COME SEMBRANO BRUTTE LE NOSTRE CITTA’ TORNANDO DALL’ESTERO
Negli ultimi anni, ogni volta che torno in
Italia da un soggiorno all’estero un po’ prolungato, resto dolorosamente
colpito. Venendo dal Giappone mi sono accorto che Milano e l’Italia sono
scandalosamente sporche. Confrontate con le strade di Tokio, in cui non
si incontra nemmeno un pezzetto di carta o un fiammifero, le nostre sembrano
quelle di una città africana. Quest’anno, tornato da un soggiorno
a Barcellona, mi sono accorto che Milano, da molti anni, non ha avuto più
nessuno sviluppo edilizio. A Barcellona sono sorte nuove stupende vie,
palazzi realizzati da grandi architetti.
Da noi l’unica cosa nuova che si incontra
nella cinquantina di chilometri fra il triste aeroporto della Malpensa
e il centro di Milano, è il brutto edificio della Fiera. Poi mi
sono reso conto che siamo riusciti a degradare in modo incredibile il centro
delle nostre città storiche. Palermo è stata abbandonata
e ha i palazzi in rovina. Genova e Napoli non sanno risolvere il problema
dei loro vicoli. Ma, fino a poco tempo fa, il centro di Milano e quello
di Firenze erano presentabili. Negli antichi palazzi storici di Firenze,
nelle dimore patrizie, trovavate negozi di moda, botteghe che vendevano
i prodotti dell’artigianato pregiato, ristoranti famosi. Tutto scomparso.
Come sono scomparsi dal centro di Milano i negozi dove veniva esposto il
made in Italy. E vi sono ormai pochi ristoranti tipici o di qualità.
Tutto è occupato da fast food, pizzerie a basso prezzo, paninoteche,
bancarelle di souvenir, ambulanti seduti per terra. Il centro è
diventato uno sterminato ristorante popolare, una specie di mensa, in cui
vengono a mangiare tutti quelli che vogliono spendere poco: impiegati,
studenti, turisti, extracomunitari. Molti dei quali, poi, bivaccano seduti
dove capita, lasciano in giro carte bisunte e, la notte, usano come latrine
le stradine vicino al Duomo.
Siamo l’unico Paese d’Europa che ha rinunciato
a ogni programmazione dignitosa, che si è lasciato travolgere dal
disordine, dalla prepotenza del brutto e del facile. Lo si vede quando
si arriva alla stazione ferroviaria di Firenze o di Roma provenendo dalla
Francia, dalla Germania o dalla Svizzera.
A Roma l’architettura della Stazione Termini
è stata sommersa da un labirinto di baracche e bancarelle piene
di souvenir e di bric-à-brac, frammezzate a bidoni e cumuli di immondizia.
A Firenze si incontrano maree di biciclette, mentre i gabinetti sono di
una sporcizia ributtante. E, dappertutto, mendicanti, miserabili, prostitute.
Io sto benissimo al Cairo o a Marrakech,
ad Aleppo o a Damasco. Sento la suggestione di Benares, adoro i vicoli
di Fez, mi piacciono gli odori del suk arabo, come quelli della Vucciria
di Palermo. Mi diverte Disneyworld di Orlando, mi attrae Chinatown di San
Francisco. Ammiro il rituale della Chiesa cattolica e di quella ortodossa.
Ma perché ciascuna di queste cose è coerente in se stessa,
ha uno stile, incarna propri significati e valori. Mentre invece noi stiamo
perdendo ogni forma e ogni stile, ci muoviamo verso il caotico, lo slum.
Un Paese come il nostro, disordinato, burocratico,
che non ha orgoglio nazionale, che non ha grandi ideali, ideologicamente
diviso, se perde la sua tradizione artistica, il senso della bellezza,
il gusto, lo stile, perde la sua identità. Perde addirittura la
sua moralità, perché l’unica moralità del nostro patrimonio
storico è l’armonia estetica e spirituale.
