
Consiglio di Stato concerne gli effetti derivanti dalla intervenuta
abrogazione, ad opera dell’art. 274 del T.U. 18 agosto 2000 n.267, dell’art.
106 del vecchio T.U. 3 marzo 1934 n. 383 secondo il quale "Quando la legge
non disponga altrimenti, le contravvenzioni alle disposizioni dei regolamenti
comunali sono punite con la sanzione amministrativa fino a lire
1.000.000".
Come
concordemente sin qui ritenuto, l’art. 106 si poneva quale norma primaria
autorizzatrice del potere degli Enti locali di irrogare sanzioni amministrative
per la violazione di Regolamenti: e ciò ovviamente in via, per così dire, residuale
e di chiusura laddove mancasse altra espressa previsione in tal senso nella
specifica normativa di settore.
Abrogato
l’articolo, il problema è quello di accertare se al presente detto potere
sanzionatorio permanga in capo alle Amministrazioni locali, in un contesto
ordinamentale in cui da un lato l’art. 23 della Costituzione riserva alla legge
ogni imposizione di prestazioni personali e patrimoniali e dall’altro l’art. 1
della legge quadro 24 novembre 1981 n. 689 (modifiche al sistema penale) ribadisce,
in coerenza con il dettato costituzionale, il principio di legalità e di
riserva legislativa alla stregua del quale "Nessuno può essere
assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima della commissione della violazione."
Al
riguardo come si è detto, l’orientamento dell’ Amministrazione – la quale fa
proprie le risultanze del parere espresso sul punto dall’Osservatorio per
l’applicazione del nuovo Testo Unico – è nel senso di far rientrare il potere
sanzionatorio nell’ambito della autonomia normativa ormai positivamente
riconosciuta agli Enti locali.
In
tale ottica l’Amministrazione, sulla scorta di una accurata esegesi delle
innovazioni normative che hanno nel tempo ampliato e rafforzato i contenuti
dell’autonomia statutaria e regolamentare attribuita dal Legislatore primario a
Comuni e Province, opina per una lettura adeguatrice della norma introdotta
dall’art. 1 della legge n. 689 e correlativamente per una individuazione dei
vincoli negativi discendenti dalla riserva di cui all’art. 23 della
Costituzione strettamente coordinata col principio positivo di valorizzazione
delle autonomie locali derivante dal combinato disposto degli artt. 3 e 128
della Costituzione.
Nonostante
il suo carattere evidentemente suggestivo, tale impostazione non può essere
condivisa dalla Sezione, militando in senso contrario convergenti argomenti di
tipo sistematico e testuale.
Procedendo
innanzi tutto all’esame della questione sotto il profilo dogmatico, deve evidenziarsi
che la massima ricevuta (secondo la quale la riserva posta dall’art. 1 legge n.
689 sarebbe relativa) pecca per incompletezza ed è dunque in ultima analisi
fuorviante.
In
effetti, come precisa la Suprema Corte, la riserva di legge in questione è
analoga a quella contenuta per l’illecito penale nell’art. 25 della
Costituzione ed è quindi, in termini formali, assoluta (Cass. Sez. 1 7.4.1999
n. 3351) o, per meglio dire, generale (Cass. Sez. 1 22.6.1995 n. 7038).
Ovviamente,
l'efficacia di tale riserva - a differenza della riserva assoluta relativa
all'illecito penale - non è di rango costituzionale (in quanto la materia delle
sanzioni amministrative sul piano costituzionale è riconducibile all'art. 23
della Costituzione, che stabilisce solo una riserva di legge di natura
relativa), bensì opera sul piano della forza di legge ordinaria, con l'effetto
che solo con l’intermediazione di una norma di legge che deroghi al suddetto
art. 1 è possibile l'introduzione di sanzioni amministrative mediante fonti secondarie
(Cass. sez. I, 6-11-1999, n. 12367).
Detto
in termini più distesi, l’art. 23 della Costituzione preclude che le sanzioni
amministrative siano comminate direttamente mediante disposizioni di fonti
normative secondarie, ma non esclude, viceversa, che i precetti
sufficientemente individuati dalla legge siano eterointegrati da norme
regolamentari delegate, in virtù del peculiare tecnicismo della dimensione in
cui le fonti secondarie sono destinate ad operare; per parte sua, l’art. 1
legge n. 689 riserva solo alla legge l’introduzione delle sanzioni
amministrative ma con ciò detta un precetto generale derogabile da successive
norme primarie o compatibile con previgenti norme legislative di carattere
speciale.
La
conclusione è che in difetto di altra norma legislativa l’art. 1 spiega piena
efficacia, precludendo la previsione di nuove fattispecie di illecito
amministrativo in sede regolamentare.
Dal
punto di vista dogmatico, dunque, la strada sottilmente indicata
dall’Amministrazione non sembra percorribile perché porta ad una alterazione
del criterio di gerarchia delle fonti non supportata da alcun riferimento
positivo: con riserva di ritornare sul punto, deve osservarsi infatti che il
richiamo al principio costituzionale dell’autonomia degli enti locali, se può
rilevare in tutta la sua forza allorché si tratti di optare fra diverse
interpretazioni della norma primaria tutte in astratto plausibili, è
naturalmente inidoneo a fondare ricostruzioni ermeneutiche che si pongano, in
definita, contra legem.
Del
resto, su un piano pragmatico si ricorderà che la giurisprudenza ritiene che de
iure condito nemmeno alle Regioni sia consentito derogare (in assenza della
norma di legge ) al precetto dell’art. 1 legge n. 689 con fonti regolamentari
(Cass. n. 7038/95 citata), pur essendo indubbio l’assoluto e pieno rilievo
ordinamentale dell’autonomia regionale.
