Bologna, 5 luglio 1997
 

SINTESI DELLA COMUNICAZIONE SVOLTA DA ROCCO GIACOMINO ALL’ATTIVO REGIONALE DEL 5 LUGLIO 1997 SUI LAVORI DELLA BICAMERALE E LE PROPOSTE DEL PRC

 

LE RIFORME ISTITUZIONALI E LE QUESTIONI DELLA FORMA DELLO STATO TRA SPINTE SECESSIONISTE E REGIONALISMO FORTE

 

Compagne e compagni,
lascio alle conclusioni del compagno Marchetti, uno dei diretti protagonisti insieme a Bertinotti, Cossutta e Salvato delle vicende della Bicamerale, l’ulteriore approfondimento di alcune considerazioni generali sulle Riforme Istituzionali e di alcune riflessioni sulla "Forma dello Stato" che vi proporrò nel corso di questa mia breve comunicazione.
Dobbiamo tutti noi avere maggiore consapevolezza del fatto che discutendo di Riforme Istituzionali, non parliamo di tecnicalità o mera ingegneria costituzionale, di materia delegabile a professori o accademici bensì parliamo di un poderoso processo, in corso da decenni, di riorganizzazione e riallocazione di poteri, dal cui esito dipende lo sviluppo e l’estensione dell’equilibrio democratico indicato dai padri costituenti o la sua regressione verso forme di democrazia plebiscitaria e leaderistica che accentuano la delega e riducono gli spazi di partecipazione di massa alle scelte ed alle decisioni della "res publica". Per intanto i risultati dei lavori della Bicamerale rendono probabile questo secondo esito e questo Attivo, convocato dal Comitato regionale, serve appunto ad accrescere quella maggiore consapevolezza di cui parlavo prima. Un esito nefasto che il PRC contrasta e contrasterà ma che richiede soprattutto un gigantesco movimento di massa per evitare che davvero prevalga e si traduca in norme costituzionali. In assenza di un grande movimento saremo di fronte a questo rischio reale, in quanto la quasi generalità delle forze politiche si riconosce nelle conclusioni della Bicamerale. Dunque, sulla seconda parte della Costituzione, potrebbe realizzarsi un nuovo patto costituzionale scritto con il concorso degli eredi di Almirante, ma senza  gli eredi di quell’Umberto Terracini grande figura  di comunista e rivoluzionario, Presidente dell’Assemblea Costituente che insieme a De Gasperi controfirmò la Carta Costituzionale vigente. Non c’è facile allarmismo ma il richiamo forte ad un passaggio decisivo della vicenda politico costituzionale del nostro paese che esige uno scatto a tutto il partito in termini appunto di maggiore consapevolezza dei rischi di questa fase e richiede la difficile, ma ineludibile costruzione di un ampio movimento di massa nella società, l’unico in grado di impedire la trasfigurazione degli attuali assetti costituzionali.
Ancora alcune brevi considerazioni di carattere generale. Innanzitutto perché siamo giunti a questo punto di grave pericolo per la democrazia ? Solo la lettura dei processi istituzionali non basta, per capire occorre invece la chiave di lettura di noi comunisti, quella cioè che tiene indissolubilmente legate "questione istituzionale" e "questione sociale". La tendenza in atto da circa un ventennio (periodizzazione utile ma per certi versi arbitraria) e che è riassumibile nel concetto di "democrazia autoritaria" si afferma e si sviluppa in relazione alla crisi della sinistra e del movimento operaio, anzi sarebbe più corretto dire che questa tendenza si alimenta della crisi della sinistra italiana e non solo, si pensi all’effetto devastante sulle forze antagoniste dell’ovest e nell’immaginario collettivo di grandi masse, del crollo dei regimi dell’est. Insomma più la sinistra si moderava e smarriva le sue ragioni fondanti, più la classe lavoratrice subiva sconfitte e arretramenti e più si affermava ed oggi si rafforza una idea di "democrazia autoritaria" che tende a soppiantare le forme e le istituzioni della "democrazia partecipata" costruita e sviluppatasi nel corso di decenni, a tratti anche con il consenso di parte delle stesse classi dirigenti, ed in competizione con i modelli che si andavano sperimentando ad est e che suscitavano speranze tra vasti strati popolari dei paesi occidentali. Il cosiddetto "caso italiano" è tutto qui ossia una democrazia partecipata di massa che riconosce cittadinanza al conflitto di classe, non nella forma americanizzata del ribellismo sociale - si pensi alle cicliche esplosioni violente nei ghetti neri - ma come concreta possibilità