Spiegate i vostri ordini: l’autorità nasce dalla fiducia
di FRANCESCO ALBERONI
Molte persone, quando danno un ordine, non
sentono il bisogno di fornire spiegazioni a chi deve ubbidire. Altre, invece,
ritengono indispensabile farlo e assicurarsi che abbia capito. Avrete certamente
conosciuto dei medici che vi dicono che malattia avete, vi prescrivono
la cura e la dieta appropriata, ma non aggiungono altro. Non vi spiegano
come si svolge il processo patologico, o come agiscono i farmaci prescritti.
Non vi fanno partecipi del proprio sapere. Loro sono i medici e voi i
malati. Il vostro compito è ascoltare, ubbidire e guarire senza
porre troppe domande.
Lo stesso fanno molti dirigenti. Ritengono
di dover dare ordini dettagliati, precisi, chiari. Ma pensano sia sbagliato
illustrare ai propri collaboratori e dipendenti il ragionamento che sta
alla base dell’ordine. Sono convinti che solo i dirigenti debbano conoscere
il problema nella sua interezza, mentre èopportuno che gli altri
abbiano un campo visivo limitato. Pensano che, dando loro troppe spiegazioni,
possano discutere, fare obiezioni, disubbidire. Temono di mettere in crisi
l’autorità.
All’estremo opposto vi sono le persone che,
quando danno un ordine, sentono il bisogno di analizzare la situazione,
mostrare che alternative potevano seguire e perché hanno scelto
proprio quella. Fanno appello al ragionamento, al convincimento. Cercano
di mettere il loro dipendente nella loro stessa situazione; di fargli vedere
le cose dal loro stesso punto di vista. Vogliono consentirgli di agire
per conto proprio, con la sua testa. Il medico di questo tipo sa che, nel
corso della malattia, appaiono sintomi sempre diversi. Se spiega al paziente
che cosa significano e cosa deve fare, lo aiuta a curarsi meglio. Il dirigente
che spiega al suoi collaboratori il quadro generale del problema, vuole
che siano in condizione di prendere decisioni
intelligenti anche quando lui non può
essere presente. Questi due diversi modi di dare comandi sono basati
su una diversa concezione dell'autorità, dell'organizzazione e della
vita. Il primo modello parte dal presupposto che l’ordine sociale sia possibile
solo con una gerarchia in cui il diritto di pensare, di
discutere e di decidere spetta al superiore.
In questo sistema la virtù fondamentale è l’ubbidienza.
E’ il modello tipico dell’esercito, dove
il soldato deve ubbidire immediatamente, e senza discutere, a qualsiasi
comando. Ma è anche il modello della Chiesa cattolica, dove anche
i santi, se vogliono diventare tali, devono prestare ubbidienza assoluta,
fino alla morte: perinde ac cadaver.
Il secondo modello è fondato sulla
capacità degli esseri umani di autorganizzarsi. La virtù
fondamentale, in questo caso, è la fiducia reciproca che sorge attorno
a un progetto, a una meta comune.
E’ cosi che si forma l’équipe scientifica,
affiatata, creativa. Tutti devono pensare il più possibile con la
propria testa. Perché se uno ha una buona idea, deve comunicarla
subito agli altri. E se qualcuno arriva a un risultato sperimentale, non
c’è nessuna autorità che possa metterlo in discussione.
Bello, vero? Noi tutti vorremmo lavorare
in imprese con questo spirito. Ma è difficile, perché il
momento magico in cui tutti sono uniti verso una meta dura poco. Basta
che arrivi qualcuno troppo ambizioso, o troppo spregiudicato, o troppo
rigido, e l’unità svanisce. Come nel giardino dell’Eden, quando
arriva il serpente.
Gli ambiziosi incontentabili e la lezione di Cincinnato
di FRANCESCO ALBERONI
Tutti noi siamo smisuratamente ambiziosi,
e smisuratamente voraci. Se ci sembra di non esserlo, è solo perché
pensiamo che certe mete non siano raggiungibili, perché ci siamo
inconsciamente rassegnati al nostro ruolo. Ma basta che mutino le circostanze
e il nostro appetito si risveglia.
