Lo spazio del guerrigliero culturale

 

L’America e noi

di Nestore

Una domanda che mi viene spesso rivolta, è se ritengo che la destra abbia sempre ragione e la sinistra torto. Rispondo che a mio parere la destra ha spesso torto, ed in particolare mi trovo regolarmente in disaccordo con una certa destra, quella benpensante, codina, conservatrice. Mi interrogo spesso sul significato della parola "destra", e se essa deve significare semplice conservazione dell’esistente per il semplice fatto che esiste, rappresenta qualcosa con cui non mi è minimamente possibile consentire.

Rispetto a questo modo d’intendere l’"essere di destra", i dissensi maggiori li avverto nel terreno della politica estera. E’ umanamente possibile appiattire la propria specificità politico–culturale su posizioni di filo–americanismo e di incondizionata difesa del Patto Atlantico?

Diceva Julius Evola (Ricognizioni) che l’americanizzazione dell’Europa è un prezzo molto alto da pagare per evitare l’invasione sovietica del nostro continente. Una verità talmente ovvia e chiara, che davvero non vi è nulla da commentare o da aggiungere, semmai la questione è, oggi che un tale pericolo non ci minaccia più, se convenga continuare a pagare un simile prezzo.

Un recente fatto di cronaca ha riproposto drammaticamente la realtà del Patto Atlantico, negli stessi giorni dell’allargamento della NATO a Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, è arrivata la notizia dell’assoluzione del pilota dell’aereo responsabile della strage del Cermis, giusto a ricordarci che la nostra posizione nei confronti degli Stati Uniti non è quella di alleati su di un piano di parità, ma di sudditi.

Prima ancora di chiederci se l’anticomunismo possa continuare a giustificare una simile sudditanza oggi che l’Unione Sovietica non esiste più, sarà bene sottolineare un punto: gli Stati Uniti non sono mai stati anticomunisti, ma antisovietici. La distinzione non è puramente accademica, non vi sarebbe nulla di più sbagliato che sostenere, volersi illudere che gli Stati Uniti si siano opposti all’Unione Sovietica per il desiderio di assicurare la libertà ed il rispetto dei diritti umani a tutti i popoli, niente affatto, a muovere la loro politica è sempre stata l’esigenza di contendere il dominio planetario all’Unione Sovietica, e la prova evidente, se la si vuole vedere, si trova nell’acquiescenza, perfino nella complicità con l’altra grande tirannide comunista non meno ripugnante, non meno lorda di sangue, non meno calpestatrice dei diritti umani, e purtroppo ancora superstite e vitale, quella cinese.

Chi non ha la memoria corta ricorderà i fatti del 1988 a Pechino, la strage di piazza Tien-an-men, migliaia di persone uccise ed una dura repressione di cui sono giunti in Occidente soltanto echi attutiti, a dimostrare che i cinesi erano stufi del comunismo non meno dei russi e degli europei dell’est, ed una dimostrazione in più che il comunismo, così come giunge al potere con la menzogna, lo mantiene con la brutalità, la forza militare, la polizia segreta, i campi di concentramento. Di fronte a questi atti che inorridirono il mondo, gli Stati Uniti si affrettarono a confermare alla Cina comunista la clausola di nazione più favorita negli scambi commerciali.

C’è di peggio: a conclusione della guerra del Vietnam, la Cambogia cadde nelle mani della peggiore banda di assassini che si sia mai vista, i khmer rossi, canaglie – pardon, comunisti – d’ispirazione cinese/maoista che in tre anni di dominio riuscirono a massacrare od a far morire di stenti un terzo dei cambogiani, questo disgraziato paese fu trasformato in un unico, immenso lager. Fatte le proporzioni, se invece della piccola e povera Cambogia, Pol Pot, il leader dei khmer rossi, avesse avuto a disposizione una nazione estesa e popolosa, sarebbe riuscito ad eclissare facilmente le atrocità compiute da Hitler e da Stalin, riducendole a bagatelle di poco conto.

Nel 1975 la popolazione della Cambogia era di nove milioni di persone, tre anni più tardi, quando i khmer rossi furono cacciati dai vietnamiti, si contarono sei milioni di superstiti, tre milioni di uomini, donne, bambini erano stati ridotti a concime per le risaie.

