Compagne e compagni,
lascio alle conclusioni del compagno Marchetti, uno dei diretti protagonisti
insieme a Bertinotti, Cossutta e Salvato delle vicende della Bicamerale,
l’ulteriore approfondimento di alcune considerazioni generali sulle Riforme
Istituzionali e di alcune riflessioni sulla "Forma dello Stato" che vi
proporrò nel corso di questa mia breve comunicazione.
Dobbiamo tutti noi avere maggiore consapevolezza del fatto che discutendo
di Riforme Istituzionali, non parliamo di tecnicalità o mera ingegneria
costituzionale, di materia delegabile a professori o accademici bensì
parliamo di un poderoso processo, in corso da decenni, di riorganizzazione
e riallocazione di poteri, dal cui esito dipende lo sviluppo e l’estensione
dell’equilibrio democratico indicato dai padri costituenti o la sua regressione
verso forme di democrazia plebiscitaria e leaderistica che accentuano la
delega e riducono gli spazi di partecipazione di massa alle scelte ed alle
decisioni della "res publica". Per intanto i risultati dei lavori della
Bicamerale rendono probabile questo secondo esito e questo Attivo, convocato
dal Comitato regionale, serve appunto ad accrescere quella maggiore consapevolezza
di cui parlavo prima. Un esito nefasto che il PRC contrasta e contrasterà
ma che richiede soprattutto un gigantesco movimento di massa per evitare
che davvero prevalga e si traduca in norme costituzionali. In assenza di
un grande movimento saremo di fronte a questo rischio reale, in quanto
la quasi generalità delle forze politiche si riconosce nelle conclusioni
della Bicamerale. Dunque, sulla seconda parte della Costituzione, potrebbe
realizzarsi un nuovo patto costituzionale scritto con il concorso degli
eredi di Almirante, ma senza gli eredi di quell’Umberto Terracini
grande figura di comunista e rivoluzionario, Presidente dell’Assemblea
Costituente che insieme a De Gasperi controfirmò la Carta Costituzionale
vigente. Non c’è facile allarmismo ma il richiamo forte ad un passaggio
decisivo della vicenda politico costituzionale del nostro paese che esige
uno scatto a tutto il partito in termini appunto di maggiore consapevolezza
dei rischi di questa fase e richiede la difficile, ma ineludibile costruzione
di un ampio movimento di massa nella società, l’unico in grado di
impedire la trasfigurazione degli attuali assetti costituzionali.
Ancora alcune brevi considerazioni di carattere generale. Innanzitutto
perché siamo giunti a questo punto di grave pericolo per la democrazia
? Solo la lettura dei processi istituzionali non basta, per capire occorre
invece la chiave di lettura di noi comunisti, quella cioè che tiene
indissolubilmente legate "questione istituzionale" e "questione sociale".
La tendenza in atto da circa un ventennio (periodizzazione utile ma per
certi versi arbitraria) e che è riassumibile nel concetto di "democrazia
autoritaria" si afferma e si sviluppa in relazione alla crisi della sinistra
e del movimento operaio, anzi sarebbe più corretto dire che questa
tendenza si alimenta della crisi della sinistra italiana e non solo, si
pensi all’effetto devastante sulle forze antagoniste dell’ovest e nell’immaginario
collettivo di grandi masse, del crollo dei regimi dell’est. Insomma più
la sinistra si moderava e smarriva le sue ragioni fondanti, più
la classe lavoratrice subiva sconfitte e arretramenti e più si affermava
ed oggi si rafforza una idea di "democrazia autoritaria" che tende a soppiantare
le forme e le istituzioni della "democrazia partecipata" costruita e sviluppatasi
nel corso di decenni, a tratti anche con il consenso di parte delle stesse
classi dirigenti, ed in competizione con i modelli che si andavano sperimentando
ad est e che suscitavano speranze tra vasti strati popolari dei paesi occidentali.