Pensate a un’eredità. Finché
il vecchio patriarca era vivo, tutti in famiglia stavano tranquilli, ciascuno
faceva il suo lavoro, si accontentava del suo reddito, viveva in armonia
con i fratelli. Poi, improvvisamente, il vecchio muore e lascia un patrimonio
considerevole. E' come un fulmine. Ciascuno dei figli scopre di avere un
particolare diritto a quella casa, a quel quadro, a quel mobile. Avvengono
risse furibonde su un gioiello. Di colpo ciascuno ha l’impressione di avere
poco. E si accorge di avere poco
soltanto perché ora può avere
di più. Più sono grandi le possibilità, più
i desideri si dilatano. Se l’eredità è di cento miliardi,
dieci miliardi appaiono una miseria.
Nello stesso tempo aver poco significa avere
meno di un altro simile a noi. io non mi confronto con Bill Gates. Mi confronto
con mio fratello che ha ereditato una casa più grande e più
bella della mia.
Avviene lo stesso con la nostra posizione
sociale. il capitano è orgoglioso del suo grado. Ma se avvengono
delle promozioni e qualcuno viene elevato al grado di maggiore o di colonnello,
ecco che, di colpo, quello di capitano gli sembra insignificante. E si
strugge per essere promosso anche lui. Per questo molta gente va in crisi,
proprio nei periodi di sviluppo. Il sociologo Durkheim aveva osservato
che i suicidi aumentano nelle fasi di boom. Perché il successo di
alcuni aumenta la delusione di chi non è riuscito. La nostra ambizione
si accontenta anche di titoli puramente onorifici. Ci sono persone che
desiderano ardentemente diventare cavaliere, commendatore, grand’ufficiale.
In Inghilterra c’è gente che impazzisce per diventare Lord. E c’è
un fascino anche nelle cariche più modeste. Quando si libera il
posto di presidente di un club sportivo, di una associazione benefica,
di una fondazione, vedete apparire, improvvisamente, una schiera di pretendenti
che, fino a un giorno prima, sembrava totalmente disinteressarsi.
Perciò non dobbiamo meravigliarci
dell’attrazione fatale esercitata dal potere politico. Di solito, quando
uno l’ha assaporato,non riesce più a farne a meno. E' come una droga
o una passione amorosa. Perché la tua vita cambia, sale di grado.
Ti viene a prendere una macchina blu con l’autista. Attraversa la città
con la sirena spiegata. Passi fra ufficiali che si mettono sull’attenti,
hai a disposizione un aereo speciale, vieni ricevuto dai politici e dai
ministri di altri Paesi. Avanti a te sfilano, in continuazione, persone
in cerca di aiuto, di raccomandazioni. Bussano alla tua porta imprenditori
famosi, sei ospitato in modo munifico,
ossequiato, riverito. Ti riprende la televisione,
i giornali riportano le tue battute. La gente ti riconosce dovunque. Ma
quando lasci la carica tutto questo finisce. Devi tornare ad andare in
metropolitana, e non ti guarda più nessuno. Ecco perché
ha sempre suscitato meraviglia Cincinnato. Roma era in pericolo e i senatori,
disperati, andarono a chiamarlo mentre arava il suo campicello. Lo nominarono
dittatore. Lui accettò e vinse la guerra. Poi, subito dopo, lasciò
il potere e tornò a continuare il lavoro interrotto.
Per avere successo l’umiltà serve più della grinta
di FRANCESCO ALBERONI
La nostra società dà una grande
importanza alla volontà di riuscire, all’ambizione, alla competizione,
al successo. Apprezza le personalità forti, con grinta, che vanno
diritte verso la meta. Guarda con sospetto qualità come il disinteresse
e l’umiltà. Eppure, per riuscire, esse sono forse più
importanti delle prime. Non soltanto perché noi dobbiamo sempre
ottenere la collaborazione e l’aiuto degli altri. Ma anche perché
nessuno può fare qualcosa di bello o di grande fino a quando non
lo considera più importante di se stesso e non si pone umilmente
al suo servizio. C’è sempre un momento in cui deve metter da
parte non solo il suo brutto carattere e
la sua irruenza, ma anche il suo orgoglio, le sue ambizioni personali,
il suo Io. Prendiamo il caso apparentemente più lontano, quello
di un imprenditore. Ha incominciato a fare affari perché è
ambizioso, perché vuol diventare ricco, potente, temuto, servito,
emergere sugli altri, perché vuole cose belle, una villa, una barca,
entrare nei club esclusivi. All’inizio sono queste le motivazioni che lo
muovono, lo spingono, gli danno energia. Tuttavia non ce la farà
mai a creare una grande impresa se, a un
certo punto, la sua creatura non diventa più importante delle ville,
delle barche, del club, se non si mette al suo servizio, se non è
pronto a sacrificare tutte queste cose per farla trionfare. Anche lo scrittore,
lo scienziato, il regista, il musicista desiderano il successo, il riconoscimento,
l’amore, la fama, il denaro. Ma, se vogliono fare qualcosa di valore, non
devono pensare a queste mete, bensì concentrarsi solo sulla perfezione
della loro opera. Il creatore spesso deve cercare la propria strada in
solitudine, in mezzo alle difficoltà, alle incomprensioni. Per andare
avanti deve ricavare l’energia dalla propria
vocazione, dal convincimento di fare qualcosa di bello e che abbia valore
per se stesso. Quando raggiunge questo stato d’animo, ha l’impressione
di non essere lui a costruire l’opera ma sia l’opera che preme, dall’interno,
perché la porti a compimento.
