Lo spazio del guerrigliero culturale

 

L’anomalia italiana

Gli stranieri non vivono la situazione dell’Italia, non la conoscono dall’interno, ed è probabile che man mano che si andrà avanti nel tempo, man mano che i cosiddetti ex comunisti avranno modo di consolidare sempre più il loro regime, gli italiani si vedranno sempre più privati delle informazioni e delle conoscenze necessarie per capire cosa è avvenuto e cosa veramente avviene nel loro paese. E’ necessario che chi è ancora in grado di capire e di spiegare lasci una testimonianza.

Rispetto alla normalità rappresentata dalle democrazie dell’Europa occidentale, quanto è avvenuto in Italia a partire dalla fine degli anni ’80 rappresenta un’anomalia, anzi un paradosso, che un giorno, se e quando saremo in grado di pensare di nuovo liberamente e di cercare le cause degli eventi, contempleremo con stupore.

"Come è possibile", ci si domanderà, "che proprio a partire dal momento in cui il crollo del muro di Berlino e la sparizione dell’impero sovietico, da un lato toglievano gli ultimi veli sull’atroce realtà totalitaria del comunismo, dall’altro ne mostravano il totale fallimento, il crollo sotto il suo stesso peso di questo gigante impastato di lordura e sangue, gli Italiani, il popolo non di un piccolo staterello del Terzo Mondo, ma di una grande democrazia industriale, decidessero di affidare proprio nelle mani dei confratelli, degli eredi, dei continuatori di tale mostruosità fallimentare il proprio destino?"

La risposta ad un simile interrogativo coinvolge da un lato il ruolo del comunismo nella storia europea, dall’altro la specificità della storia italiana. Preliminarmente bisogna chiedersi perché la verità ovvia che il comunismo è stato, è in quelle parti del mondo dove ancora malauguratamente sussiste, una tirannide, od un insieme di tirannidi totalitarie che per brutalità del proprio dominio, violazione sistematica dei diritti umani, violenza come sistema, oppressione, penetrazione capillare in ogni aspetto della vita associata, schiavizzazione delle coscienze dei propri sudditi, nulla ha dimostrato di dover imparare dal fascismo, dal nazionalsocialismo o da altre dittature, e di essere semmai un ineguagliato maestro, ha messo tanto tempo per affermarsi nella coscienza del mondo occidentale, pur essendo una verità sotto gli occhi di chiunque si degnasse di considerare i fatti.

Bisogna considerare la situazione dell’Europa all’indomani della seconda guerra mondiale, guerra da cui l’Europa è uscita distrutta, immiserita, spodestata dal suo ruolo tradizionale di luogo delle grandi potenze del pianeta, dopo aver sostenuto una lotta durissima per cancellare le dittature fascista e nazista solo per trovarsi alla mercé di un’altra, più temibile tirannide totalitaria e protetta, almeno la parte di essa che gli accordi di Yalta non avevano consegnato all’impero sovietico, soltanto dall’"ombrello nucleare" americano. Per mezzo secolo è stato solo quest’ultimo che ha impedito ai carri armati sovietici di marciare fino alle sponde dell’Atlantico. Una minaccia permanente, e tuttavia permanentemente tenuta in scacco dalla consapevolezza che una guerra di vasta portata in Europa si sarebbe tradotta in un conflitto nucleare che non sarebbe stato di alcun vantaggio per gli aggressori, ma si sarebbe risolto in un’universale distruzione.

Cos’era più naturale, in simili circostanze, di arrivare ad una vera e propria rimozione psicanalitica della minaccia latente dall’est, tuttavia evidente, negare che l’impero comunista avesse intenzioni ostili nei confronti del mondo occidentale, negare perfino, o quanto meno cercare di attenuare e giustificare il carattere tirannico dell’autocrazia sovietica e dei regimi imposti ai "paesi satelliti"?

Bisogna aggiungere che questa tendenza della coscienza europea a proiettarsi in una dimensione falsa rispetto al pericolo comunista è stata abilmente incoraggiata ed alimentata dagli stessi sovietici e dalla loro creatura, il comunismo internazionale, approfittando della chiara asimmetria della situazione, per la quale la propaganda dall’est raggiungeva l’Europa occidentale senza difficoltà, mentre le informazioni dall’ovest dovevano oltrepassare, nel mondo comunista, una barriera pressoché insormontabile.

C’è una cosa che è importante comprendere a questo punto: per gli occidentali la situazione internazionale creatasi cogli accordi di Yalta poteva essere definitiva, ma per l’impero sovietico, essa non poteva rappresentare che una fase temporanea di arresto del progetto di conquista planetaria, e questo per la natura stessa del comunismo.

Bisogna fare credito ai dirigenti sovietici almeno di una cosa: che quella realtà di miseria e di oppressione che la caduta del muro di Berlino ha esposto agli occhi di tutto il mondo dovesse essere loro nota da gran tempo, così come essi dovevano essere giocoforza consapevoli che essa dipendeva dalla natura stessa del loro potere.

Lo strumento del successo delle democrazie occidentali ad economia di mercato è, è sempre stato, la valorizzazione massima dei talenti individuali; al contrario, società come quelle comuniste basate sull’economia di piano, non potevano produrre che il livellamento dei talenti e delle attitudini, un "terreno di coltura" nel quale, obbiettivamente non hanno potuto germogliare nuove idee e progressi tecnologici, in assenza dei quali non c’è crescita dell’economia e per conseguenza miglioramento delle condizioni di vita della gente. Sarà provocatorio, ma non è certo inesatto dire che l’unica fonte di progresso tecnologico dell’impero sovietico è stata, fra il 1945 ed il 1991, lo spionaggio industriale nei confronti del mondo occidentale.

In queste condizioni, il progettato assoggettamento dell’Occidente libero doveva assolvere due funzioni fondamentali, per prima cosa, fornire all’impero sovietico quelle risorse di cui aveva bisogno e che, fino agli anni ’60 esso aveva spudoratamente succhiato dai "paesi fratelli", alcuni dei quali, come la Cecoslovacchia e la Germania dell’est, avevano avuto, prima dell’avvento del comunismo, un elevato sviluppo industriale; secondariamente, la prospettiva di una "rivoluzione proletaria" costantemente rimandata ma più o meno imminente aveva un importante valore propagandistico agli occhi dei sudditi dell’impero sovietico e dei regimi vassalli, si poteva cioè far credere che le ristrettezze in cui essi vivevano dipendevano dalla necessità di concentrare gli sforzi nella lotta contro il "bieco capitalismo" e che una volta abbattuto l’avversario, ci sarebbe stato per tutti il paradiso in terra.

Consapevoli dell’impraticabilità di una via militare per l’assoggettamento del mondo occidentale, i sovietici hanno investito tutte le loro energie nell’infiltrazione ideologica, nella propaganda, nella conquista delle coscienze, nella creazione in tutto il mondo occidentale di movimenti comunisti, da essi finanziati e controllati, approfittando di quella libertà di pensiero che l’Occidente accordava a chiunque, anche a chi intendesse servirsene solo per negarla agli altri. Il "famoso" ’68 è stato il momento del massimo sforzo di penetrazione ideologica, arrivato oltre tutto nell’Europa occidentale di rimbalzo, come tante altre "mode" nate negli Stati Uniti, dove la "contestazione" era nata dalla paura di giovincelli benestanti e viziati di essere inviati a partecipare ad una guerra che in verità non aveva nulla di aggressivo, ma mirava da parte americana solo ad impedire che il Vietnam del sud cadesse sotto il tallone comunista.

Da quel gigante deforme che era, l’impero sovietico è finito per crollare sotto il suo stesso peso, anche se le atrocità del comunismo continuano a perpetuarsi altrove, soprattutto in Cina, forse perché qui il comunismo non ha ancora finito di vampirizzare le energie di un popolo cinque volte più numeroso di quelli che componevano il mosaico sovietico e dell’Europa dell’est.

Bisogna dire che, come l’Europa ha ignorato scientemente per mezzo secolo la minaccia sovietica, così la vittoria sul nemico dell’est le è arrivata senza essere stata cercata ed in maniera quasi inconsapevole, senza coscienza della propria superiorità non solo economica, ma morale, perché gli europei dell’est ed i russi, appena ne hanno avuto l’occasione, si sono liberati della tirannide comunista non solo per il desiderio di un maggiore benessere, ma anche in nome di quella libertà e quel rispetto dei diritti umani che gli stati dell’Occidente garantiscono ai loro cittadini. Questa inconsapevolezza della superiorità non solo economica ma anche etica delle liberal-democrazie occidentali ad economia di mercato sul comunismo è essa stessa un pericolo, perché non solo ha consentito ai comunisti dell’est e dell’ovest di "riciclarsi" con sorprendente rapidità, di "rifarsi una verginità" nel giro di una notte come neofiti dei diritti umani, delle libertà civili, del pluralismo e quant’altro, ma continua anche a lasciare l’Europa indifesa di fronte ad altre minacce totalitarie (una per tutte, quella rappresentata dal fondamentalismo islamico).

Sarebbe stato certamente di gran lunga più desiderabile che in tutto il mondo occidentale i comunisti o presunti ex fossero sbugiardati, ridicolizzati, costretti a revisioni di ben altra portata di quelle che sono avvenute, che si strappasse il velo del troppo tempestivo travestimento da "socialisti" o "socialdemocratici" in cui si sono frettolosamente avvolti, ma in quasi tutto il mondo occidentale essi costituiscono oggi una presenza marginale e screditata, tranne che in Italia, dove la caduta dell’impero sovietico li ha addirittura portati al governo.

Come è potuta avvenire una simile assurdità? Siamo forse il paese dove il fuoco bagna, l’acqua brucia e piove all’insù?

E’ chiaro che una risposta a questa domanda va cercata nella peculiarità della nostra storia nazionale.

Diceva Karl Popper che la democrazia è quel sistema a cui è consentito ai cittadini di cambiare senza violenza, con mezzi legali e previsti dal sistema le forze politiche al governo. Questa definizione della democrazia, apparentemente semplice, persino banale, è più pregnante di quanto non sembri a prima vista. La grande forza della democrazia consiste proprio nel costringere coloro che governano a comportarsi decentemente, grazie al timore di non essere rieletti e perdere il potere, è un sistema di garanzie ottenute dai governati nei confronti dei governanti, proprio perché il potere corrompe e cedere alle tentazioni è umano: la grande forza della democrazia consiste proprio nel fatto di considerare la natura umana per quello che è, non per quello che si vorrebbe che fosse.

Se questa definizione è valida (e se non lo è, bisogna buttare alle ortiche tutto il pensiero liberale ed illuminista, da Locke a Voltaire a Tocqueville), allora bisogna ammettere che l’Italia nella sua storia millenaria non ha mai davvero conosciuto la democrazia, e non la conosce al presente.