Il cosiddetto "caso italiano" è tutto qui ossia una democrazia partecipata
di massa che riconosce cittadinanza al conflitto di classe, non nella forma
americanizzata del ribellismo sociale - si pensi alle cicliche esplosioni
violente nei ghetti neri - ma come concreta possibilità per le lavoratrici
e i lavoratori di costruirsi in soggetto politico autonomo che vive nella
società e nelle istituzioni, in un conflitto permanente per la conquista
di maggiori spazi di democrazia, di benessere e di felicità. Dunque
una democrazia che concepisce possibile l’alternativa, non la mera alternanza
tra schieramenti simili per programmi e proposte che nulla cambia nella
vita delle persone in una sorta di "convergenza competitiva" tra Poli,
come è stata definita dal compagno Bertinotti. Convergenza sui programmi
e mera competizione per la guida del governo intesa solo come ricambio
di classe dirigente. Dunque si approssima la "resa dei conti" per questo
nostro modello di democrazia , e quindi la posta in gioco è davvero
alta, ma non è tanto l’esistenza o meno di una forza comunista,
dato acquisito, bensì la nostra possibile e progressiva emarginazione
a forza residuale non in grado di incidere e modificare i processi reali
che concernono la vita e le condizioni materiali di milioni di persone.
E’ forse eccessivo affermare che riuscirà D’Alema in ciò
in cui fallì Craxi? E’ forse eccessivo ricordare che Licio Gelli,
il capo della loggia massonica P2, si è recentemente dichiarato
soddisfatto nel constatare che nella Bicamerale si "copiavano" le proposte
del famigerato "Piano di Rinascita Democratica" che all’epoca a sinistra
fu definito piano golpista? Non apro questo capitolo della riflessione
che richiederebbe un approfondimento oggi non possibile, ma non vi è
dubbio che in forma grezza questa tendenza alla democrazia autoritaria
si segnala nella seconda metà degli anni settanta e coincide con
il famoso Midas e cioè l’avvento di Benedetto Craxi alla guida del
PSI che per primo cominciò a parlare di "Grande Riforma" avvalendosi
della consulenza e della penna del "dottor sottile" Giuliano Amato. Craxi
introdusse con forza nel dibattito politico di allora l’idea, oggi in parte
raggiunta, del riequilibro dei poteri tra Parlamento e governo, tra assemblee
elettive ed esecutivi. L’elezione diretta del Sindaco e del Presidente
della provincia con la legge 81 del 1993 che svuota di forza e ruolo i
consigli comunali e provinciali ed introduce in Italia una forte ed inedita
personalizzazione della politica, costituisce appunto il primo approdo
normativo di quel processo politico avviato in quegli anni. Berlinguer
parlò di pericolo per la democrazia, di certo con il craxismo inizia
un lavoro di "scasso" istituzionale che mette al centro la decisione e
la velocità della stessa da parte degli esecutivi, subordinando
il momento del controllo svolto dalle assemblee elettive. A questo proposito
è utile ricordare come una spinta al rafforzamento degli esecutivi
si tradusse in proposte sin dalla prima commissione Bicamerale presieduta
dall’on. Bozzi ed istituita nell’autunno 1983. Quella commissione naufragò
e l’allora PCI, come oggi il PRC, elaborò una propria relazione
di minoranza a firma (Natta, Ingrao, Barbera e Zangheri) la quale imputò
la mancata intesa in commissione al fatto che la maggioranza pentapartitica
perseguiva quasi esclusivamente l’obiettivo del rafforzamento del governo
intaccando la centralità del Parlamento. Nella relazione si legge
testualmente di "....una pretesa di subordinare tutte le proposte di riforma
ad una sola esigenza: quella di garantire comunque rapidità alle
procedure parlamentari e sicurezza nel momento della decisione". Il cosiddetto
decisionismo craxiano chiedeva di farsi norma. Un processo, ossia la tendenza
al rafforzamento degli esecutivi che si assomma all’assunzione dell’idea
della centralità dell’impresa, e dei suoi interessi, che richiede
tempi rapidi nelle decisioni e che riduce l’amministrazione a mero strumento
d’accompagnamento alle ragioni di competitività del sistema delle
imprese, svuotando così di "senso" e di "autonomia" la politica
che sempre più mutua le forme e il linguaggio dell’impresa stessa.
Dunque una vera e propria resa della politica, una brutta politica che,
rinunciando al governo dei processi economici, assume la coincidenza tra
interesse generale e quello dell’impresa, spesso addirittura teorizzata,
dismettendo per questa via i compiti propri di sintesi e composizione di
interessi diversi con al centro i bisogni della persona e non quelli dell’impresa
. Non c’è furore ideologico contro l’efficienza e l’efficacia possibile
del mercato, bensì la contestazione della intangibile e quasi sacrale
centralità dell’impresa. E’ dunque in questo quadro di riferimento
e dentro a questi processi che si deve discutere di Riforme Istituzionali.