D’altronde, la sua è sempre una ricerca.
Deve essere pronto a imparare, ad abbandonare una strada che si dimostra
sterile, a riconoscere un errore, a correggersi.
Deve saper guardare umilmente la realtà,
tenere limpida e sincera la mente. Perché solo allora gli appare
la soluzione del problema. Magari quando meno se l’aspetta, quando la sua
mente è vuota o divaga, talvolta di notte, o mentre sta passeggiando.
Ed è lo stesso nella vita di tutti i giorni, nell’esperienza più
semplice, quella dell’amore. All’inizio desideriamo una persona perché
è bella, ammirata da tutti, perché pregustiamo il piacere
erotico o quello orgoglioso di farci vedere con lei. E ci accingiamo a
conquistarla come il cacciatore la preda. Ma tutto cambia quando c’innamoriamo.
Allora quella persona invade la
nostra anima e riempie tutti i nostri desideri.
Non siamo più i cacciatori, ma la preda. E, per vincere, dobbiamo
abbandonarci umilmente all’amore, accettarla come nostro destino. E poi,
quando vogliamo realizzare una famiglia, avere figli, non possiamo più
agire spinti dalla convenienza, misurare vantaggi e svantaggi con un bilancina.
Dobbiamo gettarci nell’impresa con slancio, prodigarci, spenderci, donarci.
Anche chiedere, certo, ma sempre pronti a dare più di quanto riceviamo.
Arsenico e vecchi rancori nell’Italia senza ideologie
di FRANCESCO ALBERONI
Dicono che nella nostra società le
divisioni ideologiche sono sparite. Non è vero. Non hanno più
la forma di dichiarazioni dottrinarie, ma continuano come modi di interpretare
la storia, modi di reagire, costumi, sensibilità, reazioni emotive,
simpatie e antipatie, amore ed odio. Lo vediamo nei congressi di
partito dove la gente applaude ogni volta che l’oratore si lancia a testa
bassa contro il nemico. O in occasione della morte di un grande leader.
Qualcuno sostiene che si tratta di manifestazioni emotive passeggere. Non
è vero. Sono amori e odii profondi. Due militanti di partiti avversi,
in pochi minuti di conversazione, capiscono benissimo di essere incompatibili.
Appena uno nomina un personaggio che ama e ammira, l’altro ha un moto di
ripulsa. Quando il primo elogia libri autori, gesti o azioni che ritiene
esemplari, l’altro sente salire dentro di sé la collera e il disgusto.
In Italia la spaccatura politica ha profonde radici nel passato, negli
schieramenti del mondo, nelle tradizioni regionali. Il militante cresce
plasmato dalle concezioni e le emozioni della sua comunità che agiscono
in lui come riflessi condizionati. Appena può
favorisce i suoi e danneggia i nemici. Negli
Stati Uniti, in Francia, in Inghilterra il preinier una volta eletto, è
il presidente di tutti. Da noi no. Continua ad essere il capo del proprio
partito o del partito avverso. Amato dagli uni e odiato dagli altri.