Bisogna in primo luogo ricordare che l’Italia è stata per un lunghissimo arco di secoli priva di unità nazionale e sottomessa a dominatori stranieri, e questa situazione non è stata priva d’influenze profonde sul nostro costume e quella che potremmo chiamare la mentalità basale degli italiani. Se altrove lo stato è stato visto e sentito come la res publica, la cosa pubblica, ciò che è patrimonio comune di tutti, per gli italiani lo stato si è presentato per secoli con la faccia torva dell’oppressore straniero, e rimane ancora, in fondo, un potere da blandire ed adulare nella speranza di servirsene, ma percepito ancora come estraneo e nemico, complice forse anche più che altrove, una burocrazia che non si sente al servizio ma al di sopra del cittadino. Alla metà del secolo scorso, quando in tutta Europa erano in corso le grandi lotte per la libertà ed i diritti civili, quando in Inghilterra e negli Stati Uniti si erano già fatti passi sostanziali per la creazione di una moderna democrazia, quando i francesi avevano già il Suffragio Universale, in Italia lo stato nazionale era ancora un vago progetto nella mente di alcuni membri di una ristretta elite.

Lo stato liberale nato dalle lotte risorgimentali è rimasto sin troppo a lungo una realtà estranea alle masse popolari ed alle classi lavoratrici. L’ovvia, indispensabile premessa per la trasformazione di uno stato liberale in una democrazia, il suffragio universale (parliamo in questo caso, è ovvio, del suffragio universale maschile) fu introdotta soltanto nel 1912 da Giovanni Giolitti, ed era troppo tardi, subito dopo arrivò la prima guerra mondiale (con l’inevitabile sospensione della normale vita istituzionale), seguita poi dalla lunga parentesi fascista e da un nuovo, disastroso conflitto mondiale.

Bisogna dire che fino all’ottobre 1917, fino alla presa del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo, fino al colpo di mano militare di Lenin e Trozkij, gabellato poi per rivoluzione, che non abbatté l’impero zarista in Russia, bensì la fragile democrazia che gli era succeduta in seguito alla rivoluzione di febbraio – la sola rivoluzione che sia realmente avvenuta in Russia nel 1917 - i termini destra e sinistra avevano nella nomenclatura politica un significato chiaro e preciso. Per tutto l’ottocento ed il primo ventennio del novecento, ma si potrebbe risalire fino alle rivoluzioni inglesi del 1640 e 1688, a sinistra stavano i liberali, i democratici i fautori dello stato rappresentativo, dei diritti civili, delle libertà politiche e sindacali, dell’uguaglianza dei cittadini, delle riforme sociali, a destra i sostenitori dell’autocrazia, del privilegio, del potere elitario. Ora, e da allora in poi, un’autocrazia totalitaria, che nei fatti rivendicava o si appropriava del diritto di gestire un immenso paese nell’esclusivo interesse dei membri dell’elite che la componeva, che si proponeva come primo obiettivo l’annientamento delle libertà civili, dei diritti umani, di ogni forma di dissenso, si proclamava di sinistra, innalzava come proprio simbolo una bandiera rossa che era in realtà una filiazione più diretta di quella con cui i negrieri aprivano il passaggio alle colonne di schiavi, che non di quella che aveva sventolato sulle lotte democratiche e sociali dell’ottocento, e milioni di democratici, di lavoratori, d’intellettuali, in tutto il mondo, cadevano nell’equivoco, anzi nella trappola, una trappola dalla quale ancora oggi non tutti sono riusciti ad uscire.

Per l’Italia la seconda guerra mondiale ha significato qualcosa di più e di peggio di una sconfitta. Non si possono di certo tacere o minimizzare le responsabilità del fascismo nell’aver trascinato in guerra a fianco di "un alleato coi denti di lupo" ed in un’alleanza innaturale e malvista con i nostri nemici e contro i nostri tradizionali alleati non solo della Grande Guerra, ma di tutte le lotte risorgimentali, un paese riluttante e stremato che aveva già dato fondo alle sue risorse nel conflitto abissino e nella guerra civile spagnola, ed in cui l’indubbio valore dei nostri soldati ben poco poteva fare per colmare l’enorme ed umiliante disparità di mezzi rispetto al nemico, ma non va nemmeno dimenticato che l’otto settembre 1943 resta comunque una pagina vergognosa non per il "tradimento" nei confronti del fascismo e dell’"alleato" tedesco che da parte sua aspettava solo il momento di poterci trattare alla stregua degli altri popoli assoggettati d’Europa, ma per aver offerto l’inedito spettacolo di un sovrano e di un governo disertori, di un esercito lasciato senza ordini, di un paese abbandonato in balia del destino e delle avverse forze contendenti.

Tutto questo giungeva come sale su di una ferita aperta su di un paese la cui unità nazionale era ancora nei fatti un’esperienza recente, e che non aveva mai sperimentato la democrazia come effettiva partecipazione popolare alla vita pubblica, che non aveva mai provato la res publica come proprio strumento per il bene comune, ma solo lo stato padrone, ora paternalistico, ora oppressore.

Se possiamo trarre dalla storia recente elementi che ci aiutino a comprendere meglio il passato, allora l’ultimo decennio della storia europea dovrebbe averci insegnato soprattutto una cosa, che non basta creare uno stato per creare una nazione, che la vita dei popoli è legata a movimenti e ritmi profondi che travalicano le generazioni, se è vero che gli Slovacchi hanno aspettato solo la fine dell’autorità esterna sovietica per separarsi dai Boemi, e che gli ex Jugoslavi appena hanno potuto farlo, sono tornati a scindersi nei clan reciprocamente ostili di Serbi, Croati, Bosniaci, Sloveni, Macedoni.

Gli italiani avevano visto uno stato nazionale che aveva tenuto per ottant’anni la maggior parte di loro ai margini della vita civile disgregarsi lasciandoli nelle peste, ed avevano conosciuto l’esperienza della guerra civile fra gli antifascisti ed il temporaneamente rinato fascismo di Salò. Che le forze emergenti del paese nel dopoguerra fossero la Democrazia Cristiana ed il PCI, vale a dire le forze che si richiamavano, che erano inserite nelle due maggiori organizzazioni sovranazionali d’Europa, la Chiesa cattolica e l’Internazionale comunista, forze estranee entrambe alla tradizione nazional-liberale, non è cosa che possa stupire.

Ma per capire fino in fondo quali piaghe la seconda guerra mondiale abbi aperto nel già sfilacciato e precario tessuto connettivo dell’Italia, è necessario comprendere anche un’altra cosa: la presunta unità antifascista non è mai esistita se non come puro tema propagandistico. Nel 1939-45, su scala europea e su scala italiana, non si sono fronteggiate due fazioni, ma tre.

Ciò era emerso chiaramente già nel conflitto civile spagnolo, considerato a ragione da molti storici la "prova generale" della guerra mondiale. Ciò che facilitò enormemente la vittoria del generale Franco fu la "guerra civile nella guerra civile" condotta dai comunisti contro gli altri repubblicani, forze di sinistra, socialisti ed anarchici compresi (Da un certo punto di vista, è stata forse l’ultima occasione per comprendere quanto falsa e menzognera sia l’etichetta di cui i comunisti si appropriano quando si proclamano "di sinistra", ancora oggi, quando i sedicenti ex comunisti si proclamano "democratici di sinistra", riescono a dire due menzogne in due parole).

A differenza che nel conflitto spagnolo, nella seconda guerra mondiale, la sproporzione demografica ed industriale della Germania nazista rispetto ai colossi americano e sovietico era tale da poter consentire di escludere in partenza che la fazione fascista potesse uscire vincitrice, com’era avvenuto nel ristretto teatro iberico, ma rimane il fatto che la premessa della seconda guerra mondiale è stata il patto Ribbentropp-Molotov, l’accordo fra Hitler e Stalin e l’aggressione congiunta nazista e sovietica alla Polonia. E’ falso asserire che tale accordo avesse da parte sovietica solo finalità difensive, tanto è vero che per i sovietici esso rappresentò il via libera per l’annessione, oltre che di mezza Polonia, delle repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia, Lituania e della Finlandia che riuscì a salvare la propria indipendenza solo a prezzo di una lotta durissima, condotta in condizioni di un’incredibile sproporzione di forze. Che poi i due grandi ladroni della politica internazionale diffidassero l’uno dell’altro e che Hitler, sentendosi più debole e ritenendo a torto imminente la conclusione del conflitto con l'Inghilterra, attaccasse per primo, determinando quel rovesciamento delle alleanze che comportò l’inevitabile stritolamento del suo "Reich millenario", questo è un altro discorso. La strana alleanza fra nazisti e sovietici dal ’39 al ’41 ebbe effetti almeno bizzarri sui quali gli storici si sono raramente degnati di informare il pubblico, ad esempio, in Francia, dal giugno ’40 al luglio ’41 i comunisti poterono continuare le pubblicazioni del loro giornale, L’Humanitè, ed a loro volta ricambiarono il favore guardandosi bene dall’esprimere una qualsiasi forma di solidarietà verso gli ebrei, compresi quelli che erano loro "compagni", che già cominciavano ad essere vittime delle deportazioni.

Anche in Italia dopo l’otto settembre ’43, esattamente com’era avvenuto in Spagna, la guerra civile fu una guerra civile doppia, alla lotta contro tedeschi e fascisti si affiancò quella dei comunisti contro le formazioni partigiane fedeli al governo del sud, con episodi illuminanti che una storiografia in mano ai comunisti cerca oggi in tutti i modi di passare sotto silenzio, come quello di Porzus, località friulana dove i comunisti della sedicente "Brigata Garibaldi" (anche questo nome dovevano profanare!) massacrarono i partigiani della Brigata Osoppo, colpevoli di rifiutare l’inquadramento nel IX Corpus jugoslavo, atto che avrebbe prefigurato l’annessione alla Jugoslavia di tutta la Venezia Giulia fino al Tagliamento (c’era di mezzo, è chiaro, un pactum sceleris fra il PCI ed il maresciallo Tito, il dittatore jugoslavo, i comunisti italiani erano pronti a soddisfare le ambizioni territoriali jugoslave in cambio dell’aiuto a fare "la rivoluzione" in Italia), o gli episodi legati alla luminosa figura di quell’altro eroe della Resistenza che fu Salvatore Moranino, uso a sbarazzarsi dei partigiani "badogliani" denunciando i movimenti delle loro formazioni alle SS. Nel dopoguerra, per evitare noiosi impicci giudiziari su questo lato della sua attività resistenziale, il PCI pensò bene di proteggere il proprio campione con l’immunità parlamentare, facendolo eleggere senatore, ed onorando con tale gloriosa figura il neonato parlamento italiano, la cosa riuscì nel ’48, ma non nel ’53, e Moranino fuggì in Cecoslovacchia, dove ovviamente un "democratico" regime dell’est non poteva rifiutare la qualifica di "perseguitato politico" ad un ex confidente della Gestapo, e dove radio Praga gli affidò una rubrica il cui scopo era quello di svillaneggiare l’Italia non ancora piegatasi alla "rivoluzione proletaria".