Per quel che concerne la Forma dello Stato mi limiterò a tratteggiare
alcuni elementi di fondo. Innanzitutto è senza precedenti storici
significativi il passaggio da una entità statuale unitaria al federalismo,
è vero invece il contrario e cioè il "foedus" nasce per unire
ciò che era diviso, ossia Stati originariamente autonomi che si
federano. Dalla divisione all’unità e non dall’unità al federalismo,
mentre invece abbiamo assistito alla dissoluzione di stati unitari in entità
statuali più piccole, ma separate, e non federate. E’ stata ed è
giusta la nostra critica alla sinistra moderata circa la disinvoltura e
la leggerezza con cui ha assunto il concetto federalistico senza valutarne
rischi e pericoli, traducendolo in senso comune in parti significative
del popolo di sinistra . La nostra preoccupazione non scaturisce dalla
paura nel misurarsi con processi sociali inediti, anzi noi siamo e dobbiamo
essere innovatori, essa invece nasce dalla constatazione che la globalizzazione
spinge alla disgregazione degli stati moderni così come li abbiamo
conosciuti e si sono edificati. Kenichi Ohmae noto esponente dell’establishment
giapponese e consulente di grandi industrie, ha descritto in un libro la
fine dello stato-nazione indicando le ragioni per le quali uno stato unitario
con al suo interno aree geografiche disomogenee costituisca impedimento
alla competitività.
Lo Stato come bardatura burocratica, disomogeneo al suo interno per
aree economico-sociale è dunque d’impaccio alla competizione che
invece deve dispiegarsi tra aree economico-sociali omogenee. Dunque piccoli
Stati, forti ed aggressivi che competono aspramente lasciando al loro destino
aree con squilibri e disuguaglianze. Nella sua rozzezza questa analisi
ha elementi forti di verità, certo non si pone il problema dell’uguaglianza
e della solidarietà, ma soprattutto non calcola la moltiplicazione
dei conflitti in un mondo sempre più giungla, conflitti e migrazioni
bibliche, forse, ritenuti "gestibili" dalle gendarmerie occidentali. Ma
fino a quando? Cos’è dunque la Padania di Bossi se non per l’appunto
uno Stato piccolo, forte ed omogeneo al suo interno, adatto dunque a competere
e produrre ricchezza, che espunge ogni idea di uguaglianza e solidarietà
con il resto del paese. Non è in discussione la nostra ovvia contrarietà
a questa prospettiva e dunque lo stato nazionale come dimensione più
idonea per realizzare l’uguaglianza, o l’assoluta modernità di questa
ipotesi che non è follia leghista, ma come Rifondazione ha sempre
sottolineato frutto di processi economici che spingono nella direzione
di una possibile disgregazione. La domanda è invece se le ipotesi
federaliste delle quali si è discusso in Bicamerale e dunque la
"forma di stato" che assumerà il nostro paese, può favorire
tale processo disgregativo o può arrestarlo, rivalutando e riaffermando
le ragioni dell’unità. Il testo sulla "Forma dello Stato" licenziato
dalla Bicamerale può favorire spinte separatiste e secessioniste.
Un giudizio drastico che si fonda su dati di fatto, innanzitutto non c’è
il regionalismo forte da noi auspicato che si realizza con una ampia e
più estesa funzione legislativa delle Regioni e con una reale autonomia
finanziaria per le stesse Regioni e gli Enti Locali. Nel merito la proposta
finale della Bicamerale, sebbene meno orripilante della prima bozza d’Onofrio
presenta, dal nostro punto di vista, diversi aspetti inaccettabili e riassumibili
sinteticamente in sei questioni. Innanzitutto è da respingere la
stessa definizione della Repubblica come composta dalle Regioni, dagli
Enti Locali e dallo Stato, attribuendo a quest’ultimo un carattere residuale;
vi è poi una eccessiva e complessiva valorizzazione del ruolo delle
Regioni a scapito degli Enti Locali con il rischio di sostituire al centralismo
dello Stato quello delle Regioni. Il Fondo perequativo andrebbe destinato
direttamente e espressamente alle Regioni con squilibri socio-economici.