per le lavoratrici e i lavoratori di costruirsi in soggetto politico autonomo che vive nella società e nelle istituzioni, in un conflitto permanente per la conquista di maggiori spazi di democrazia, di benessere e di felicità. Dunque una democrazia che concepisce possibile l’alternativa, non la mera alternanza tra schieramenti simili per programmi e proposte che nulla cambia nella vita delle persone in una sorta di "convergenza competitiva" tra Poli, come è stata definita dal compagno Bertinotti. Convergenza sui programmi e mera competizione per la guida del governo intesa solo come ricambio di classe dirigente. Dunque si approssima la "resa dei conti" per questo nostro modello di democrazia , e quindi la posta in gioco è davvero alta, ma non è tanto l’esistenza o meno di una forza comunista, dato acquisito, bensì la nostra possibile e progressiva emarginazione a forza residuale non in grado di incidere e modificare i processi reali che concernono la vita  e le condizioni materiali di milioni di persone. E’ forse eccessivo affermare che riuscirà D’Alema in ciò in cui fallì Craxi? E’ forse eccessivo ricordare che Licio Gelli, il capo della loggia massonica P2, si è recentemente dichiarato soddisfatto nel constatare che nella Bicamerale si "copiavano" le proposte del famigerato "Piano di Rinascita Democratica" che all’epoca a sinistra fu definito piano golpista? Non apro questo capitolo della riflessione che richiederebbe un approfondimento oggi non possibile, ma non vi è dubbio che in forma grezza questa tendenza alla democrazia autoritaria si segnala nella seconda metà degli anni settanta e coincide con il famoso Midas e cioè l’avvento di Benedetto Craxi alla guida del PSI che per primo cominciò a parlare di "Grande Riforma" avvalendosi della consulenza e della penna del "dottor sottile" Giuliano Amato. Craxi introdusse con forza nel dibattito politico di allora l’idea, oggi in parte raggiunta, del riequilibro dei poteri tra Parlamento e governo, tra assemblee elettive ed esecutivi. L’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della provincia con la legge 81 del 1993 che svuota di forza e ruolo i consigli comunali e provinciali ed introduce in Italia una forte ed inedita personalizzazione della politica, costituisce appunto il primo approdo normativo di quel processo politico avviato in quegli anni. Berlinguer parlò di pericolo per la democrazia, di certo con il craxismo inizia un lavoro di "scasso" istituzionale che mette al centro la decisione e la velocità della stessa da parte degli esecutivi, subordinando il momento del controllo svolto dalle assemblee elettive. A questo proposito è utile ricordare come una spinta al rafforzamento degli esecutivi si tradusse in proposte sin dalla prima commissione Bicamerale presieduta dall’on. Bozzi ed istituita nell’autunno 1983. Quella commissione naufragò e l’allora PCI, come oggi il PRC, elaborò una propria relazione di minoranza a firma (Natta, Ingrao, Barbera e Zangheri) la quale imputò la mancata intesa in commissione al fatto che la maggioranza pentapartitica perseguiva quasi esclusivamente l’obiettivo del rafforzamento del governo intaccando la centralità del Parlamento. Nella relazione si legge testualmente di "....una pretesa di subordinare tutte le proposte di riforma ad una sola esigenza: quella di garantire comunque rapidità alle procedure parlamentari e sicurezza nel momento della decisione". Il cosiddetto decisionismo craxiano chiedeva di farsi norma. Un processo, ossia la tendenza al rafforzamento degli esecutivi che si assomma all’assunzione dell’idea della centralità dell’impresa, e dei suoi interessi, che richiede tempi rapidi nelle decisioni e che riduce l’amministrazione a mero strumento d’accompagnamento alle ragioni di competitività del sistema delle imprese, svuotando così di "senso" e di "autonomia" la politica che sempre più mutua le forme e il linguaggio dell’impresa stessa. Dunque una vera e propria resa della politica, una brutta politica che, rinunciando al governo dei processi economici, assume la coincidenza tra interesse generale e quello dell’impresa, spesso addirittura teorizzata, dismettendo per questa via i compiti propri di sintesi e composizione di interessi diversi con al centro i bisogni della persona e non quelli dell’impresa . Non c’è furore ideologico