La seconda guerra civile non terminò, a dire il vero, con la caduta del fascismo, ma là dove i comunisti potevano contare su di una presenza schiacciante, continuarono fino a tutto il ’46 a massacrare tutti coloro che erano sospettati, a ragione o a torto, di essere ferventi anticomunisti, il caso più noto è quello della lunga catena di delitti avvenuti in una zona dell’Emilia nota come "il triangolo della morte", e sulla quale storici preoccupati soprattutto che le nuove generazioni non sapessero hanno addensato un velo di mistero più fitto di quello che avvolge il triangolo delle Bermude.

D’altra parte, bisogna anche ricordare che strane "cadute in disgrazia" hanno costantemente perseguitato anche molto tempo dopo la guerra i partigiani non comunisti; l’esempio più clamoroso è stato forse quello di Edgardo Sogno, medaglia d’oro della Resistenza, ma anche fervente anticomunista ed impegnato nei primi decenni del dopoguerra in un’attività clandestina di soccorso a quanti cercavano di fuggire dai "paradisi dei lavoratori" impastati di terrore e sangue che i comunisti avevano costruito nell’Europa dell’est. Gliel’hanno fatta pagare, un magistrato leccapiedi del PCI, come tanti suoi colleghi, ha inventato di sana pianta un presunto tentativo di "golpe fascista", rivelatosi poi del tutto inesistente, in cui egli sarebbe stato coinvolto. La vita di un galantuomo è stata rovinata, ma quel magistrato leccapiedi, Luciano Violante, ha fatto carriera, ed è oggi presidente della Camera.

L’unità antifascista è un mito che non ha nessuna base reale, un mito creato nel dopoguerra dai comunisti per poter dare del fascista, con molta coerenza logica, a chiunque fosse/sia anticomunista.

La seconda guerra mondiale è stata una guerra ideologica, ma è stata anche una guerra etnica. In barba ai tanto proclamati principi dell’internazionalismo proletario, i comunisti sovietici e jugoslavi hanno perseguito la slavizzazione forzata rispettivamente della Prussia, della Pomerania, della Slesia e dell’Istria, della Venezia Giulia, della Dalmazia. E’ ovvio che i metodi impiegati dagli uni e dagli altri per "convincere" le popolazioni tedesche del Baltico e quelle italiane dell‘alto Adriatico ad abbandonare le loro case e le loro terre, sono stati il terrore e la violenza più brutali.

Le stime più prudenti fornite dagli storici della ex Jugoslavia sul numero degli italiani, colpevoli solo di essere tali, ed al preciso scopo di terrorizzare tutti gli altri, massacrati nelle foibe, così si chiamano gli inghiottitoi carsici che furono teatro di queste atrocità, si aggirano sulle decine di migliaia, ma è probabile che esse debbano essere aumentate almeno di un ordine di grandezza. La cosa più incredibile ed assurda, è che di tutto ciò, ad ovest del Tagliamento ed a sud del Po, ben pochi hanno sentito parlare. L’Italia ha perso la guerra, ma gli italiani del nord-est l’hanno persa molto più degli altri. Su queste verità "scomode" i comunisti hanno imposto una volta di più una pesante cappa di silenzio, solo ricordare o piangere quei morti significava/significa essere "fascisti", qualunque cosa, questa parola, che non ha ormai più nulla a che fare con il regime mussoliniano significhi nell’aberrante terminologia dei "compagni".

Certamente, la presenza del PCI come il più forte e meglio organizzato partito comunista dell’Occidente ha contribuito non poco ad impedire agli italiani di percepirsi come nazione unitaria per cui una ferita così grave inferta all’italianità della frontiera del nord-est dovrebbe coinvolgere tutti, ma si può anche pensare che è stata la debolezza del nostro "essere nazione" che ha consentito ai comunisti di dar vita in Italia alla più potente macchina soffoca-libertà dell’Occidente liberal-democratico, ma è sicuro che, quale che sia delle due cose a precedere l’altra, esse vanno insieme ed i loro effetti si sommano.

Un confronto viene spontaneo, quello con la Francia dal 1870 al 1918: la perdita dell’Alsazia e della Lorena fu sentita da due generazioni di francesi come una ferita personale, una piaga sempre aperta, il presidente francese Clemenceau diceva: "Non parlarne mai, ma pensarci sempre".

L’uomo che è stato l’artefice del sistema politico che ha retto l’Italia dal 1948 al 1991, nel bene e nel male, è stato Alcide De Gasperi. Parlando di De Gasperi, viene spontaneo il confronto con un altro uomo politico che ha inciso profondamente sul destino successivo dell’Italia, sia nel bene che nel male, e per il quale è difficile dire se prevalgano gli elementi positivi o quelli negativi, Giovanni Giolitti, ma De Gasperi era un uomo di levatura superiore a quella di Giolitti, ed inconfrontabile con quella degli uomini che gli sono succeduti, e forse uno dei pochi politici europei che gli possono essere confrontati per sagacia, astuzia, spregiudicatezza, è stato il cardinale Richelieu.

La genialità, e lo dico senza ironia, di De Gasperi, è stata quella di riuscire a creare un sistema politico che rispettasse l’apparenza formale della democrazia, stravolgendone completamente lo spirito. Bisogna ammettere in tutta onestà che dell’operato politico di De Gasperi non si può dare un giudizio totalmente negativo: data la situazione internazionale stabilitasi a Yalta, è probabile che l’Italia sarebbe rimasta in ogni caso nel campo occidentale, ma magari passando esperienze più truci, come una dittatura militare, com’è successo ad altri "anelli deboli" del Patto Atlantico, quali la Grecia e la Turchia. Il "sistema italiano" creato da De Gasperi era in parte, senza dubbio, dettato dalle circostanze, in parte il Richelieu del Trentino vi appose il suo tocco personale. La prima e fondamentale regola della democrazia, lo abbiamo visto, è che il cittadino abbia possibilità di scelta fra alternative reali. Con lo spazio dell’opposizione in gran parte ingombro dalla presenza del PCI, che non era un’alternativa di governo proponibile, sia per la collocazione internazionale dell’Italia, sia perché il ragionevole timore di quello che poteva riservarci il futuro se l’Italia fosse in un modo o nell’altro passata nell’orbita sovietica, non era certo uno di quei timori di cui si possa sorridere, e questa situazione De Gasperi non l’aveva certo creata, ma l’aveva ereditata assieme al compito di fronteggiarla, ma bisogna dire che una "democrazia bloccata" in cui i ruoli di maggioranza e di opposizione sono stabiliti ab aeterno, cessa con ciò stesso di essere una democrazia, infatti non è null’altro che il timore di perdere il confronto elettorale ad obbligare i governanti a comportarsi in maniera almeno decente nei confronti dei governati, soprattutto a non allungare le mani sulla cosa pubblica come fosse loro proprietà, a considerarsi servitori, quali dovrebbero essere, e non padroni della collettività, e come recita il vecchio, mai smentito proverbio, l’occasione fa l’uomo ladro. Non che questo sistema sia perfetto, funzioni sempre e dovunque. La corruzione è una piaga delle democrazie per un motivo molto semplice: nelle dittature, l’appropriazione da parte dei detentori del potere, della nomenklatura, a proprio beneficio personale dei beni della comunità non è una deviazione patologica, ma la normalità, la regola.

L’altra fondamentale regola della democrazia è che la maggioranza decide, la minoranza o le minoranze, a cui in ogni caso debbono essere garantiti alcuni diritti fondamentali, si adeguano, anche questa regola è stata stravolta nel "sistema italiano", e qui si riconosce il tocco personale di De Gasperi. Una cosa che egli aveva compreso perfettamente era la debolezza della nostra identificazione collettiva, della nostra autopercezione rispetto al modello "classico" dello stato nazionale, ma al di là di qualsiasi forma di retorica vetero – patriottica, non si dovrebbe dimenticare che lo stato nazionale è prima di tutto il "luogo" del diritto uguale per tutti, dei diritti e dei doveri condivisi: si è cittadini perché si ha una cittadinanza, rivendicazioni nazionali e rivendicazioni liberal - democratiche hanno sempre proceduto in stretto abbinamento nella storia europea dal 1789 in poi. La debolezza, l’imperfetta genesi, la crisi dopo la seconda guerra mondiale di questo modello lasciavano spazio verso l’alto per forme di aggregazione e di identificazione collettiva sovranazionale, come la Chiesa cattolica e l’internazionale comunista, verso il basso per forme più ancestrali, localistiche, familistiche, tribali. Nulla di meglio, dunque, che capovolgere artatamente l’altro fondamentale pilastro della democrazia, il rapporto maggioranza – minoranza: le minoranze, opportunamente inserite in un ben architettato sistema di lobby decidono e comandano, la maggioranza, il popolino bue, sbuffa, impreca, si adegua e paga le tasse. Solo così si spiega la condizione non di tutela, ma di ingiusto privilegio di cui si sono trovate a beneficiare nel nostro paese ad esempio le minoranze etniche, non tutte per la verità, ma alcune di esse. Il capolavoro della politica degasperiana in questo senso, con ogni verosimiglianza il capolavoro in assoluto di De Gasperi, è stato l’accordo De Gasperi – Gruber, un accordo che de facto ha posto fine alla sovranità italiana sull’Alto Adige. Esso non ha soltanto consentito ai sudtirolesi che a suo tempo, trovando intollerabile vivere sotto la sovranità italiana si erano trasferiti nel loro più congeniale Reich hitleriano, di rientrare in possesso delle proprietà di cui erano già stati indennizzati tenendosi bene e indennizzo (si pensi agli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria fuggiti davanti alla violenza slavo – comunista che non hanno avuto né l’uno né l’altro, ma quelli erano/sono italiani, gente che non conta agli occhi democristiani od a quelli della sedicente sinistra, popolino bue, bestiame), ma ha creato una situazione per cui nella provincia di Bolzano non vige la legge italiana, si pensi alla famigerata "dichiarazione di appartenenza etnica" che fa a pugni con l’articolo 3 della Costituzione, ed ha posto gli italiani dell’Alto Adige nell’umiliante condizione di stranieri in patria, di minoranza discriminata, se ve n’è oggi una in Italia. E’ del tutto falso asserire che l’accordo De Gasperi – Gruber sia stato un adempimento del Trattato di Pace, esso, (come del resto il successivo accordo di Osimo del 1973, con cui l’Italia cedette alla Jugoslavia la sovranità sull’ex zona B del Territorio Libero di Trieste in cambio di nulla) fu, dal punto di vista della politica internazionale un’elargizione liberale (in senso giurisprudenziale, non politico) dell’Italia all’Austria che i vincitori della seconda guerra mondiale per parte loro avevano considerato nazione sconfitta alla stessa stregua della Germania. Nell’immediato dopoguerra, l’Austria e Vienna furono divise in quattro zone d’occupazione esattamente come la Germania e Berlino, ed occorre forse ricordare che Hitler era in realtà austriaco, che dall’Austria sono venuti i nazisti più fanatici, che furono gli stessi nazisti austriaci a spianare la strada al ritorno a casa del loro compaesano che aveva fatto carriera all’estero, alla testa di tutte le divisioni corazzate del Reich, provvedendo in proprio ad assassinare il cancelliere Dollfuss molto prima che si potesse scorgere la giacca di un soldato della Wehrmacht alla frontiera austro – tedesca, che benché Hollywood abbia cercato di mostrarceli Tutti insieme appassionatamente, gli oppositori all’Anschluss e gli antinazisti austriaci furono rari come i denti di gallina?