L’introduzione di una tempistica differenziata, fino ad un quinquennio,
per attuare le riforme federaliste attraverso gli statuti appare di difficile
comprensione e di complessa realizzazione. Risulta inoltre per noi inaccettabile
il riconoscimento della potestà legislativa a ciascuna Regione in
materia elettorale da esercitarsi con la maggioranza dei due terzi dei
Consiglieri regionali. Concretamente ciò vuol dire che in Emilia-Romagna,
ad esempio, il centro-sinistra che numericamente dispone dei due terzi
ha la possibilità di cucirsi addosso la propria legge elettorale
senza il concorso delle opposizioni di centro-destra e di sinistra. Dunque
in ciascuna Regione i ceti politici regionali potrebbero assicurarsi condizioni
favorevoli alla loro autoriproduzione. Le regole elettorali sono regole
del gioco decisive per la convivenza democratica e quindi debbono essere
indicate dal Parlamento nazionale. Infine l’ultimo punto ma forse il più
preoccupante per gli effetti che può produrre riguarda l’art. 56
del progetto di legge costituzionale in cui si afferma che "le funzioni
che non possono essere più adeguatamente svolte dall’autonomia dei
privati sono ripartite tra le comunità locali". Tale norma costituzionalizza
la centralità dell’impresa e del mercato attribuendo un ruolo residuale
e marginale all’intervento pubblico ed invade ed inquina principi della
prima parte della costituzione come l’articolo 3 laddove si attribuisce
allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale
che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica ed economica del paese.
Dunque lo Stato non dovrebbe più neppure porsi questo obiettivo
tendenziale mentre si costituzionalizza il principio che viene prima il
mercato quale supremo regolatore e dunque lo Stato potrà intervenire
solo nei campi in cui i privati non hanno interessi o per porre rimedio
ai guasti prodotti dai privati. Si tratta dunque di una norma incostituzionale
che di fatto chiede allo Stato di abdicare ai compiti di promozione dell’uguaglianza
previsti dall’articolo 3. Infine una rapida notazione sulla riforma del
Parlamento, si passa dal Bicameralismo perfetto ad un Tricameralismo imperfetto,
o meglio ad un "mostro tricameralista"; accanto alla Camera ed al Senato
cosiddetto delle garanzie e con funzioni differenziate, si aggiunge una
Commissione per le autonomie locali formata in parte da Senatori ed in
parte da Sindaci e Presidenti delle Regioni e dotata di alcuni poteri di
intervento nelle procedure decisionali. Dunque anziché compiere
una limpida e netta scelta monocameralista (una sola Camera con 400 deputati),
una scelta che è nella tradizione della sinistra italiana e che
introdurrebbe elementi di semplificazione evitando la doppia lettura e
le cosiddette "navette" tra Camera e Senato, rafforzando il Parlamento
nel rapporto con il governo, mentre la cosiddetta funzione di raffreddamento
della volontà e di perfezionamento delle leggi potrebbe essere efficacemente
svolta con altre modalità. Si è prodotto un pasticcio, una
mediazione che non sta in piedi in quanto si è preferito evitare
ad esempio la scelta del cosiddetto "Senato delle Regioni" sul modello
del Bundesrat tedesco e sostenuta dai settori ulivisti del PDS e dai Presidenti
delle Regioni, ispiratore del testo l’assessore dell’Emilia Mariucci .
Una soluzione da noi contestata per ragioni di merito, in quanto se si
realizzasse un reale processo di decentramento non si giustificherebbe
appieno l’istituzione di un organo apicale delle Regioni che potrebbe limitare
l’autonomia delle stesse. Il Senato delle Regioni sarebbe stata una scelta
discutibile, ma limpida al pari della nostra proposta monocameralista.
Invece, si è scelto di non scegliere scontentando tutti e partorendo
questo "mostro tricameralista". I lavori della Bicamerale ci consegnano
brutti materiali che ci auguriamo non vengano utilizzati per edificare
il nuovo assetto costituzionale. Abbiamo solo alcuni mesi di tempo, al
massimo un biennio, prima di giungere al Referendum finale che dovrebbe
concludere l’iter delle riforme, dunque occorre da subito fare appello
a tutte le nostre energie, ed a tutto il partito per rivolgerci all’intera
società italiana e ad ogni sincero democratico, in quanto solo il
protagonismo delle masse popolari potrà scongiurare un esito negativo
del processo riformatore che consegnerebbe alle prossime generazioni ed
alle masse lavoratrici meno democrazia e meno partecipazione.
Rocco Giacomino
Capogruppo PRC in Consiglio regionale