Come possono, allora gli italiani, vivere
insieme, pacificamente, giorno per giorno? L’alta cultura cerca di negare
questa divisione, sostenendo che la nostra vita politica è conme
quella anglosassone, razionale, serena. La gente comune evita di parlarne.
Non facciamo nulla per conoscere le idee politiche dei nostri vicini, del
parrucchiere, del fruttivendolo, del meccanico, del medico, dell’avvocato,
del farmacista o dell’assicuratore, dell’impiegato di banca. Non discutiamo
con loro. Siamo prudenti perfino con gli amici.
Anche i mezzi di comunicazione di massa,
a poco a poco, hanno eliminato i dibattiti politici accesi e avvelenati.
Qualcosa resta, ma solo su certe reti, in certe ore. Di giorno la televisione
offre materiale pacioso, inerte. rubriche di cucina, talk show sulla vita
familiare, telenovele, soap opera, vecchi film. In prima serata spettacoli
musicali, giochi a premio, storie commoventi, intermezzi comici, film e
telefilm. C’è poi la onnipresente pubblicità, che deve piacere
a tutti. Gli spot non sono mai nè di destra nè di
sinistra. Vi sarete inoltre accorti che
i veri protagonisti della televisione sono ormai solo i divi televisivi:
i conduttori degli spettacoli di intrattenimento, gli attori, le attrici,
i comici. Sono sempre insieme, costituiscono un gruppo chiuso, una élite.
Si invitano l’un l’altro nelle loro trasmissioni, si elogiano, parlano
della loro vita, dei loro programmi. Ostentano amicizia e si tengono lontani
dalla politica. I telegiornali informano sul governo, sull’opposizione,
sulle polemiche politiche, però danno sempre più spazio alla
salute, alla cronaca nera e rosa, agli spettacoli, all’economia e alla
Borsa.
E come una grande coperta rosa che crea
una illusione di consenso sopra un abisso di rancore e di guerra. Non sarebbe
meglio dire la verità, capirsi e fare veramente la pace?
Chi comanda, anche bene, non si aspetti gratitudine
di FRANCESCO ALBERONI
C’è una virtù che gode di una
sempre minor considerazione: la gratitudine. Cioè l’impulso che
ci porta a voler bene, a esser riconoscenti, a cercare di ricambiare coloro
che ci hanno aiutato nei momenti difficili della vita. Nessuno può
sopravvivere se non ci sono i genitori che si prendono cura di lui, i maestri
che lo educano e le persone che gli offrono l’occasione per dimostrare
le sue qualità. Nell’impresa sarà un dirigente che gli apre
le possibilità di carriera. In università sarà un
professore che lo guida e l’aiuta nei concorsi. A volte sarà l’amico
che gli sta accanto in un momento di disperazione.
Tutti indistintamente gli esseri umani,
quando sono attanagliati dal bisogno, quando sono schiacciati dalle difficoltà,
quando sono in pericolo, chiedono aiuto. E se arriva un soccorritore provano
nei suoi riguardi un profondo senso di gratitudine. Pensano che non lo
dimenticheranno mai, che faranno di tutto per sdebitarsi. Ma la maggior
parte di loro non lo fa. Appena superata la prova, appena arrivati al successo,
il ricordo del soccorritore e del debito di riconoscenza si affievolisce.
Poi scompare del tutto. Certo, se avessero ancora bisogno di lui, tornerebbero
a profondersi in preghiere e ringraziamenti. Ma, se non può più
aiutarli, si convincono di non averne avuto bisogno neppure nel passato
e d’aver fatto tutto con la propria intelligenza, con la propria abilità.
Il loro atteggiamento diventa ancora più negativo quando vi si aggiunge
l’invidia. Questo avviene quando la persona che li ha aiutati continua
a essere sotto i loro occhi ed è cresciuta in statura, in considerazione
sociale più di loro. La sua sola presenza ricorda, in continuazione,
il debito di riconoscenza che essi cercano di negare. E, allora, fanno
di tutto per svalutana, screditarla.
Il risultato dl questi tortuosi meccanismi
dell’animo umano è questo: se voi aiutate degli amici, degli allievi,
del dipendenti a salire, ad avere successo, ma, ad un certo punto, vi tirate
da parte e non continuate ad esser loro indispensabili, vi diventeranno
nemici. E' successo a molti genitori quando hanno dato ai figli la loro
parte di patrimonio e se li sono trovati tutti contro. E successo a dei
re che, dopo aver diviso il regno in feudi fra i compagni d’arme; si son
trovati a fronteggiare una rivolta dei baroni.