Dal punto di vista degli interessi nazionali italiani, l’accordo De Gasperi – Gruber è stato un cedimento inutile e nefasto, ma a dire il vero, l’appoggio dei parlamentari della SVP, il partito sudtirolese ai governi a guida democristiana, non è mai mancato.

Una situazione analoga a quella dell’Alto Adige si ritrova nel Friuli Venezia Giulia, dove un’altra minoranza iper – tutelata, quella degli sloveni mantiene da sempre un atteggiamento arrogante e nello stesso tempo ambiguo, invocando (ed ottenendo) costantemente nuovi privilegi e rifiutando nello stesso tempo qualsiasi ipotesi di censimento che non potrebbe che metterne in luce l’inconsistenza numerica, ma bisogna dire il vero, in questo caso, per motivi di "fraternità ideologica" con l’allora "amica Repubblica federativa" jugoslava, i grandi sponsor della minoranza slovena sono stati soprattutto i comunisti che, da parte loro, non hanno mai avuto difficoltà ad assimilare gli aspetti peggiori del sistema lobbystico – mafioso democristiano ed a trarne tutti i vantaggi possibili.

E’ facile accorgersi che tutte queste minoranze iperprotette si trovano nel nord della penisola, mentre le minoranze greche ed albanesi presenti nel meridione non hanno mai goduto di speciali privilegi. Forse pochi lo sanno, ma nella Locride, zona della Calabria oggi tristemente nota soprattutto per fatti di criminalità organizzata, vi sono delle minoranze che parlano ancora il greco antico, quello dell’età classica, di cui si è perso l’uso nella stessa Grecia continentale. Mentre la maggior parte delle comunità greche ed albanesi che vivono nel meridione italiano derivano dalla grande fuga oltre l’Adriatico nel XV secolo per sottrarsi all’invasione ottomana, i greci della Locride sono ancora i discendenti della Magna Grecia e, come ogni linguista sa. Le piccole comunità sono molto più conservatrici riguardo al linguaggio di quelle grandi. Queste comunità rappresentano dunque un documento antropologico, storico, culturale d’inestimabile valore, eppure non godono di alcuna tutela particolare, perché allora questa disparità di trattamento nella tutela delle minoranze etniche nel nord e nel sud? Elementare, direbbe Sherlock Holmes, nel meridione il sistema lobbystico – clientelare democristiano ha trovato ben altri, non dichiarati, punti di riferimento che le minoranze etniche, punti di riferimento che hanno i nomi di Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita.

Il sistema creato da De Gasperi poteva essere gestito, ed è stato gestito dopo di lui da uomini di calibro molto inferiore al suo. Uno degli uomini che hanno meglio incarnato questo sistema, Giulio Andreotti, ne ha espresso lo spirito in una battuta divenuta giustamente famosa:

"Il potere logora chi non ce l’ha".

Che il potere logora, è un vecchio adagio delle democrazie liberali, è ovvio che chi detiene il controllo della cosa pubblica ed è tenuto a risponderne ai cittadini, è soggetto a provocare scontentezze ed a commettere errori che saranno sotto gli occhi di tutti, è uno dei fattori che in una normale democrazia assicurano fisiologicamente il ricambio e l’alternanza fra le forze politiche di maggioranza e opposizione. La frase di Andreotti, invece, esprime l’arrogante consapevolezza di una classe politica che sa di non dover rispondere ai cittadini del proprio operato, che può allungare impunemente le mani sulla cosa pubblica. Gli anni del potere democristiano erano gli anni della "democrazia bloccata", gli anni in cui un grande giornalista ed opinion maker come Indro Montanelli invitava gli italiani a "tapparsi il naso", cioè ad ignorare il puzzo di corruzione, di disonestà e di malaffare, di cui tutti, tranne la magistratura, erano al corrente, ed a votare DC perché il regime democristiano era pur sempre il meno peggio rispetto ad una tirannide di tipo sovietico. Del resto, quando ha perso il potere, la DC non è passata all’opposizione, la DC è sparita, sicuro segno che l’unico vero collante che la teneva insieme era il potere, la coalizione di interessi e la spartizione di denaro pubblico, a cui i presunti ideali cristiani offrivano un ben sbiadito e poco credibile pretesto.

Bisogna dare credito ai dirigenti democristiani ed a quelli comunisti di essersi resi conto della situazione reale molto prima delle rispettive, ingenue basi, e della rispettiva dipendenza: la gente votava DC per paura dei comunisti, o votava PCI per rabbia verso la corruzione democristiana. Perlomeno dagli anni ’60 si era passati dallo scontro frontale tra i due colossi del panorama politico italiano alla collaborazione sottobanco, con il mantenimento, s’intende, di una contrapposizione di facciata ad uso e consumo dei gonzi. Qualcuno si è provato a fare qualche controllo statistico, ed è risultato che l’88% delle leggi approvate in Italia dal 1948 al 1991 ha avuto l’appoggio del PCI, come dire che i comunisti erano per poco meno di nove decimi maggioranza di governo, e forza di opposizione per poco più di un decimo, è quella che veniva chiamata "democrazia consociativa". Pur godendo di tutti i benefici morali di presentarsi come forza di opposizione, i comunisti sono stati corresponsabili e correi del sistema di corruzione che ha imperversato per più di un quarantennio di storia italiana, e ne hanno tratto i loro bravi benefici a spese della collettività. Un fatto per tutti, ed è veramente tanto clamoroso che solo in un’Italia in cui l’informazione è pesantemente infeudata a sinistra, è potuto passare sotto silenzio. Da sempre la Lega Nord punta un dito accusatorio contro le regioni meridionali su cui si riverserebbero a pioggia risorse sottratte alle produttive regioni settentrionali e tutti quanti hanno mostrato di considerare quest’accusa come un fatto acquisito. Soltanto Il Giornale di Vittorio Feltri si è provato a fare un po’ di conti tempo addietro, confrontando quanto ciascuna regione versa allo stato in termini di prelievo fiscale, e quanto riceve da esso sotto forma di sussidi, provvidenze, investimenti, stipendi ai pubblici dipendenti e pensioni, ed i risultati emersi da questo semplice computo sono a dir poco sconcertanti. Le regioni settentrionali versano allo stato più di quanto non ricevano da esso, mentre le regioni del sud ricevono leggermente di più di quanto versino, dato prevedibile, considerato il reddito medio più basso, ma non certo nelle proporzioni fantasticate dalla Lega, ma le vere "miracolate" sono le regioni del centro, le regioni "rosse", e questo ci permette di comprendere una cosa che era sempre sfuggita: la famosa "vetrina del comunismo" emiliana, umbra e toscana, questo decantato modello di pubblica amministrazione e servizi pubblici perfetti, è stata allestita attingendo a piene mani dalle risorse, derubando – per chiamare le cose col loro nome – tutta la comunità nazionale, di una nazione che, grazie a Dio, finora comunista non è stata, consentendo così ai comunisti di vantare qualità idilliache di buona amministrazione e gettare fumo negli occhi a livello non solo italiano, ma europeo, ed è impensabile che tanto possa essere avvenuto senza la piena complicità democristiana.

Ma in questa "democrazia consociativa" esisteva un’asimmetria di fondo: lo scopo dei democristiani era semplicemente quello di "governare l’esistente", ed il fine ultimo null’altro che l’esercizio del potere e l’interesse personale, al contrario i comunisti erano mossi da un "ideale", una prospettiva per il futuro, che non consentiva loro di accontentarsi degli spazi di potere, comunque enormi, da essi già raggiunti, ma imponeva loro di occupare, presto o tardi, tutto il potere disponibile. La posizione del PCI era simile a quella di un abile giocatore di braccio di ferro che si trovi in una situazione di apparente stallo con un avversario di forza all’incirca pari alla sua, e che sposti inavvertitamente i punti di appoggio in modo da poterlo battere con quella che sembrerà poi una mossa improvvisa ed imprevedibile.

Per i comunisti, il momento chiave dell’infiltrazione nell’apparato dello stato ed in tutti i gangli della vita civile, è stato rappresentato dal ’68. Certo, la "contestazione generale" giunse in Italia come fenomeno d’importazione, ma se altrove durò una stagione e da noi un decennio (con la "coda" rappresentata dal cosiddetto "movimento del 77"), questo significa che andava ad inserirsi in una situazione ben diversa da quella di altri paesi europei. Certo, i "contestatori" rivolgevano i loro strali anche contro un PCI che essi giudicavano imborghesito, ed essi dettero vita ad un’"ultrasinistra", come allora si diceva, cioè una galassia di movimentini che si poneva alla sinistra del PCI, ma non si può negare ai comunisti la capacità di pensare in prospettiva di lungo periodo, quelli che allora apparivano rampolli intemperanti ed intolleranti, in buona parte sarebbero rientrati nei ranghi e divenuti la nuova generazione di funzionari del partito, ed in ogni caso avrebbero garantito l’iniezione di una robusta dose di ideologia marxista nella cultura, nella scuola, nel giornalismo. Il meccanismo che cominciò a svilupparsi in quegli anni, ed i cui effetti si sarebbero visti più tardi e sarebbero stati devastanti per la società italiana, era in ogni caso piuttosto semplice: acquisita una buona "testa di ponte" nella cultura, nella scuola, nel giornalismo, nelle comunicazioni, nella magistratura, negli apparati dello stato, essa non poteva che svilupparsi sempre di più, crescere come un tumore, perché tutti quelli che non appartenevano alla parrocchia, od alla bottega, vedevano sempre più ridotte le loro possibilità di carriera od anche semplicemente di accedere a determinate professioni.

Si arriva ad un capitolo della nostra storia recente che si prova quasi ripugnanza ad affrontare, gli "anni di piombo" seguenti al ’68, la cupa stagione della "strategia della tensione", del terrorismo, delle stragi. Da piazza Fontana a Piazza della Loggia a Brescia, alla stazione di Bologna, ogni volta è messo in scena lo stesso copione: ogni volta che un fatto di sangue particolarmente atroce colpisce l’opinione pubblica, si individua in primo luogo una "pista nera", si parla di "strage fascista", si incrimina qualche figura di mezza tacca del sottobosco neofascista, si sospetta (senza mai uno straccio di prova) il coinvolgimento di qualche personaggio di spicco della destra extraparlamentare, come Stefano Delle Chiaie, che è stato imputato di tutto tranne che nel coinvolgimento nella strage degli innocenti ordinata da Erode, senza che l’impianto accusatorio superasse mai la fase istruttoria, si lascia balenare l’intervento dei "servizi segreti deviati", poi tutto finisce nel nulla. Due considerazioni elementari s’impongono: cui prodest?, a chi ha giovato politicamente tutto questo? ed è mai possibile che una parte così delicata degli apparati dello stato che il potere politico, se non è composto per intero da una classe di imbecilli, deve tenere sotto costante controllo, possa essere costantemente "deviata"?