contro l’efficienza e l’efficacia possibile del mercato, bensì la contestazione della intangibile e quasi sacrale  centralità dell’impresa. E’ dunque in questo quadro di riferimento e dentro a questi processi che si deve discutere di Riforme Istituzionali. Per quel che concerne la Forma dello Stato mi limiterò a tratteggiare alcuni elementi di fondo. Innanzitutto è senza precedenti storici significativi il passaggio da una entità statuale unitaria al federalismo, è vero invece il contrario e cioè il "foedus" nasce per unire ciò che era diviso, ossia Stati originariamente autonomi che si federano. Dalla divisione all’unità e non dall’unità al federalismo, mentre invece abbiamo assistito alla dissoluzione di stati unitari in entità statuali più piccole, ma separate, e non federate. E’ stata ed è giusta la nostra critica alla sinistra moderata circa la disinvoltura e la leggerezza con cui ha assunto il concetto federalistico senza valutarne rischi e pericoli, traducendolo in senso comune in  parti significative del popolo di sinistra . La nostra preoccupazione non scaturisce dalla paura nel misurarsi con processi sociali inediti, anzi noi siamo e dobbiamo essere innovatori, essa invece nasce dalla constatazione che la globalizzazione spinge alla disgregazione degli stati moderni così come li abbiamo conosciuti e si sono edificati. Kenichi Ohmae noto esponente dell’establishment giapponese e consulente di grandi industrie, ha descritto in un libro la fine dello stato-nazione indicando le ragioni per le quali uno stato unitario con al suo interno aree geografiche disomogenee costituisca impedimento alla competitività.
Lo Stato come bardatura burocratica, disomogeneo al suo interno per aree economico-sociale è dunque d’impaccio alla competizione che invece deve dispiegarsi tra aree economico-sociali omogenee. Dunque piccoli Stati, forti ed aggressivi che competono aspramente lasciando al loro destino aree con squilibri e disuguaglianze. Nella sua rozzezza questa analisi ha elementi forti di verità, certo non si pone il problema dell’uguaglianza e della solidarietà, ma soprattutto non calcola la moltiplicazione dei conflitti in un mondo sempre più giungla, conflitti e migrazioni bibliche, forse, ritenuti "gestibili" dalle gendarmerie occidentali. Ma fino a quando? Cos’è dunque la Padania di Bossi se non per l’appunto uno Stato piccolo, forte ed omogeneo al suo interno, adatto dunque a competere e produrre ricchezza, che espunge ogni idea di uguaglianza e solidarietà con il resto del paese. Non è in discussione la nostra ovvia contrarietà a questa prospettiva e dunque lo stato nazionale come dimensione più idonea per realizzare l’uguaglianza, o l’assoluta modernità di questa ipotesi che non è follia leghista, ma come Rifondazione ha sempre sottolineato frutto di processi economici che spingono nella direzione di una possibile disgregazione. La domanda è invece se le ipotesi federaliste delle quali si è discusso in Bicamerale e dunque la "forma di stato" che assumerà il nostro paese, può favorire tale processo disgregativo o può arrestarlo, rivalutando e riaffermando le ragioni dell’unità. Il testo sulla "Forma dello Stato" licenziato dalla Bicamerale può favorire spinte separatiste e secessioniste. Un giudizio drastico che si fonda su dati di fatto, innanzitutto non c’è il regionalismo forte da noi auspicato che si realizza con una ampia e più estesa funzione legislativa delle Regioni e con una reale autonomia finanziaria per le stesse Regioni e gli Enti Locali. Nel merito la proposta finale della Bicamerale, sebbene meno orripilante della prima bozza d’Onofrio presenta, dal nostro punto di vista, diversi aspetti inaccettabili e riassumibili sinteticamente in sei questioni. Innanzitutto è da respingere la stessa definizione della Repubblica come composta dalle Regioni, dagli Enti Locali e dallo Stato, attribuendo a quest’ultimo un carattere residuale; vi è poi una eccessiva e complessiva valorizzazione del ruolo delle Regioni a scapito degli Enti Locali con il rischio di sostituire al centralismo dello Stato quello delle Regioni. Il Fondo perequativo andrebbe destinato direttamente e espressamente alle Regioni con squilibri socio-economici. L’introduzione di una tempistica differenziata, fino ad un quinquennio, per attuare le riforme federaliste attraverso gli