Nel 1979, il contrasto tra i khmer rossi ed il governo vietnamita, ed una breve guerra portarono alla Cambogia un governo gradito ad Hanoi e probabilmente evitarono al popolo cambogiano l’estinzione, ma –piccolo particolare- il governo di Hanoi era filosovietico, e così pure quello che i vietnamiti insediarono a Phnom Penh. Per quindici anni, dal 1979 al 1994, i khmer rossi continuarono a tormentare i cambogiani, colpevoli di non essersi fatti massacrare fino all’ultimo, con una spietata guerriglia operando da basi poste in Thailandia, e la Thailandia è un paese sotto l’influenza americana, continua ad essere la testa di ponte degli Stati Uniti nella penisola indocinese. Dal ’94 si è avviato sotto l’egida dell’ONU un "processo di pacificazione", ma nessuno, tanto meno gli ispettori delle Nazioni Unite, è riuscito finora a vedere cosa facciano i khmer rossi nelle zone del paese di cui hanno ripreso il controllo grazie all’attivo appoggio americano, ed a tornare vivo per riferire, senza contare che, tranne che per gli esigui aiuti che poteva passare il Vietnam, anch’esso alle prese con giganteschi problemi di ricostruzione, la Cambogia si è trovata fino al ’94 in una situazione di totale isolamento internazionale voluto da Cina e Stati Uniti, un paese stremato, con problemi economici, sanitari, alimentari enormi, che per quindici anni ha avuto il triste primato della più alta mortalità infantile nel mondo.

Con che coraggio si può parlare di anticomunismo da parte americana quando per quindici anni per volontà della Cina e degli Stati Uniti, persino il seggio della Cambogia alle Nazioni Unite è stato occupato dai khmer rossi, il che, ha commentato qualcuno, è come se il compito di rappresentare il popolo ebraico fosse stato affidato alla Germania nazista.

Non è, ovviamente, tutto; nel 1997 una Gran Bretagna ormai del tutto immemore del proprio passato imperiale, ha ceduto Hong Kong alla Cina comunista nonostante l’espressa volontà, più volte ribadita, della colonia, sei milioni di schiavi in più che sono stati regalati alla più grande fra le tirannidi superstiti del nostro pianeta. E’ impensabile che questa infame nemmeno transazione, ma elargizione liberale al Moloc di Pechino sia avvenuta senza l’approvazione degli Stati Uniti.

Sappiamo che, è un dato di fatto, gli Stati Uniti sono molto meno bravi di quanto lo fosse l’Unione Sovietica nell’orientare l’opinione pubblica mondiale in senso a loro favorevole e che, ad esempio, il tentativo di sollevare l’opinione pubblica planetaria contro l’invasione sovietica dell’Afganistan nel 1979 fu una penosa caricatura delle abili campagne propagandistiche orchestrate dall’Unione Sovietica e dal comunismo internazionale contro l’intervento americano in Vietnam, ma il silenzio che avvolge da mezzo secolo la sorte del Tibet fagocitato dai cinesi con incredibile brutalità, e dove da mezzo secolo è in atto una campagna di cancellazione della cultura, della lingua, della stessa etnia tibetana, fa ugualmente riflettere, e rientra fra le negligenze colpevoli di coloro che vogliono presentarsi come i campioni del "mondo libero".

Ma una vile acquiescenza se non proprio un’aperta complicità verso i crimini comunisti rientra per così dire nelle tradizioni della "più grande democrazia del mondo". Non si possono dimenticare quei tragici mesi della primavera del 1945 che videro, assieme alla conclusione in Europa del secondo conflitto mondiale, l’attuazione da parte degli slavo-comunisti di un piano senza dubbio preparato da tempo di "pulizia etnica" che aveva lo scopo di allargare verso occidente i confini del mondo slavo. Migliaia di italiani e di tedeschi, popolazione civile, donne, vecchi, bambini furono massacrati in maniera orribile, e milioni di altri furono costretti ad abbandonare la loro terra, le loro case, i loro averi per sottrarsi alla stessa sorte, in Istria, Dalmazia, Fiume, nella Prussia, nella Pomerania, nella Slesia; non come si cercò di millantare in seguito, isolati episodi di rappresaglia, ma l’attuazione di un piano su grande scala che aveva il preciso scopo di cancellare la presenza tedesca ad est dell’Oder e quella italiana ad est dell’Isonzo. E’ credibile che gli alleati occidentali, gli stati Uniti la cui aviazione era padrona dei cieli d’Europa ed i cui ricognitori arrivavano dappertutto, nulla sapessero e nulla potessero?