Shakespeare ha rappresentato questa tragedia
in Re Lear, che divide il suo regno fra le figlie, e il regista giapponese
Kurosawa nel film Ran in cui il principe Ikimogi lo divide fra i figli.
In poco tempo questi scacciano i genitori, li umiliano e si dilaniano in
una guerra civile. Certo, oltre a queste persone ingrate, ve ne sono altre
che conservano a lungo il senso della lealtà e della riconoscenza.
Perché sono più autonome, più forti. Non hanno bisogno
di mentire per avere stima di se stessi. Ma sono poche.
La regola è l’altra. Chi ha
un potere non lo ceda, lo eserciti fino in fondo. Non conti mai sulle dichiarazioni
dei suoi beneficiati che gli promettono di continuare secondo le sue direttive,
di andare d’accordo e di ricordarlo con affetto. Si assuma completamente
l’onere di governare bene la comunità, di essere giusto ed imparziale.
Poi, quando non potrà più farlo e se ne andrà, se
ne vada per sempre, non si faccia più vedere. E' l’unico favore
che i suoi successori veramente desiderano.
Pigri davanti a un buon libro? Forse perché fa pensare
di FRANCESCO ALBERONI
La maggior parte dei notiziari e dei dibattiti
televisivi, degli spettacoli di intrattenimento, dei film e dei telefilm,
degli articoli di giornali, ci divertono, ci incuriosiscono, ci danno informazioni
utili. Però non ci aiutano a penetrare il cuore umano, non ci aiutano
a capire gli aspetti oscuri di noi stessi, degli altri, della storia. Ci
lasciano come siamo. Ci insegnano poco o niente. Sarà capitato
anche a voi, almeno una volta, guardando un importante film, o leggendo
un libro significativo, di sentirvi scossi dalle fondamenta perché
quel libro, quell’opera vi rivela qualcosa di essenziale a cui non avevate
mai pensato. Sentite che
allarga la vostra mente, il vostro cuore.
Lo divorate perché vi dà un nutrimento, una energia vivificante.
Quel modo di vedere e di pensare diventa parte del vostro essere.
Solo poche opere hanno questo potere. Di solito quelle dei massimi artisti.
Immergendoci in esse riusciamo a cogliere il mondo
con gli occhi del genio che le ha create,
nel momento stesso in cui le ha create. Allora le nostre capacità,
la nostra sensibilità, la nostra energia intellettuale vengono moltiplicate
per cento, per mille.
Ma ne approfittiamo così poco! Nonostante
l’enorme aumento dell’istruzione, il moltiplicarsi vertiginoso delle informazioni,
noi perdiamo quasi tutto il nostro tempo dietro cose banali, mediocri.
Non andiamo avidamente alla ricerca di opere rivelatrici. Ho sentito
molti medici, ingegneri, molti manager, capi del personale, politici, sindacalisti,
e perfino psicologi, sociologi, affermare, in modo sprezzante, che non
hanno tempo per leggere romanzi. Come se alcuni romanzi non contenessero
infinitamente più psicologia, più conoscenze sull’essere
umano, sulla vita organizzativa, sui labirinti della vita sociale, dei
loro
giornali, dei loro articoli scientifici.
I grandi artisti sanno vedere in controluce
il loro tempo, coglierne la verità nascosta, il destino che si sta
plasmando. Nel suo libro La tela del ragno Joseph Roth descrive il nazisino
anni prima che si affermi. In Finestre di fronte Simenon descrive, senza
mai esserci stato, gli orrori quotidiani della Russia di Stalin.
Come si può rinunciare a questo sapere?
Perché proprio coloro che più dovrebbero leggere non lo fanno?