Se partiamo dal presupposto che i presunti servizi segreti deviati non erano affatto tali, ma agivano in sintonia con il potere politico dominante nel nostro paese, tutto diventa chiaro. Immaginiamo che qualche agente di questi servizi, infiltrato negli ambienti di destra avvicini qualche persona di minimissimo piano e di preparazione politica nulla, meglio ancora un infermo di mente come Ermanno Buzzi, presunto autore materiale della strage di piazza della Loggia, e lo induca a mettere qualche bomba, illudendolo di dare in tal modo inizio alla "rivoluzione". Il gioco è fatto, ecco creato dal nulla il "terrorismo nero". Perché? Ma è evidente! In quegli stessi anni era in corso un "attacco al cuore dello stato" di ben altra portata, ben altrimenti organizzato, che poteva contare su di un’organizzazione vasta e ramificata, ed anche su di una non marginale area di consenso, da parte delle Brigate Rosse. Esso non avrebbe mai potuto scardinare le strutture statali, ma avrebbe potuto, per reazione, determinare uno spostamento a destra dell’opinione pubblica. Cosa c’era di meglio, per fronteggiare questa eventualità, che creare artatamente un "terrorismo nero" che apparisse come speculare e simmetrico a quello rosso? Si è parlato di "strategia della tensione", la si sarebbe dovuta chiamare operazione fumo negli occhi, portata avanti in grande stile da una magistratura e da un giornalismo pesantemente infeudati a sinistra. Prendiamo un esempio spaventosamente tragico, l’esplosione alla stazione di Bologna del 1980, che è costata un centinaio di vite umane. La magistratura si è subito buttata a pesce sulla "pista nera", ed i mass media le hanno fatto prontamente da cassa di risonanza, anche perché erano due anni che gli avvoltoi dell’uno e dell’altro tipo aspettavano con ansia l’occasione di qualcosa che consentisse loro di "pareggiare" l’effetto che sull’opinione pubblica aveva avuto il sequestro Moro e tutto quello che ne era seguito. Risultato? Da oltre un quindicennio d’indagini non è emerso nulla, nemmeno la definitiva certezza che si sia trattato effettivamente di un attentato e non di un incidente fortuito, ma l’effetto sull’opinione pubblica è stato comunque ottenuto, ed ancora adesso alla stazione di Bologna c’è una lapide che commemora le "vittime della strage fascista", vittime due volte, oltre che di una tragedia, di una strumentalizzazione infame.

Nel lungo periodo che intercorre tra la fine della seconda guerra mondiale ed i tardi anni ’80, bisogna dunque ammettere che la "gioiosa macchina da guerra" si era preparata assai bene, oliata ed in perfetta efficienza, infiltrata in ogni aspetto della vita sociale, ed aspettava solo l’occasione propizia per soppiantare il potere democristiano. Paradossalmente, quest’occasione è stata offerta proprio dalla crisi e dalla dissoluzione del comunismo internazionale, conclusasi nel ’91 con la caduta dell’impero sovietico. Scomparsa la paura di vedere i cavalli dei cosacchi abbeverarsi alle fontane di piazza San Pietro, scompariva il maggior motivo di consenso attorno alla DC, tanto più che l’allora PCI aveva da tempo provveduto a dare di sé attraverso un’abile propaganda, un’immagine bonaria e rassicurante. Quello di cui la maggior parte degli italiani non si avvedeva, compresi moltissimi che non erano né comunisti né di sinistra, era che già per conto suo il comunismo italiano era/è perfettamente in grado di soffocare la libertà nel nostro paese senza fare ricorso all’aiuto dell’ormai defunta Armata Rossa, esso è diventato infatti un centro di potere politico ed economico fortissimo con un’enorme capacità di controllo su tutti i gangli vitali del paese, a cominciare da quelli in cui si forma l’opinione pubblica: cultura, scuola, mass media; un mastodonte capace di soffocare qualsiasi forma di opposizione semplicemente occupando tutto lo spazio vitale attorno a sé.

Era abbastanza ovvio che la nuova "presa del Palazzo d’Inverno", disponendo i presunti ex comunisti di una magistratura da loro largamente dipendente, assumesse le forme di un’azione giudiziaria: agli italiani era passata la paura del comunismo, ma la rabbia contro la corruzione ed il malaffare democristiani ora potevano esplodere incontrollabili, tuttavia, forse, nell’azione della magistratura, nell’affare di "Tangentopoli", nell’operazione "mani pulite" della procura milanese è più interessante quello che non si è visto, quello che si è lasciato trapelare per un attimo per essere prontamente occultato, di quello che si è visto. In un primo tempo, è possibile che i magistrati che hanno iniziato ad indagare su di un singolo scandalo, quello del "Pio Albergo Trivulzio", della "Baggina", l’ospizio dei poveri milanese, e che si sono visti venire tra le mani tutto l’inestricabile groviglio di corruzione che ha impestato mezzo secolo di vita italiana, si fossero sentiti semplicemente liberi di agire senza i consueti condizionamenti del potere politico.

Nella primissima fase di Tangentopoli sono emersi gli scheletri nell’armadio di democristiani, socialisti e comunisti. Dagli schermi dello scanzonato telegiornale dell’allora Fininvest, Striscia la notizia, si teneva un elenco quotidianamente aggiornato degli avvisi di garanzia inviati ad esponenti socialisti, comunisti, democristiani, ed ora l’uno, ora l’altro dei tre partiti era in testa in questa singolare classifica che nel complesso rivelava una sorprendente equanimità di distribuzione. La domanda inevitabile, a questo punto, è perché, mentre socialisti e democristiani hanno sopportato tutto il peso politico di questa situazione, i comunisti ne sono usciti politicamente indenni (anche se qualcuno di loro ha avuto qualche inconveniente giudiziario), pur essendo coinvolti come tutti gli altri, e peggio di altri nel sistema della corruzione e del malaffare? L’arcano è presto svelato: i comunisti beneficiavano di vent’anni di oculata infiltrazione nella magistratura e nel mondo dei media, abbiamo assistito ad episodi veramente grotteschi, che in uno stato realmente democratico non sarebbero stati tollerati, un presidente degli Stati Uniti avrebbe rischiato l’empeachment per molto meno. Un magistrato come Tiziana Parenti è stata espulsa dal pool "Mani pulite" per aver osato indagare sugli affari sporchi della Lega delle Cooperative, l’organizzazione economica (quella palese!) del PCI – PDS, i giudici russi che, dopo il 1991 hanno aperto un’inchiesta sui finanziamenti dell’Unione Sovietica al PCI, si sono trovati di fronte ad un totale muro di omertà da parte dei loro colleghi italiani, ed hanno dovuto desistere dal loro tentativo di recuperare almeno le briciole delle risorse che il potere sovietico aveva sottratto al popolo russo per finanziare "la rivoluzione". Due dati vanno tuttavia tenuti presenti: L’ex partito comunista ha continuato a ricevere finanziamenti dall’Unione Sovietica fino alla dissoluzione della stessa nel luglio ’91, vale a dire ben un anno e mezzo dopo la sua trasformazione di facciata in PDS, e c’era, a quanto pare, un apposito capitolo di spesa intestato all’attuale leader di Rifondazione, Armando Cossutta. L’altra considerazione importante è che qui non parliamo solo di finanziamento illecito, non dobbiamo dimenticare che il PCI era foraggiato dall’Unione Sovietica che per decenni è stata uno stato nemico dell’Italia, teso a sottometterla ed a sovvertirne l’ordine interno, quindi il reato che si configura è quello di tradimento. Se alle "strane" manchevolezze dell’azione dei giudici riguardo al malaffare targato PCI – PDS si aggiungono gli sconti di pena ed i favori promessi a pentiti della criminalità organizzata in cambio di "confessioni" messe loro in bocca di aver avuto rapporti con uomini ed aziende del gruppo Fininvest – Mediaset, l’avviso di garanzia inviato a Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio al vertice dei G 7 a Napoli, e via dicendo, s’impone chiara ed evidente la conclusione che questi campioni del diritto sono di gran lunga più delinquenti di coloro che hanno inquisito. Poiché in ogni categoria professionale non ci sono solo furbi, ma anche ingenui, qualche uomo ci doveva pur essere in mezzo al branco degli sciacalli in toga, qualcuno tanto ingenuo da illudersi che fosse effettivamente cambiato qualcosa nel passaggio dalla "prima" alla "seconda" repubblica, e tempo addietro la procura di Venezia aprì, o tentò di aprire con mezzo secolo di ritardo un’inchiesta sulle foibe, che fu poi archiviata con motivazioni pretestuose e ridicole, sortendo l’unico risultato di procurare ai magistrati che avevano tentato di condurla una serie di minacce personali di pretto stampo mafioso e di non dubbia provenienza.

Si dice che dovremmo dimenticare e perdonare. Non l’oblio, ma il perdono e la riconciliazione richiedono che prima la verità sia chiarita e detta. Che senso ha, se non quello di un occultamento di tutte le altre verità, la riproposizione continua, in tutte le salse dell’Olocausto nazista se intanto dimentichiamo i nostri morti, li uccidiamo una seconda volta, negando loro la più elementare giustizia postuma?

Il partito e l’uomo politico che hanno sopportato maggiormente il peso di Tangentopoli, fino ad esserne schiacciati, fino a trovarsi esposti ad un ludibrio senza precedenti, pur non avendo di certo avuto le maggiori responsabilità in un sistema generalizzato di corruzione e di finanziamento occulto della vita politica, sono stati il Partito Socialista ed il suo leader Bettino Craxi, perché? La risposta è ovvia, ed ovviamente non ha nulla a che fare con la proporzione in cui i socialisti avrebbero partecipato al sistema della spartizione di denaro pubblico. Il fatto è che Craxi ed il partito socialista sono stati protagonisti, negli anni ’80 di un disegno politico di ampio respiro che poteva essere molto pericoloso per i comunisti, e la "gioiosa macchina da guerra" non ha certo la memoria corta. Il discorso è sempre lo stesso, l’Italia era/è condannata ad una "democrazia bloccata" a causa dell’ingombrante presenza del partito comunista che assorbiva quasi tutto lo spazio dell’opposizione senza rappresentare (allora) un’alternativa di governo credibile (oggi, malauguratamente, questo mastodonte sugli scranni governativi ci si è arrampicato, e mostra tutta l’intenzione di calpestare e frantumare tutto ciò che ancora sussiste nel nostro paese di benessere economico e di libertà civili) il progetto di Craxi era quello di, come allora si diceva, "ribaltare i rapporti di forza all’interno della sinistra", in pratica avviare finalmente l’Italia sui binari della normalità democratica, arrivando ad un sostanziale bipolarismo tra una "destra" democristiana – liberal – conservatrice ed una "sinistra" socialista e socialdemocratica, una situazione analoga a quella di tutte le democrazie occidentali: Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e via dicendo, un progetto né miope né risibile, ed è questo che i comunisti hanno voluto far pagare caro a lui ed al PSI, al di là del loro coinvolgimento in un sistema di corruzione di cui non erano certo né i soli né i maggiori protagonisti, ed a cui il PCI non era davvero estraneo.