Allora l’America scelse di credere alla buona fede di Stalin, e le conseguenze le conosciamo tutti, l’Europa le ha scontate sulla sua pelle per mezzo secolo. Riguardo alla politica americana, recente e remota, si è spesso parlato di politica imperialistica, ma nessuno mai si è sognato di parlare di politica imperiale.

Se l’America, da quella grande potenza quale è, fosse in grado di condurre una politica davvero imperiale, ben poco vi sarebbe da eccepire, ma a tanto le mancano i mezzi intellettuali, non certo quelli materiali, la lungimiranza, la duttilità, la chiarezza di scopi e strategie, al punto da sboccare spesso in una politica autolesionista, perché in definitiva la recente acquiescenza verso la Cina comunista non ha fruttato nulla, come nulla fruttò mezzo secolo fa quella verso Stalin.

Dell’Europa gli americani non capiscono nulla, come hanno dimostrato anche i recenti interventi nella crisi della ex Jugoslavia.

Sui motivi che hanno spinto gli Stati Uniti a sposare la causa di croati e mussulmani contro la Serbia, si può solo fare un’ipotesi, che gli Stati Uniti, favorendo la nascita di uno stato bosniaco a maggioranza mussulmana (ma con forti componenti serbe e croate), abbiano ripagato l’appoggio fornito loro dai paesi arabi moderati, Arabia Saudita in testa, durante la guerra del Golfo, comunque sulla base di motivazioni che con la situazione della ex Jugoslavia non hanno nulla a che fare. Che i serbi, come del resto i croati ed i mussulmani, si siano resi colpevoli delle loro brave atrocità, questo è innegabile, ma far passare croati e mussulmani per "i buoni" è semplicemente ridicolo. Parliamo soprattutto di quel gran campione di democrazia che è il presidente croato Tudjman. Non sarà probabilmente difficile ricordare con quanta tracotante millanteria, quando nel ’92 l’offensiva serba si avvicinava alla costa dalmata, i croati, reclamando l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla possibile distruzione di campanili, chiese, monumenti della Dalmazia, vantavano le meraviglie dell’"arte croata", "arte croata" a cui i loro avi non avevano contribuito nemmeno con la collocazione di un sasso, perché l’arte della costa dalmata è arte veneziana, di terre che fecero parte della Serenissima fino al 1796, etnicamente italiane fino al 1945 (anche se non ci furono riconosciute a Versailles) e dalle quali gli italiani furono scacciati come sappiamo.

Peggio, poco tempo dopo Tudjman cercò di declassare legalmente gli italiani di Fiume (che sono il vero ceppo originario della città) da "minoranza" a "immigrati", privandoli di ogni forma di tutela e diritti. Dal momento che la NATO era schierata con i Croati, c’è da chiedersi a cosa serve il Patto Atlantico oggi che l’Unione Sovietica non esiste più, a farci pisciare in testa da figuri come Tudjman, oltre che dagli assassini del Cermis e coloro che li hanno assolti?

Gli Stati Uniti si muovono spesso sulla scena politica mondiale come un elefante in una cristalleria. Un principio che sembra vincolare in maniera molto rigida, dogmatica, la politica estera americana, è quello dell’intangibilità delle frontiere disegnate a Yalta. L’intangibilità delle frontiere non è un valore in sé, ma semmai uno strumento per preservare la pace; quando, come spesso accade, si trasforma in un boomerang da questo punto di vista, si dovrebbe avere il coraggio di prescinderne.