Per presunzione? Presunzione maschile di fronte a un genere considerato
femminile, di svago? In parte si, ma soprattutto per pigrizia. Perché
siamo abituati a scorrere i giornali, a sfogliare i settimanali, soffermandoci
solo sulle notizie di attualità, su quello che riguarda strettamente
la nostra professione. E tutto concentrato in poche righe, in pochi grafici,
predigerito, premasticato. Oppure ci fermiamo ai giudizi politici dogmatici,
sotto forma di battute. Mentre la lettura di un’opera importante richiede
di seguire il flusso delle parole che svela, a poco a poco, il labirinto
dei pensieri, dei gesti, gli abissi delle relazioni, le contraddizioni
della vita e della storia. Troppo complicato.
Ma c’è una ragione più profonda,
una pigrizia più radicale. Questi libri che scavano zone inesplorate,
che aprono le porte sbarrate, ci portano a guardare con altri occhi noi
stessi, chi ci circonda, il mondo in cui viviamo. Mettono in discussione
la nostra tranquilla sicurezza, la nostra comoda divisione tra bene e male.
Meglio restare pigramente quello che siamo, senza uscire dal sentiero abituale.
Guai se in un’impresa non c'è almeno un ottimista.
di FRANCESCO ALBERONI
Vi sono delle persone che hanno una straordinaria
capacità di resistere nelle situazioni più disperate, di
sperare quando tutto sembra perduto. Alcune di loro sono sopravvissute
per decenni in orribili celle sotterranee di due metri per due, senza luce,
in mezzo ai propri escrementi e ai topi. I racconti dei sopravvissuti dai
gulag sovietici e dai campi di sterminio hitleriani ci mostrano che, accanto
a coloro che vengono presi dallo sconforto e crollano, ve ne sono altri
che sopravvivono senza perdere la speranza. Ad esempio i Testimoni di Geova,
che interpretavano le paurose tribolazioni del presente come il segno dell’avvicinarsi
del giudizio divino.
Nella recente vicenda di Mani pulite, molti
politici, spesso innocenti, si sono suicidati o ammalati di cancro, perché
le loro speranze e le loro difese immunitarie sono improvvisamente crollate.
All’opposto c’è Nelson Mandela, che, dopo ventisette anni di prigione,
ha condotto alla vittoria il suo popolo.
Mi sono sempre domandato perché,
nel corso della storia, gli sconfitti si sono arresi ai vincitori anche
quando sapevano che sarebbero stati uccisi o atrocemente torturati. Nelle
guerre civili sudamericane c'era un apposito boia,
il degolador, che, armato di coltellaccio, tagliava loro la gola. Perché
allora si arrendevano? Perché non combattevano con le armi in pugno
fino alla fine? Perché agisce in noi un antichissimo riflesso che,
di fronte alla sconfitta, blocca il nostro desiderio di vivere e di lottare.
I cani, quando vengono sopraffatti da uno più forte di loro, gli
offrono la gola.
Io, che non ho nè molto coraggio
nè molta capacita di resistere, ammiro moltissimo chi sa farlo.
Lo sconforto è una terribile lusinga, una pericolosa seduzione.
Si insinua nel cervello come una droga, ti fa desiderare di rannicchiartl
e accettare, senza più pensare, ciò che deve succedere. Nel
film dl Kurosawa Sogni c’è un bellissimo episodio, in cui due soldati
sono travolti da una tormenta di neve. Ad un certo punto appare loro una
donna bellissima, avvolta in un mantello bianco, che li accoglie fra le
sue braccia amorose, riposanti. E loro sono tentati di abbandonarsi a questo
abbraccio ristoratore. Poi comprendono. Quella donna è la tormenta
stessa, è il gelo, è la morte che promette loro pace se smettono
di lottare. Allora si ribellano, la scacciano, si accucciano proteggendosi
con le mantelline. E al mattino, scostando la neve che li aveva sommersi,
si accorgono che le tende dell’accampamento erano a pochi metri da loro!
Le persone dotate di grande capacità
dl sperare e di resistere hanno una importante funzione umana e sociale.
Sono loro che, nei momenti di pericolo, di difficoltà, di incertezza,
sostengono gli altri, li rincuorano e li conducono alla meta. Molti grandi
leader hanno questa fiducia incrollabile, questo ottimismo di fondo che
li rende invulnerabili. E se non l’hanno loro, vuol dire che hanno accanto
qualcun altro, un amico, un collaboratore, una moglie che li sostiene e
li stimola.