Non
contraddicono i rilievi ora esposti le numerose sentenze della Suprema Corte
richiamate dall’Amministrazione, secondo le quali "il principio di legalità
dell'illecito amministrativo, contenuto nell'art. 1 legge n. 689 del 1981, non
ha ragione di operare nel caso di violazione di regolamenti comunali e
provinciali, i quali del resto trovano il loro fondamento costituzionale nel
riconoscimento delle autonomie locali, affermato negli art. 5 e 128 della
Costituzione, con cui deve coordinarsi il principio della riserva di legge, di
carattere relativo, previsto dall'art. 23 della Costituzione" (per tutte
cfr. Cass. sez. III, 18-2-2000 n. 1865): presupposto fondante (ed
espressamente, costantemente ribadito dalla Suprema Corte) della trascritta
affermazione era infatti quello della perdurante vigenza dell’art. 106 T.U. n.
383 del 1934, in quanto non abrogato dalla ridetta legge n. 689 ed
esplicitamente fatto salvo dall'art. 64, lett. c), legge n. 142 del 1990 (ivi).
In
altri termini, deve riconoscersi che l’ordinamento vigente valorizza il
principio di autonomia degli enti locali consentendo la massima espansione del
criterio di etero-integrazione per via regolamentare della norma primaria che
commina la sanzione amministrativa, ma postula pur sempre l’esistenza di una
fonte legislativa delegante.
Fermo
quanto sopra, il riferimento alla legge n. 142 del 1990 introduce un altro
argomento, di tipo sistematico, che depone anch’esso per l’impraticabilità
della tesi fatta propria dall’Amministrazione.
In
proposito, dopo aver ricordato che come dianzi detto l’art. 64 lett. c) della
legge quadro 8.6.1990 n. 142 aveva espressamente mantenuto in vigore l’art. 106
TU, si osserva che la legge 3.8.1999 n. 265, pur aprendo nuovi e più ampi
orizzonti all’autonomia statutaria, regolamentare ed organizzativa degli enti
locali, è rimasta silente sulla questione ora in rassegna: e ciò sia
direttamente (non avendo la citata legge n. 265 abrogato l’art. 106) sia
indirettamente, non avendo essa inserito la tematica delle sanzioni
amministrative nel catalogo delle competenze statutarie o regolamentari di
Comuni e Province.
Ne
deriva, come del resto non può fare a meno di riconoscere anche
l’Amministrazione, che al momento dell’entrata in vigore del nuovo Testo Unico
da un lato il potenziamento delle autonomie locali aveva già raggiunto il
massimo grado di attuazione e dall’altro che, per quanto riguarda il settore
delle sanzioni amministrative, il sistema poggiava pur sempre sull’antico
articolo 106, di perdurante vigenza.
C’è
allora da chiedersi perché mai il Legislatore del 1990 e del 1999 avrebbe
dovuto scrupolosamente salvaguardare una disposizione di origine così
risalente, se essa fosse stata in buona sostanza così superflua come oggi si
cerca di dimostrare.
Il
vero è dunque, ragionando a contrario, che l’art. 106 svolgeva una funzione
ineliminabile in un ordinamento come il nostro strettamente informato al
principio di riserva legislativa nell’ambito sanzionatorio e che la sua
abrogazione ha effettivamente determinato un vuoto normativo, che va – a
giudizio della Sezione – quanto più possibile tempestivamente colmato in sede
normativa primaria, per un duplice ordine di ragioni.
La
prima, ovviamente, attiene alla necessità di non lasciare sguarnite di sanzione
le violazioni delle norme regolamentari degli enti locali, che non siano
altrimenti assistite da altre disposizioni legislative.
La
seconda, del tutto opposta, attiene al pericolo che – in estrema ipotesi - le
suddette violazioni si trovino ad essere ri-penalizzate in relazione al
disposto dell’art. 650 c.p., il quale come è noto sanziona penalmente
l’inosservanza dei provvedimenti legalmente dati dall’Autorità.
In
proposito, per quanto riguarda gli Enti locali, la giurisprudenza penale è sino
ad oggi assestata nel senso che la norma di cui all'art. 650 c.p. può ritenersi
violata quando non si ottemperi a provvedimenti che il sindaco adotta quale
ufficiale di governo, con carattere di contingibilità ed urgenza, al fine di
ovviare a fatti gravi, quali pubbliche calamità o gravi epidemie; negli altri
casi, quando cioè l'ordine sia dato con richiamo a regolamenti comunali
esistenti, la loro violazione non è penalmente punita, ma trova una sanzione
amministrativa nell'art. 106 R.d. n. 383/1934 (ad es. Cass. pen. sez. I,
5-5-1998, ric. Molinari).
Una
volta però venuta meno la previsione della sanzione amministrativa, non
potrebbe escludersi a priori l’operatività dell’art. 650 c.p. (non a caso
ritenuto norma di estrema chiusura) il che, risultando del tutto
contraddittorio con le linee di depenalizzazione che informano l’attuale
sistema sanzionatorio, conferma l’assoluta esigenza dell’intervento del
Legislatore.
P.Q.M.
Nelle esposte considerazioni è il parere del Consiglio di Stato.
Per
estratto dal verbale
Il
Segretario della Sezione
(Licia
Grassucci)
Visto
Il
Presidente della Sezione
(Paolo
Salvatore)