L’incontro di Yalta che sancì la spartizione del mondo fra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, cioè fra gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica e le briciole a Francia e Inghilterra, non fu la sommità della saggezza umana ma, su scala planetaria, la spartizione del bottino fra una banda di ladri, in esso si dimostrò molta minore saggezza nel disegnare gli equilibri planetari di quanta non si dimostrò a Versailles nel 1919 od a Vienna nel 1815, ed è assurdo che, specialmente oggi dopo la caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti se ne sentano vincolati come se fosse il vangelo.

E’ questo atteggiamento, tra l’altro, a rendere impossibile la soluzione della crisi della ex Jugoslavia, soprattutto quando non si ha la flessibilità mentale per capire che quando frontiere nate come amministrative diventano confini politici, come è avvenuto a quelle fra le ex repubbliche jugoslave, cambiano completamente di significato. Cosa c’è di più assurdo che pretendere di negare ai serbi di Pale il diritto di ricongiungersi alla Serbia, e nello stesso tempo di negare agli albanesi del Kossovo il diritto a distaccarsi da essa? I paraocchi americani e l’assenza di una politica europea hanno contribuito a trasformare l’ex Jugoslavia in una polveriera permanente, ma soprattutto non si è voluto andare a fondo sui veri motivi della crisi jugoslava perché, forse, avrebbero messo in luce molte cose che non riguardano solo quello sfortunato paese, e che a troppi fa comodo ignorare. Come non si è voluto fare i conti con il comunismo quando era in vita in Europa (perché, grazie a Dio, esistono ancora la Cina e Cuba, come cellule cancerose che minacciano forse nuove metastasi), ed ammettere apertamente che esso non era altro che un’atroce tirannide, così non si vogliono fare i conti con l’eredità del comunismo.

Anni fa ho avuto il piacere di conoscere personalmente la dottoressa Jagoda Savic, un’ex sociologa dell’università di Belgrado ed attualmente persona non grata al proprio governo, dalla quale ho potuto avere informazioni di prima mano preziose per capire cosa sia veramente successo nell’ex Jugoslavia. La dottoressa Savic ha raccolto una documentazione impressionante sul crescendo di attacchi ad altri gruppi etnici sulla stampa delle repubbliche jugoslave dalla morte di Tito al ’91, nonché prove del fatto che le prime bande di guerriglieri che hanno dato l’avvio al conflitto sono state formate con criminali tratti apposta dalle prigioni dove erano detenuti per reati violenti.

In poche parole, la classe dirigente ex jugoslava ha fabbricato a tavolino il conflitto interetnico, ed i motivi non sono certo incomprensibili: in tal modo, scatenando i popoli ex jugoslavi in una lotta fratricida, essa, gli uomini della nomenklatura comunista, sostituendo la bandiera rossa con quella dell’odio etnico, è riuscita a mantenersi al potere invece di venire cacciata a pedate come è successo agli altri "socialismi" dell’Est.

Milossevich, il padrone della Serbia, il "nuovo Tito", ma anche il presidente croato Tudjman ed il bosniaco Isetbegovich hanno tutti un passato di dirigenti della "lega dei socialisti", come si chiamava il partito comunista jugoslavo. E’ assurdo far recitare "ai serbi" la parte dei cattivi per antonomasia. La classe dirigente serba ha certo delle pesanti, sanguinose responsabilità, ma quelle bosniaca e croata non ne hanno di meno.

Sempre questo dogmatismo dell’intoccabilità dei confini stabiliti a Yalta impedisce che si possa anche soltanto pensare di avviare ad una qualche soluzione il problema curdo. In un Medio Oriente in cui l’islamizzazione ha comportato anche l’arabizzazione delle popolazioni mesopotamiche, siriache, nordafricane, i Curdi hanno continuato a rappresentare una delle poche realtà che si possono definire nazionali nel senso occidentale dell’espressione.

Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, il trattato di Sevres pose fine al dominio ottomano in Medio Oriente, non si tenne alcun conto dei Curdi, che si trovarono spartiti fra quattro stati: Siria, Turchia, Iran ed Irak. Negli ultimi settant’anni il popolo curdo è stato duramente perseguitato in tutti e quattro, e Yalta non è stata certo fatta per rimediare agli errori di Versailles.

