Edizioni Multimedia (Salerno, 1996)
Nota introduttiva
La testimonianza di Víctor Montejo disegna una situazione drammatica, fatta di violenza indiscrminata, di paura, di miseria. Il suo racconto non ha bisogno di commenti, gli eventi parlano da soli, e l'autore sapientemente lascia che sia così. Montejo non indulge mai nello sfogo personale o in lunghe requisitorie contro il governo ed i militari: descrive con cura, con la precisione di chi ha visto, la distruzione del villaggio in cui faceva il maestro, la paura dei patrulleros , le torture nei distaccamenti militari, le esecuzioni di massa, il cinismo degli ufficiali ma anche qualche raro caso di umanità in alcuni soldati. L'autore si concentra esclusivamente sulla descrizione degli eventi, tralasciando quasi del tutto i riferimenti personali inessenziali, perché sa che la storia sua e del suo villaggio è simile alla storia di tanti altri indigeni e di tanti altri villaggi.
L'intento, forse anche il bisogno di Montejo è di comunicare la sua esperienza a tutti coloro che fuori dal suo paese, ma anche all'interno del Guatemala, ignorano la terribile repressione che ancora oggi è scatenata contro gli indigeni, nelle aeree rurali del paese. Raccontando le cose semplicemente, così come sono avvenute, Montejo mostra la tragedia della popolazione indigena del Guatemala.
Nel caso particolare del suo villaggio, tutto comincia con uno scontro tra l'esercito e le PAC. Le Pattuglie di Autodifesa Civile (Patrullas de Autodefensa Civil, PAC) furono create dal regime del Guatemala, 'consigliato' dagli specialisti statunitensi, con un duplice scopo: sottrarre uomini alla guerriglia alle organizzazioni popolari e controllare la popolazione. Gli uomini, dai tredici anni ai settanta, erano costretti ad arruolarsi e fare turni di sorveglianza intorno ed all'entrata dei villaggi. Armati il più delle volte solo di bastoni e pietre o di vecchissimi fucili, erano mandati all'avanguardia nelle azioni contro la guerriglia, erano obbligati a compiere esecuzioni di massa, a colpire i manifestanti, a compilare liste di sospetti. Attualmente le PAC sono state finalmente sciolte, come risultato degli accordi di pace tra guerriglia e governo.
Una delle più gravi conseguenze della presenza delle PAC è stata quella di dividere la popolazione indigena, sgretolandone il caratteristico tessuto di solidarietà reciproca. In questo modo, i contadini maya, costretti ad arruolrasi nell'esercito o nelle PAC, diventarono carnefici e vittime nello stesso tempo. Da questo punto di vista la testimonianza di Montejo è emblematica.
Sullo sfondo della scena dominata dai militari che mettono a lutto il villaggio di Montejo, si muovono le donne ed i bambini, che spesso non sono altro che suoni: nella piazza del villaggio si sentono il pianto, il brusìo delle preghiere sussurrate, le urla dei bambini terrorizzati. Rumori che commentano, come da lontano, la tragedia della comunità devastata. Una comunità che muore, come suggerisce il titolo del libro.
Montejo, maestro di scuola, è testimone e vittima della violenza dei militari: viene catturato, torturato, sottoposto ad una pressione psicologica insostenibile. Eppure, non si presenta mai come eroe. I suoi pensieri, i suoi atteggiamenti, la sua angoscia, sono quelli di un uomo comune, uno dei tanti che vengono accusati di essere guerriglieri e quindi condannati a morte. Forse non è un eroe anche perché lo squallore della violenza militare è tale che sembra non esserci spazio per nient'altro.