Il metodo impiegato per distruggere il socialismo italiano è stato nello stesso tempo un capolavoro di perfidia machiavellica da parte di gente come i sedicenti ex comunisti per cui la verità esiste solo nella misura in cui torna utile "alla causa" ed una riprova dello spaventoso potere che quelli che oggi si fanno passare per "democratici di sinistra" hanno acquisito nel mondo dei media, ed è lo stesso con cui oggi si cerca di annientare l’opposizione liberale, ed il suo leader Silvio Berlusconi. Si comincia con la maldicenza affidata allo strumento scarsamente controllabile della presunta satira, poi certe insinuazioni vengono date come fatti scontati sui media "seri", e soprattutto è importante la ripetizione martellante, fino a che la calunnia è diventata luogo comune, nessuno osa più aprire la bocca in favore della verità, si ha l’impressione di tentare di opporsi con le mani ad un fiume in piena. Io non so, nessuno sa fino a che punto Bettino Craxi fosse coinvolto in Tangentopoli; di certo, gli è stato negato quel diritto ad una giustizia equa che un principio elementare di civiltà del diritto impone di non rifiutare nemmeno al peggiore dei criminali, ma sono sicuro che man mano che i "democratici di sinistra" dovessero aumentare la loro presa sulla società italiana, sempre più persone si accorgeranno sulla loro pelle che la "giustizia" comunista non ha altra faccia che il sopruso.

Un discorso a parte meriterebbe l’impiego della satira. Ogni psicologo conosce il valore liberatorio del riso, e la satira, come forma di protesta contro le assurdità e le ingiustizie di chi comanda, i lati caricaturali del potere, ha un importante valore anche civile, ma quando qualcosa che ha l’apparenza della satira diventa strumento propagandistico nelle mani del potere per dileggiare le vittime delle ingiustizie, è oscenità, turpiloquio, perversione morale. Ricordo una vignetta apparsa anni fa su di un quotidiano "di sinistra" (onestamente, non ricordo se fosse L’Unità, Il Manifesto o La Repubblica ma non fa grande differenza). Il Dalai Lama era venuto in visita in Italia ed, ignorato dalle autorità ufficiali, si era incontrato con Silvio Berlusconi divenuto da poco leader dell’opposizione dopo la sua breve esperienza governativa. Il popolo tibetano che S. E. Il Dalai Lama rappresenta, è stato ed è vittima di una delle più spaventose tragedie della nostra epoca, aggredito e privato della sua libertà dalla Cina comunista, continua ad essere vittima di un tentativo di totale sradicamento, di cancellazione della sua identità nazionale, culturale e religiosa.

La vignetta di cui sopra rappresentava un Buddha con la faccia di Silvio Berlusconi, e sotto, una didascalia recitava: "Forza Tibet".

Chi deride le vittime solidarizza con i carnefici, se ne assume le stesse responsabilità morali. Come reagiremmo se un giornale a grande diffusione nazionale pubblicasse una vignetta che dileggiasse gli ebrei e le altre vittime dell’Olocausto? Una cosa di questo genere è dello stesso livello "satirico" di Der Sturmer, il giornale creato dai nazisti per pubblicare vignette satiriche contro gli ebrei, che parevano a loro stessi troppo grottesche ed oscene per apparire sull’organo ufficiale del partito, il Volkisches Beobachter. Questa gente che sostiene di essersi liberata dalla mentalità comunista, di aver compreso e fatto propri i valori della libertà, della democrazia, del pluralismo e quant’altro, rivela, quando la si esamini da vicino, lo stesso livello morale degli uomini delle squadre d’assalto hitleriane.

Comprendiamo dunque che l’operazione "Mani pulite" di pulito non aveva nulla, era la via giudiziaria per lo smantellamento del sistema di potere democristiano, ora che la fine dell’Unione Sovietica ed il cambiamento della congiuntura internazionale lo rendevano possibile, ed era chiaro che una magistratura imbeccata da quello che da allora si chiamava PDS doveva occultare le pesanti responsabilità dei comunisti in questo stesso sistema.

Osservando le cose in retrospettiva, non si può negare che la "presa del Palazzo d’inverno" italiana sia stata condotta con l’accortezza e la lucidità di un abile gioco di scacchi, anche la presunta secessione dei comunisti in PDS e Rifondazione è stata una mossa molto abile: cosa di meglio per persuadere l’opinione pubblica che i "democratici di sinistra" non erano più comunisti, e nello stesso tempo dare un contentino ai compagni "duri e puri" e col cervello di calcestruzzo al punto di non essere nemmeno capaci di rinunciare al simbolo della falce e martello? Se noi osserviamo con un minimo di attenzione tutto quello che è avvenuto in questi anni, è difficile considerare questa scissione altro che una finta, i "rifondatori" sono sempre stati tenuti a parte di tutte le decisioni importanti, e ben poco è stato fatto senza il loro consenso.

Alle elezioni politiche del ’94, le prime tenutesi con il nuovo sistema elettorale maggioritario, i comunisti, sedicenti ex o rifondatori potevano pensare di avere tutti e quattro gli assi in mano: attorno al PDS si era raccolta una coalizione di rottami della DC e del centro – sinistra che serviva a dare un’ulteriore immagine di formazione moderata, sotto il simbolo dell’Ulivo che otteneva l’appoggio esplicito perfino della Confindustria, ormai persuasa che soltanto i "democratici di sinistra" potessero ridare stabilità al paese dopo il ciclone che aveva sconvolto il sistema democristiano. La vittoria data per scontata, la pelle dell’orso già venduta, la decisione già presa dai "poteri forti" che al "popolo sovrano" non spettava altro che avallare, non si verificò, il tanto sottovalutato popolino bue, in quelle che probabilmente sono state le prime ed uniche vere elezioni libere della sua storia, si sottrasse alla trappola scegliendo la destra, cioè, rispetto alla situazione italiana, la normalità democratica.

Premesso che cosa significhino "destra" e "sinistra" è tutto da discutere, e quanto meno che oggi sinistra "ulivo" significa stare dalla parte dei "poteri forti", di una burocrazia di partito sopravvissuta all’ideologia che l’aveva generata, della limitazione delle libertà civili, dei sindacati come strumento per condizionare le scelte dei lavoratori e contro la libertà sindacale, cioè esattamente il contrario di quanto significava all’inizio del secolo, anche accettando la nomenclatura convenzionale, è molto dubbio che la coalizione uscita vincitrice dal confronto elettorale, il polo delle libertà e del buon governo guidato da Silvio Berlusconi, possa essere considerata una coalizione di destra, di essa facevano parte un movimento di destra come Alleanza Nazionale, ma anche, e prevalentemente, forze di centro come Forza Italia, il Centro Cristiano Democratico e (provvisoriamente ed in una posizione anomala) la Lega Nord, e pure forze di sinistra come la lista Pannella ed uomini di formazione socialista come Giuliano Ferrara. I tratti comuni che univano questa coalizione erano l’anticomunismo, l’amore per la libertà, la volontà di riportare il nostro paese alla normalità democratica, ma se destra deve significare semplicemente anticomunismo, allora è un’etichetta, un distintivo che un autentico democratico che vuole preservare la sua dignità di uomo libero, può solo portare con orgoglio.

Questa coalizione, ed è l’aspetto curioso della cosa, era nata quasi per caso: l’uomo che ne sarebbe divenuto il leader, Silvio Berlusconi, imprenditore dei media, era stato praticamente tirato dentro la politica per i capelli (sebbene ne sia relativamente sfornito), intervistato sulle elezioni amministrative romane, aveva dichiarato di preferire "senza il minimo dubbio" Gianfranco Fini segretario di Alleanza Nazionale a Francesco Rutelli, candidato della coalizione di sinistra. Tanto bastò perché gli venisse appiccicato l’epiteto di "cavaliere nero" ed attorno al suo nome si scatenasse una baraonda incredibile (una dimostrazione in più, se vogliamo, di come il cosiddetto antifascismo sia in realtà uno strumento per soffocare la libertà: nonostante tutte le dichiarazioni di accettazione dei principi liberal - democratici, nonostante mezzo secolo di civile e corretta presenza parlamentare, gli uomini del Movimento Sociale – Alleanza Nazionale sono costretti ad un’eterna anticamera di legittimità democratica, mentre la conversione dei sedicenti ex comunisti alla democrazia pluralista è stata presa per buona nel giro di una notte). A questo punto anche un cieco avrebbe potuto vedere quanto fosse inquinata la situazione, quanto il nostro paese fosse lontano da una normale prassi democratica.

Da qui, dalla consapevolezza che bisognava fare qualcosa e che chi disponeva di più mezzi doveva impegnarsi più degli altri, nacquero Forza Italia ed il polo delle libertà. L’aurea regola degasperiana secondo la quale la maggioranza deve solo avallare quanto altri hanno deciso per essa, per una volta era stata infranta. Per dei democratici, il verdetto popolare è l’istanza ultima, inappellabile, per i comunisti no, è solo un ostacolo da aggirare, seguendo il luminoso esempio di Lenin che nel gennaio ’18 sciolse il parlamento russo in cui i bolscevichi erano in minoranza ed invalidando le uniche elezioni libere che la Russia ebbe fino al 1991, né certo rispetto della volontà popolare era da aspettarsi dai rottami della DC raccolti nell’"ulivo" che avevano governato l’Italia per mezzo secolo con l’arroganza dei padroni: Si vide subito quanto fosse difficile governare con tutti i "poteri forti" di uno stato arrogante che si era sempre fatto un baffo della sovranità popolare schierati contro. Quella che si scatenò contro il governo Berlusconi non fu opposizione, ma una guerriglia selvaggia dei sindacati, della Confindustria, della stampa, dei pubblici apparati dimentichi di qualsiasi dovere di lealtà verso il governo, di una magistratura che aveva abbandonato qualsiasi parvenza di imparzialità oltre che di non interferenza nel potere esecutivo, e non perdeva occasione di spiccare avvisi di garanzia per imputazioni inesistenti, sempre in momenti politicamente ben calcolati, come il vertice dei G 7 a Napoli. Si inventò contro Silvio Berlusconi l’incompatibilità fra la sua funzione di capo dell’esecutivo ed il suo ruolo di industriale dei media. Su questo punto c’è da dire che chi avversa la libertà nel nostro paese non sembra mai essersi preoccupato né della coerenza né del ritegno, fidandosi soprattutto della memoria corta della gente. Il governo Dini, che succedette a quello Berlusconi e fu il frutto di un incredibile pateracchio parlamentare, aveva come ministro degli esteri Susanna Agnelli, membro della più importante e potente famiglia di industriali italiani, presente anche nei media con la proprietà di uno dei più importanti quotidiani italiani, La Stampa di Torino, e nessuno si sognò nemmeno di sollevare questioni d’incompatibilità, no, si era introdotto un "principio giuridico" che valeva solo per Silvio Berlusconi, si era tornati al privilegium (nel senso di legge privata), allo ius singulare ante Rivoluzione francese, all’ancien regime, abbandonando i principi del diritto moderno erga omnes. Pare incredibile, ma questo governo sabotato ed assalito da tutte le parti e che non ha avuto più di otto mesi di vita, qualcosa di buono per il paese è riuscito a farlo. Dati ISTAT posteriori di due anni, in tempi non sospetti quando il paese era già tornato alla sua infausta, anomala "normalità", hanno rivelato che in quel periodo, invertendo una tendenza in atto da decenni, la disoccupazione era diminuita e si erano creati 300.000 (trecentomila in otto mesi!) nuovi posti di lavoro grazie alla legge Tremonti che prevedeva la detassazione degli utili investiti dalle aziende in nuova occupazione. E’ superfluo dire che "i compagni", sempre preoccupati del benessere dei lavoratori, una volta riprese in mano le redini hanno, di fatto, abolito la legge Tremonti semplicemente evitando di rifinanziarla.