Gli americani sono arrivati sono arrivati, dopo la guerra del Golfo e gli eccidi compiuti da Saddam Hussein a creare a protezione del Kurdistan iracheno una no fly zone, una zona che gli aerei militari iracheni non possono sorvolare senza rischiare l’abbattimento, ma ben altra cosa sarebbe stata, in un momento psicologicamente e politicamente favorevole, la creazione almeno di un embrione di stato curdo, avrebbe significato quanto meno un primo concreto indebolimento del rais di Baghdad. Cosa vi si è opposto? Il solito dogma dell’intangibilità dei confini, per quanto assurdi ed innaturali possano essere.

Ultimamente l’Italia è stata coinvolta nel problema curdo con la presenza del leader del PKK (il partito rivoluzionario curdo) Ocalan. Ocalan, cui l’Italia alla fine ha rifiutato asilo, è un terrorista? Se lo è, anche Garibaldi e Guglielmo Oberdan lo erano. E’ possibile contro queste persone invocare un criterio etico più alto della sopravvivenza della propria gente? Io penso che non ve ne sia alcuno.

In tutta onestà, non posso dire di avere una buona opinione dell’attuale governo di sinistra, ma mi aspettavo almeno che avesse più testicoli dei capponi democristiani che l’hanno preceduto; ebbene, palesemente, non concedendo il permesso di soggiorno ad Ocalan, ha dimostrato di essersi lasciato intimidire dalle minacce turche, dagli Stati Uniti, dalla NATO, rinunciando ad inviare quello che sarebbe stato un segnale forte a favore della causa del popolo curdo: decisamente, questo governo è riuscito a dimostrare di coniugare la tabe della sua origine comunista con l’acquisizione dei peggiori difetti democristiani.

Sarà forse il caso di ricordare che l’ultima volta che si ebbe un confronto militare fra Italia e Turchia, nel 1911 –12, infliggemmo ai Turchi una batosta memorabile (per non menzionare altre cosucce più remote, come Lepanto o la vittoria sui Turchi del principe Eugenio di Savoia) ma quelli erano altri tempi, e soprattutto un’altra Italia.

Se pensiamo a quale è e quale è stata nel recente passato la politica estera americana e la politica che gli Stati Uniti hanno imposto agli europei in Medio Oriente, non si può far altro che considerare quanto spesso la tragedia assume i colori della farsa. Gli Stati Uniti sono alla ricerca di antagonisti, ne hanno bisogno per svariati motivi: per tenere legati a sé gli alleati, per giustificare l’esistenza di un apparato militare ciclopico, per coprire le scappatelle sentimentali dei presidenti, ma ieri l’Irak, oggi la Serbia sono dei ben miseri sostituti dell’Unione Sovietica. Poiché viviamo in un mondo dominato dalla legge del più forte ed è inutile illudersi che non sia così, non possiamo negare ad un elefante il diritto di schiacciare una pulce, ma che abbia almeno la decenza di non fingere che si tratti di un pachiderma di stazza analoga alla sua. Un dato illustra con chiarezza quali erano i rapporti di forza nella guerra del Golfo: oltre il 70% delle perdite della coalizione alleata, che del resto furono esigue, fu dovuto al cosiddetto friendly fire, cioè quando i tuoi ti sparano addosso per sbaglio.

La partecipazione italiana a questo conflitto fu una cosa talmente grottesca da far venire voglia di sprofondare sotto terra solo a ricordarlo: partecipammo con un nutrito contingente di sei (diconsi sei!) aerei Tornado, un modo per dire, molto italianamente, siamo in guerra e non ci siamo, e quando uno di essi fu abbattuto dalla contraerea (e i due piloti recuperati incolumi dagli iracheni), ecco scatenarsi in tutta Italia un’ondata di mammismo piagnucoloso, tanto più disgustoso e ridicolo nel momento in cui i paesi che erano impegnati sul serio nel conflitto (iracheni e alleati) contavano fra le loro file migliaia di morti.