statuti appare di difficile comprensione e di complessa realizzazione. Risulta inoltre per noi inaccettabile il riconoscimento della potestà legislativa a ciascuna Regione in materia elettorale da esercitarsi con la maggioranza dei due terzi dei Consiglieri regionali. Concretamente ciò vuol dire che in Emilia-Romagna, ad esempio, il centro-sinistra che numericamente dispone dei due terzi ha la possibilità di cucirsi addosso la propria legge elettorale senza il concorso delle opposizioni di centro-destra e di sinistra. Dunque in ciascuna Regione i ceti politici regionali potrebbero assicurarsi condizioni favorevoli alla loro autoriproduzione. Le regole elettorali sono regole del gioco decisive per la convivenza democratica e quindi debbono essere indicate dal Parlamento nazionale. Infine l’ultimo punto ma forse il più preoccupante per gli effetti che può produrre riguarda l’art. 56 del progetto di legge costituzionale in cui si afferma che "le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dall’autonomia dei privati sono ripartite tra le comunità locali". Tale norma costituzionalizza la centralità dell’impresa e del mercato attribuendo un ruolo residuale e marginale all’intervento pubblico ed invade ed inquina principi della prima parte della costituzione come l’articolo 3 laddove si attribuisce allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica ed economica del paese. Dunque lo Stato non dovrebbe più neppure porsi questo obiettivo tendenziale mentre si costituzionalizza il principio che viene prima il mercato quale supremo regolatore e dunque lo Stato potrà intervenire solo nei campi in cui i privati non hanno interessi o per porre rimedio ai guasti prodotti dai privati. Si tratta dunque di una norma incostituzionale che di fatto chiede allo Stato di abdicare ai compiti di promozione dell’uguaglianza previsti dall’articolo 3. Infine una rapida notazione sulla riforma del Parlamento, si passa dal Bicameralismo perfetto ad un Tricameralismo imperfetto, o meglio ad un "mostro tricameralista"; accanto alla Camera ed al Senato cosiddetto delle garanzie e con funzioni differenziate, si aggiunge una Commissione per le autonomie locali formata in parte da Senatori ed in parte da Sindaci e Presidenti delle Regioni e dotata di alcuni poteri di intervento nelle procedure decisionali. Dunque anziché compiere una limpida e netta scelta monocameralista (una sola Camera con 400 deputati), una scelta che è nella tradizione della sinistra italiana e che introdurrebbe elementi di semplificazione evitando la doppia lettura e le cosiddette "navette" tra Camera e Senato, rafforzando il Parlamento nel rapporto con il governo, mentre la cosiddetta funzione di raffreddamento della volontà e di perfezionamento delle leggi potrebbe essere efficacemente svolta con altre modalità. Si è prodotto un pasticcio, una mediazione che non sta in piedi in quanto si è preferito evitare ad esempio la scelta del cosiddetto "Senato delle Regioni" sul modello del Bundesrat tedesco e sostenuta dai settori ulivisti del PDS e dai Presidenti delle Regioni, ispiratore del testo l’assessore dell’Emilia Mariucci . Una soluzione da noi contestata per ragioni di merito, in quanto se si realizzasse un reale processo di decentramento non si giustificherebbe appieno l’istituzione di un organo apicale delle Regioni che potrebbe limitare l’autonomia delle stesse. Il Senato delle Regioni sarebbe stata una scelta discutibile, ma limpida al pari della nostra proposta monocameralista. Invece, si è scelto di non scegliere scontentando tutti e partorendo questo "mostro tricameralista". I lavori della Bicamerale ci consegnano brutti materiali che ci auguriamo non vengano utilizzati per edificare il nuovo assetto costituzionale. Abbiamo solo alcuni mesi di tempo, al massimo un biennio, prima di giungere al Referendum finale che dovrebbe concludere l’iter delle riforme, dunque occorre da subito fare appello a tutte le nostre energie, ed a tutto il partito per rivolgerci all’intera società italiana e ad ogni sincero democratico, in quanto solo il protagonismo delle masse popolari potrà scongiurare un esito negativo del processo riformatore che consegnerebbe alle prossime generazioni ed alle masse lavoratrici meno democrazia e meno partecipazione.

Rocco Giacomino
Capogruppo PRC in Consiglio regionale