Il siluro che portò all’affondamento dell’unico governo democratico conosciuto dall’Italia nella sua lunga storia, arrivò dal tradimento della Lega Nord. Tradimento, si badi bene, non verso la persona di Silvio Berlusconi, ma verso gli impegni presi con gli elettori, e di quello spirito di libertà che aveva portato alla nascita del Polo.

La Lega Nord meriterebbe un capitolo a parte nella storia delle disgrazie italiane. Certamente un simile fenomeno non può mancare di stupire soprattutto gli osservatori stranieri, ha tutte le stimmate direi fisiognomiche di quei movimentini localistici che talvolta affliggono le democrazie, ma ben raramente riescono a diventare presenze di rilievo sulla scena politica nazionale: la rozzezza della sua classe dirigente, che non sembra possedere altro linguaggio al di fuori dell’invettiva e del turpiloquio, il fanatismo adorante attorno alla figura carismatica di un leader che non sembra sempre in possesso delle sue facoltà mentali, l’aperto anti – intellettualismo - la Lega ha avuto per un po’ di tempo un intellettuale di qualche rilievo, Gianfranco Miglio, e se n’è sbarazzata in fretta – un gretto e meschino campanilismo intollerante di qualsiasi diversità e sconfinante nel razzismo; tutto in essa è istrionesco e fuori misura, il suo leader carismatico si ritiene in diritto a parlare a nome "del nord" o "della Padania", ma in democrazia si ha il diritto a parlare a nome di altri quando se n’è ricevuto il mandato. La Lega ha in tutto il Nord Italia una consistenza elettorale media attorno al dodici per cento, con punte in alcune zone del sedici – venti per cento, e l’ottanta per cento ed oltre di italiani del nord che non sono leghisti e non si sentono "padani" non contano nulla? Il leghismo manifesta una protervia francamente antidemocratica, ma in ultima analisi è solo l’atteggiamento dei botoli tanto più ringhiosi quanto più si sentono deboli. Una curiosità: la Padania non è un’invenzione di Umberto Bossi, ma di uno scrittore fantastico, Giuseppe Pederiali, che ne parla nel romanzo Le città del diluvio del 1979, descrivendola come una terra immaginaria, un’isola corrispondente all’incirca all’Italia settentrionale. I nazisti, che avevano il pallino dell’occultismo, credevano al mitico regno sotterraneo di Agharti, i leghisti credono alla Padania.

Come ha fatto un movimento di questo genere a diventare un protagonista della vita politica nazionale? Nelle prime fasi di Tangentopoli, senza dubbio, la Lega ha approfittato del clima che si era allora creato, quando gli appelli di Umberto Bossi, versione lombarda di Masaniello, contro "Roma ladrona" potevano sembrare richiami contro la corruzione ed il malaffare, ed erano invece invettive contro l’unità italiana, ma poi cosa ha impedito che la Lega tornasse in quel nulla politico dal quale era emersa e che le spetta di diritto? E’ molto semplice: specialmente oggi che la politica è profondamente condizionata dai media, la presenza e l’importanza di un movimento sono una questione di visibilità, l’essenziale è che l’informazione si occupi di te, allora esisti e conti, altrimenti no. Se i media parlano bene di te, tanto meglio, se mettono in luce i tuoi lati caricaturali e grotteschi, va bene lo stesso. Sebbene non si possa negare che la Lega sia abile nel mostrare i propri lati più pittoreschi con una simbologia misticheggiante e neopagana – si pensi all’ascesa di Bossi al Pian del Re per raccogliere in un’ampolla le acque della sorgente del "dio Po", a mezzo fra la salita al Calvario e la ricerca del santo Graal – è indubbio che senza la costante attenzione dei mezzi d’informazione, la Lega non esisterebbe, od almeno non sarebbe mai riuscita a travalicare quella dimensione locale che naturalmente le competerebbe. Perché un’informazione prevalentemente in mano alla sinistra abbia dedicato e dedichi tanta attenzione ad un movimento di volta in volta bollato come "fascista", "razzista" ed in ogni caso teoricamente ostile, anche questo non è un mistero che sfidi l’umana comprensione: alla sinistra, all’"ulivo" la Lega serve, è utile, è comodo che la Lega esista, la sua presenza sulla scena politica ha l’effetto di "congelare", di rendere inutilizzabile per il Polo delle libertà una fetta di elettorato moderato che è proprio quello che consente alla sinistra, minoranza nel paese, di diventare maggioranza parlamentare e governativa. Quando, in quello squallido inverno del ’94, si consumò il tradimento leghista e l’Italia venne privata, chissà per quanto tempo, della possibilità d’intraprendere il cammino di una normale democrazia occidentale, più si considerano le cose in retrospettiva, più si ha l’impressione che tutto ciò non fosse altro che lo scattare di un piano da tempo congegnato, Giuda aveva già senza dubbio ricevuto i suoi trenta denari.

Gli italiani che votano a sinistra sono in ogni caso le vittime di un inganno, di una frode, di un raggiro, ma fra di loro gli elettori meridionali sono più truffati degli altri: la Lega e i "democratici di sinistra" sono legati a doppio filo, come si spiegherebbe altrimenti una vicenda grottesca ed assurda come quella del ministro Giuseppe Mancuso, per togliere di mezzo il quale si arrivò a stravolgere il nostro ordinamento istituzionale introducendo un istituto inesistente, quale la sfiducia non ad un governo ma ad un singolo ministro, e senza che i cittadini, "popolo sovrano" fossero messi in grado di capire i motivi di un gesto di questa gravità? La ragione è semplice: Giuseppe Mancuso, nella sua veste di ministro di Grazia e Giustizia, aveva in animo di aprire un procedimento contro Bossi e la Lega Nord per il reato di secessione, cosa che, per inciso, qualunque procura della Repubblica in Italia potrebbe fare, data l’evidenza, la flagranza, la continuatività, la pubblicità del reato, ma le leggi, diceva Giolitti, per i nemici si applicano, per gli amici si interpretano, e che la Lega sia un grande amico per la sinistra, la cosa è indubbia, c’è solo da augurarsi che gli elettori, soprattutto quelli meridionali, lo capiscano e se ne ricordino.

Quando la defezione della Lega affondò il governo Berlusconi, ciò non fu, con ogni verosimiglianza, che l’ultimo atto di un piano lungamente preparato. La vergogna del tradimento perpetrato contro gli elettori spudoratamente ingannati dalla Lega con gli impegni presi in campagna elettorale, rimane in ogni caso, ma certamente Bossi e soci erano solo dei burattini di cui altri tiravano i fili. I "poteri forti" avevano da tempo preso una decisione che il "popolo sovrano" aveva avuto il torto di non avallare subito. Possibile che non si capisse che in Italia l’aggiunta dell’aggettivo "sovrano" al sostantivo "popolo" ha unicamente un significato retorico? Il tradimento della palese volontà del corpo elettorale era così chiaro che qualsiasi presidente della repubblica che si rispetti, avrebbe sciolto le Camere ed indetto immediatamente nuove elezioni, e se questo fosse stato fatto, l’ondata di indignazione popolare lasciava presagire che il Polo delle libertà avrebbe potuto essere riconfermato al governo con una maggioranza sufficiente a dargli la possibilità di governare senza la Lega, ma appunto l’Italia non aveva, non ha un presidente della repubblica che si rispetti, bensì Oscar Luigi Scalfaro, vecchio arnese della partitocrazia democristiana, che aveva iniziato la sua carriera politica, una carriera apparentemente opaca e quasi inavvertita, data la mancanza di carisma dell’uomo, ma destinata a salire in alto, nell’immediato dopoguerra sottoscrivendo e ordinando come funzionario del ministero dell’interno le rappresaglie e le fucilazioni di esponenti della Repubblica Sociale volute dal CLN, cioè dai comunisti.

Con un formalistico rispetto della lettera della Costituzione ed un totale stravolgimento del suo spirito, Scalfaro rifiutò di sciogliere le Camere, sebbene il tradimento della volontà popolare fosse evidente, ed al termine di una lunghissima crisi, nacque il governo Dini, un finto governo di tecnici sostenuto da quella sinistra che il mandato popolare aveva designato come opposizione, e si arrivò alle elezioni soltanto nell’aprile ’96, quando all’indignazione era ormai subentrata la rassegnazione, queste elezioni portarono finalmente al potere il sospirato governo di sinistra anche se mascherato dai lineamenti paciosi e fintamente bonari di un altro arnese democristiano, di un altro orfanello della balena bianca, non vecchio anagraficamente ma politicamente, Romano Prodi, ritirato fuori dalla naftalina per l’occasione. Nel corso della "prima repubblica" i principali meriti di Prodi erano stati quelli di aver assunto per un certo periodo la direzione dell’IRI, prendendo in mano un ente sano e lasciandolo con un passivo schiacciante, e di essere stato il primo ministro "laico" cioè non parlamentare nella storia dei governi italiani, ma questo semplicemente per il fatto di non possedere carisma sufficiente nemmeno per essere eletto deputato, prima dell’immenso battage propagandistico che ha preceduto le elezioni del ’96, sebbene "dove si puote ciò che si vuole" si fosse decisi a lanciarlo nella carriera politica, probabilmente perché durante il suo periodo all'IRI i soldi scomparsi dalle casse dell’ente, da qualche parte devono pur essere andati a finire.

Rassegnazione: credo sia questa la parola chiave per capire come sia stato possibile che a cinque anni dalla caduta dell’Unione Sovietica, a sette anni dalla dissoluzione dei regimi comunisti nell’est europeo gli italiani abbiano potuto affidare le loro sorti nelle mani dei presunti ex comunisti; da una parte la convinzione più o meno diffusa che la volontà popolare in definitiva non conta nulla e che l’esercizio del voto è solo una noiosa incombenza, dall’altro una formidabile ed astuta "macchina da guerra" che ha saputo occupare tutti gli spazi che contano ed avvelenare per gradi la coscienza pubblica di un paese fino a rendere impossibile il dialettico confronto delle idee. C’è da rilevare anche che gli italiani sono ormai avvezzati da mezzo secolo a governi che si presentano come "di centro – sinistra", e la continuità dà sicurezza, sebbene la forza dominante di questo centro – sinistra non sia più la DC ma i suoi antichi avversari. In altre parole, molti italiani contano su alcune cinture di sicurezza che dovrebbero consentirci di non pagare il costo di una scelta irresponsabile, cinture che invece sono definitivamente spezzate. Si pensa che un paese della NATO, il paese per di più che ospita la Santa Sede, non possa pagare lo scotto di aver affidato il proprio destino ai comunisti, presunti ex o meno che siano, ma questa non è che un’illusione, forse la più pericolosa di tutte, se non difenderemo noi la nostra libertà, nessun altro lo farà al nostro posto.