Ogni paese ha una politica estera, oltre che per tutelare i propri interessi, anche per salvaguardare la propria immagine nel mondo, l’Italia democrista, comunista, ulivista (che è poi sempre la stessa minestra rancida riscaldata non so quante volte) sembra che abbia una politica estera per farsi ridere dietro, mi vengono in mente d’emblee le sanzioni prima promulgate e poi ritirate all’Argentina al tempo della guerra delle Falkland, e le olimpiadi di Mosca del 1980 che, per protesta contro l’invasione sovietica dell’Afganistan, furono boicottate da tutto il mondo occidentale. L’Italia non vi andò, ma vi partecipò il CONI che, come tutti sanno, è il comitato olimpico di Marte!

Mi capita a volte di provare un certo fastidio all’idea che una severa critica a quella parte della destra che per spirito conservatore dà un’adesione incondizionata alla NATO possa essere scambiata per quella che viene portata avanti dai rottami del comunismo, un equivoco che trovo francamente urtante, specialmente in questi giorni in cui la crisi del Kossovo ha creato su questo tema un’apparente convergenza di posizioni, ma il punto è questo: sono loro ad essere incoerenti, non certamente quanti, e non credo di essere un caso isolato, criticano da destra l’Alleanza atlantica e la dipendenza dagli Stati Uniti. Poniamoci infatti una domanda molto semplice: cosa comporterebbe per l’Italia o per qualsiasi altro paese europeo dell’Alleanza un’eventuale uscita dal Patto Atlantico? Significherebbe in primo luogo che l’Italia dovrebbe provvedere da sé alla propria difesa, la difesa nazionale dovrebbe smettere di essere la cenerentola del pubblico bilancio, si dovrebbe richiedere un atteggiamento più professionale ai ragazzi di leva ed a tutte le componenti delle nostre forze armate, si andrebbe insomma in una direzione esattamente contraria a quel pacifismo imbelle e sbracato da cui, assieme al riflesso condizionato dell’antico amore per l’Unione Sovietica di cui è rimasta orfana, la sinistra insieme al "mondo cattolico" trae i suoi umori anti- NATO, e si porrebbe con più chiarezza l’esigenza di un esercito professionale, si dovrebbe andare insomma verso un’Italia un pochino più caserma e un po’ meno sacrestia. In prospettiva, se un simile passo fosse compiuto da più paesi europei, si creerebbero la possibilità e l’esigenza di sostituire il ramo europeo della NATO con un sistema di difesa europeo.

Il primo attributo della sovranità di qualsiasi stato è la capacità di autodifesa militare; la creazione di un sistema di difesa europeo, con cui la sussistenza della NATO è incompatibile, sarebbe un passo avanti verso l’unità europea molto più reale e significativo dell’integrazione economica e dell’introduzione dell’Euro.

Due stati europei raggiunsero l’unità nazionale nel corso del XIX secolo, l’Italia nel 1861 e la Germania nel1871, per due vie diverse: in Germania l’unità economica precedette l’unificazione politica con la creazione nel 1834 della Zollverein, l’Unione Doganale. In Italia, la questione dell’unificazione economica della penisola fu rimandata a dopo la creazione dello stato nazionale, e neppure oggi, visti gli squilibri che permangono tra nord e sud, si può dire pienamente risolta, meglio allora scegliere per l’Europa un modello di unificazione "tedesco" piuttosto che "italiano", dando la precedenza all’integrazione economica. Così sembra abbiano ragionato i fondatori dell’Europa comunitaria. Logico, no? E invece è ridicolo! Per prima cosa, non si sarebbe mai passati dall’unione doganale all’impero germanico senza la genialità politica e la tenace determinazione di Bismark. Vedete voi un Bismark fra gli attuali uomini politici europei?

In secondo luogo, l’unificazione tedesca non si è costruita in modo indolore, ma è avvenuta attraverso tre guerre: la guerra dei ducati con la Danimarca, la guerra austro-prussiana del 1866, la guerra franco-prussiana del 1870. Giovani tedeschi in divisa hanno combattuto e sono caduti (come nel risorgimento italiano) perché la Germania potesse nascere. Quanti fautori dell’Europa come mercato delle vacche sono pronti a dare la vita per essa?

L’unità politica dell’Europa è un obiettivo che va perseguito indipendentemente dall’integrazione economica. Noi vogliamo, noi non cessiamo di volere un’Europa unita, forte, autorevole a livello planetario, e sappiamo bene che ogni cosa ha il suo prezzo.

 

Nestore

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