La testimonianza non ha bisogno di commenti, si era detto. Piuttosto una domanda potrebbe sorgere spontanea in chi non conosce la realtà del Guatemala: da dove nasce tanto odio, che cosa spinge militari e governi ad agire con tanta violenza contro la popolazione? Ci vorrebbero molte pagine per raccontare una lunga storia, iniziata con l'irruzione degli spagnoli nel 1524. Per rispondere brevemente e semplicemente, basta dire che la violenza in Guatemala serve a mantenere intatta una struttura sociale fortemente gerarchizzata e razzista, eretta sullo sfruttamento economico delle risorse umane e naturali. La classe dominante, cioè l'élite latifondista, alleata e spesso identificata con l'esercito, tramite governi espressamente militari o democratici in apparenza, ha mantenuto attraverso gli anni il suo potere, riducendo in estrema povertà la popolazione indigena e meticcia, violando i più elementari diritti umani nella totale impunità. Di fronte a questa élite spregiudicata, che pur costituendo il 2% della popolazione è padrona dell'80% della terra del paese, la popolazione maya e i ladinos poveri hanno risposto organizzandosi in gruppi che pacificamente cercano di recuperare le terre dei loro padri, oppure "sono andati in montagna", sono diventati guerriglieri. La volontà di resistenza della popolazione ha scatenato la violenza, e il villaggio di Montejo non è che uno delle centinaia di villaggi distrutti, soprattutto al principio degli anni '80, come dimostrano anche i numerosi ritrovamenti di fosse comuni di questi ultimi mesi.
Il conflitto interno in Guatemala è durato oltre trent'anni, e la repressione è stata feroce ed indiscriminata; dal '54 sono morti oltre 100. 000 guatemaltechi mentre 70.000 sono desaparecidos . Nonostante questa repressione, la popolazione resiste e la guerriglia e il movimento popolare sono riusciti ad ottenere il negoziato di importanti accordi preliminari alla firma della pace con il governo, avvenuta finalmente alla fine di dicembre 1996. Mentre si accendono nuove speranze per la popolazione maya, la cui identità ed i cui diritti vengono finalmente sanciti (sulla carta), la violenza, adesso più selettiva, continua. La pubblicazione in italiano della testimonianza di uno scrittore guatemalteco rifugiato all'estero nasce dalla volontà di comunicare, anche a chi vive lontano dal centro America, l'angoscia ed il coraggio delle classi sfruttate di questo paese. Una denuncia che nasce in un paese senza prigionieri politici e in cui trionfa, accanto alla violenza istituzionalizzata, l'impunità. E se Montejo ci racconta drammaticamente le forme della violenza, le organizzazioni popolari e la guerriglia, ciascuna a suo modo, ci mostrano, concretamente, le forme della resistenza.
Víctor Montejo è nato in Guatemala, a Jacaltenango, nel 1951. Indio maya Jakaltek, maestro elementare in un villaggio nel nordovest del suo paese, vicino al confine col Chiapas, è sfuggito alla repressione governativa stile terra-bruciata degli anni '80 rifugiandosi prima in Messico (dove, nel campo profughi Guadalupe Victoria, ha scritto "Testimonianza: Morte di una comunità indigena in Guatemala", pubblicato poi negli USA nel 1987) e poi negli Stati Uniti. Ha conseguito un dottorato in antropologia all'Università del Conneticut. Attualmente collabora con l'Università del Montana.
In italiano ha pubblicato anche "L'uccello che pulisce il mondo" (Multimedia ed., 1996), una raccolta di favole maya prese dalla tradizione orale. In una società come quella dei contadini maya, in cui non esistono scrittura né mass-media, raccontare e ricordare diventano un'arte ed uno strumento di resistenza dell'identità culturale. Le favole, pensate per i bambini, esprimono una tradizione millenaria e rivelano con semplicità una saggezza ed un'interpretazione della vita particolari.
Tra altri titoli, Montejo ha pubblicato una "Brevísima relación testimonial de la continua destrucción del Mayab' (Guatemala)", dove vengono riportate numerose testimonianze (di ex militari, ex patrulleros, contadini e bambini) riguardanti la violenza scatenata dall'esercito guatemalteco nel nordovest del paese nei primi anni '80. E'stato pubblicato nel 1992 dalla "Guatemala Scholars Network", c/o Dept. of Political Science, Providence College, Providence, Rhode Island 02918, USA.
possono essere ordinate direttamente al Comitato Centro-America