Se gli Stati Uniti si sono impegnati, dal 1945 al 1991 a bloccare l’avanzata comunista su scala planetaria, questo non è avvenuto per amore disinteressato nei confronti del resto del genere umano, ma perché erano in competizione per il dominio mondiale con l’altra superpotenza, l’Unione Sovietica. Oggi che l’Unione Sovietica non esiste più, possiamo andare ad impiccarci all’albero che preferiamo. Purché gli interessi americani siano salvaguardati, a loro interessa ben poco se godiamo o meno di diritti umani e libertà civili: si veda la lezione chiarissima della Cina verso cui è stata mantenuta la clausola di nazione più favorita dal commercio americano con l’estero nonostante gli scontri di piazza Tien-an-men del 1988 e la repressione che ne è seguita.

Analogamente, mi sembra che chi si ostina a pensare che la Chiesa cattolica e la presenza del Vaticano nel cuore della nostra penisola possano o vogliano essere di ostacolo all’avvento di uno stato illiberale, dimostri di continuare ad essere legato alla mentalità dell’epoca della Guerra Fredda, sebbene la sfacciata propaganda a favore dell’Ulivo fatta dalla maggior parte dei pulpiti delle chiese italiane durante la campagna elettorale del ’96 avrebbe dovuto dimostrare che le cose non stanno più così. Parlando da storici, sarebbe fin troppo facile dimostrare quanto recente, riluttante ed insincero sia il matrimonio fra i principi della democrazia liberale e la Chiesa cattolica che nel corso dei secoli ha dimostrato di riuscire a convivere benissimo con tirannidi di ogni specie, ma il punto è un altro: la caduta del comunismo e quanto è avvenuto nell’Est europeo nell’ultimo decennio hanno rappresentato per la Chiesa cattolica un’enorme delusione. Avendo rappresentato per moltissimi anni la principale e forse l’unica vera forza di opposizione organizzata ai regimi comunisti, era legittimo aspettarsi che la caduta di questi la lasciasse in una posizione egemone, culturalmente e politicamente, ed invece è avvenuto che l’Est post – comunista ha cominciato a mostrare rapidamente gli stessi "mali" dell’Occidente: secolarizzazione, laicismo, il disgregarsi in mille variabili individuali di quel blocco monolitico a cui la Chiesa cattolica sperava invece di cambiare solamente bandiera, anche in Polonia, terra d’origine dell’attuale pontefice e da lui comprensibilmente prediletta. A parte le scelte individuali in quanto cittadini di religiosi e credenti, c’è da aspettarsi che la Chiesa non muova un dito come istituzione a favore della democrazia liberale, e che semmai operi nel senso contrario. In poche parole, non possiamo più delegare a nessuno ma solo accollarci noi stessi il compito di difendere quel po’ di libertà che ancora abbiamo.

C’è, a dire il vero, un altro fattore che può spiegare l’inverosimile vittoria elettorale delle sinistre nel ’96: da alcuni anni è stato messo a punto un metodo di previsione degli esiti elettorali che, congiunto agli oggi molto sofisticati metodi di proiezione statistica, consente quasi dappertutto di predire con elevata attendibilità, e quindi di diffondere immediatamente dopo la chiusura dei seggi i risultati delle votazioni, il metodo dei cosiddetti exit poll, ossia interviste a campioni significativi del corpo elettorale immediatamente all’uscita dai seggi. Che i risultati così ottenuti, essendo proiezioni statistiche, si discostino di un certo grado dai risultati effettivi, questo è prevedibile, che gli exit poll funzionino meno bene in Italia che altrove, questa è una curiosità che potrebbe avere qualche spiegazione, anche se talvolta il divario è talmente marcato da essere sorprendente, che la differenza fra gli exit poll ed il risultato definitivo uscito dalle urne si risolva sempre in favore della sinistra e contro il Polo, e con esiti davvero clamorosi, questa è una sfida ad ogni legge statistica ed alla nostra credulità, e la cosa ha avuto talvolta esiti clamorosi, ricordo ad esempio le elezioni comunali del neo – costituito comune di Fiumicino, dove una chiara vittoria del Polo prevista da tutti i sondaggi e confermata dagli exit poll si ribaltò nell’elezione di un sindaco dell’ulivo. Anche qui la spiegazione è semplice: non parliamo di brogli nel senso stretto del termine, ma quando si dispone, come il PDS ha, di rappresentanti di lista ai seggi agguerriti e scrutatori compiacenti, è facile annullare schede elettorali nelle quali il voto non sia espresso con la massima chiarezza, e se la cosa avviene sempre a senso unico, si può stravolgere l’esito di un'elezione, cosa che non è possibile fare con l’exit poll, dove il cittadino elettore dichiara il suo voto direttamente all’intervistatore, ma purtroppo l’exit poll non ha valore legale. Quante migliaia di cittadini sono stati derubati del loro voto, della loro parte di quel potere sovrano che teoricamente la Costituzione attribuisce al popolo? Ecco una domanda a cui sarebbe bello avere una risposta.

Cosa ci possiamo attendere nel futuro più o meno prossimo? Il fatto che oggi la violazione dei diritti fondamentali e delle libertà dei cittadini non sia così marcata ed evidente, di per sé non significa nulla. Mussolini impiegò tre anni, dal ’22 al ’25, per trasformare il proprio governo, che era in origine un governo di coalizione, in una dittatura. Oggi una simile trasformazione potrebbe richiedere tempi più lunghi, perché c’è una comunità europea in barba alla quale bisogna farla, oppure potrebbe anche non avvenire affatto, semplicemente perché non è necessario, non serve che il regime dell’ulivo assuma le forme classiche, appariscenti della dittatura, basta che il cosiddetti ex comunisti aumentino ancora un po’, rendano più capillare ed onnipervadente la loro presa sul tessuto sociale, sui mille aspetti della vita quotidiana, della scuola, della cultura, dell’informazione, delle professioni, per rendere impossibile ogni alternativa a loro stessi, non il truce ed evidente pugno di ferro, ma i mille piccoli soprusi quotidiani sufficienti a rendere la vita impossibile agli anticomunisti, basta vedere per tutti quello che è oggi li mondo della scuola, dove le riforme a raffica introdotte dal ministro Berlinguer hanno lo scopo nemmeno tanto occulto di trasformare gli insegnanti, volenti o nolenti, in propagandisti della sinistra presso gli ignari giovani.

Sul piano dell’economia, il danno costituito da una classe politica di governo con una visione anacronistica delle cose, la stessa che ha lasciato un’eredità così pesante all’Est, lo stiamo già pagando. Che intervento massiccio dello stato nell’economia e parti cospicue della ricchezza di un paese nelle mani pubbliche attraverso un pesante prelievo fiscale significhino maggiore equità sociale, è una fesseria che oggi nemmeno lo stesso Marx sottoscriverebbe (a prescindere dal fatto che Karl Marx era un uomo intelligente ed una volta, di fronte alla palese bestialita dei suoi seguaci, sbottò dicendo "Io non sono marxista"). Già oggi siamo il paese con l’imposizione fiscale più pesante d’Europa, e questo significa non solo maggiore ricchezza sottratta all’origine ai cittadini, ma anche maggiori costi di produzione, minore competitività delle imprese, meno posti di lavoro. Guardiamo poi il peso determinante in tutte le questioni sociali che ha un fossile come Rifondazione comunista. Ebbene, è evidente che Bertinotti e soci hanno una visione anacronistica dei rapporti sociali e che la loro politica non può che danneggiare i lavoratori che pretendono di rappresentare. Il famoso slogan lavorare meno, lavorare tutti, ad esempio, avrebbe avuto un senso un secolo fa, ma oggi una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario avrebbe l’unico effetto di indurre sempre più imprese a trasferire i propri impianti ed i capitali nel Terzo Mondo o nell’Europa ex comunista, dove i costi della manodopera sono più bassi, determinerebbe non l’aumento, ma la sparizione di un gran numero di posti di lavoro, in una situazione già oggi così precaria per l’occupazione. Questa classe di governo è una macina al collo per l’economia italiana, tanto più letale oggi che, con l’integrazione europea, si stanno rapidamente abbassando tutte le barriere al confronto diretto con le imprese degli altri paesi della comunità europea, e le prime a rimetterci in questa situazione saranno/sono proprio le classi lavoratrici.

Un episodio avvenuto di recente, ben poco pubblicizzato dai media, per la verità, dà esattamente la misura di quale sia la situazione nel nostro paese: c’è stato un vivace battibecco fra Alleanza Nazionale e Forza Italia perché, causa l’assenza di alcuni deputati "azzurri" è venuta a mancare in parlamento la possibilità di approvare una legge che consentisse l’esercizio del diritto di voto ai nostri connazionali all’estero. A prescindere dal fatto che, in ogni caso, è solo dalla compattezza dell’opposizione che si può trarre qualche speranza di salvaguardia della libertà nel nostro disgraziato paese, e che non vi è motivo di pensare che vi sia stato da parte di Forza Italia un sabotaggio intenzionale di questo provvedimento, il vero punto della questione che sembra essere sfuggito a tutti è, a cosa si deve l’opposizione dura e frontale che la cosiddetta sinistra manifesta da almeno trent’anni a questo provvedimento che è semplicemente un atto di giustizia e non comporterebbe problemi tecnici o costi particolari (in fin dei conti, in ogni angolo di mondo c’è un consolato italiano)? La sinistra mente da sempre di essere dalla parte dei lavoratori, ebbene quale categoria più meritoria dei lavoratori italiani all’estero? Se l’Italia gode di un po’ di stima e di apprezzamento nel mondo, è esclusivamente merito loro, non certo della nostra squallida classe politica! Perché negare loro un diritto così elementare che la sinistra da noi vorrebbe piuttosto attribuire (e lo farà!) all’ultimo immigrato clandestino? Il fatto è semplice: la sinistra ha una coda di paglia, lunga, miserabile e fetida, ha la paura perfettamente giustificata, che chi vive al di fuori dei nostri confini e dei mille tentacoli che essa è in grado di allungare sull’informazione, non possa che esprimere il proprio voto in favore della libertà e della dignità del nostro paese, cioè a destra, od in direzione di quella che siamo soliti ritenere tale.

Oggi in Italia non è nemmeno il caso di parlare di opposizione, maggioranza ed opposizione sono termini del linguaggio della democrazia, che presuppongono una parità, una possibilità di scelta fra alternative reali, che chi aderisce ad idee di opposizione non sia per questo sottoposto a rischi od angherie o privato del diritto di esprimersi. Riprendendo l’onorato termine già impiegato per coloro che si opponevano allo strapotere comunista nell'Europa dell’est, è ad una dissidenza italiana che bisogna ora dare vita.

 

Falco

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