Nelle organizzazioni, nelle imprese, nelle
famiglie, perfino nella coppia, è indispensabile che ci sia perlomeno
una persona che possiede questa forza: uno degli angeli salvatori capaci
di fronteggiare le difficoltà, le malattie, le tragedie della vita.
Uno degli eroi del quotidiano. A cui dobbiamo i nostri meriti e la nostra
riconoscenza.
I demiurghi della storia abbattuti dal rancore nascosto dei vinti
di FRANCESCO ALRERONI
Forse avete visto anche voi in televisione
il film Giovanna d’Arco. Guidata da visioni, una contadina di diciassette
anni libera Orléans, sconfigge gli inglesi a Patay e incorona il
re a Reims. Sotto la sua spinta finisce la guerra dei cent’anni e sorge
una Francia unificata e potente. Però lei cosa ha avuto in cambio?
Nulla. E stata bruciata dagli inglesi come strega. Sono moltissime le grandi
personalità che, compiuta un’opera grandiosa, vengono accusate,
imprigionate, uccise. Socrate, il padre della filosofia, viene condannato
a morte. Cesare, che ha rifondato lo Stato romano, viene ucciso appena
tornato a Roma. Galileo, il padre della scienza moderna, è imprigionato
e costretto ad abiurare. Napoleone, che ha diffuso le idee della rivoluzione
francese in tutta Europa, muore prigioniero a Sant’Elena. In questi giorni
vediamo Kohl, un grande statista, che ha avuto il coraggio di unificare
la Germania, distrutto dall’accusa difinanziamento illecito del suo partito.
Proprio nel momento in cui il suo Paese avrebbe dovuto onorarlo come padre
della patria. Perché succede tutto questo?
Il filosofo Hegel sostiene che i grandi
demiurghi della storia non possono assaporare ilfrutto della loro azione,
goderne. Perché, una volta che hanno realizzato la loro missione
storica, vengono messi da parte come limoni spremuti. Forse è questa
la ragione. Forse ciascuno di noi ha un compito esaurito il quale non serve
più. Ma c’è anche una spiegazione più prosaica.
Tutti coloro che creano qualcosa suscitano
amori, ma anche odii. Hanno amici, ma anche nemici. Partiamo proprio da
Giovanna d’Arco. Se per i francesi era una santa, per gli inglesi era una
strega ispirata dal demonio. Napoleone, adorato dai suoi, era odiato da
coloro che aveva sconfitto. E, quando la sua forza si è incrinata,
i rancori sono emersi. Avviene lo stesso sul piano culturale. Galileo aveva
umiliato gli accademici aristotelici, aveva messo in difficoltà
i teologi conservatori. Si sono vendicati.
La gente non si rende conto del rancore
del vinto perché, di solito, il vincitore gli impedisce di parlare.
Anzi conduce una propaganda martellante per ribadire che era malvagio,
che aveva torto. I cristiani hanno fatto credere a tutti che i pagani erano
dei politeisti razzi, lussuriosi e crudeli. Solo oggi sappiamo che i neoplatonici
e gli gnostici erano monoteisti e con una altissima spiritualità.
I comunisti, conquistato il potere in Russia, hanno convinto i loro sudditi
che i borghesi erano ripugnanti e malvagi.
Nella maggior parte dei casi il vinto
tace, china la testa, nasconde il suo rancore. Però ricorda.
I musulmani ricordano ancora oggi con rancore le crociate. I serbi non
hanno dimenticato la battaglia del Kosovo dove sono stati schiacciati dai
turchi. Nel cuore degli armeni resta l’odio per i turchi massacratori.
Nel cuore degli ebrei resta l’odio per i nazisti. Nel cuore degli austriaci
il risentimento verso l’Europa che ha distrutto il loro impero.
Nei discorsi ufficiali, dimentichiamo queste
sotterranee correnti di risentimento. Non ammettiamo di esserne contagiati
noi stessi. Neghiamo che esistono nuclei fanatici in tutti i settori politici
o religiosi. Dovremmo pretendere da noi stessi e dagli altri una maggiore
onestà intellettuale. Perché queste correnti di odio, nascoste
dalla ipocrisia, preparano altre sanguinose violenze.
Se non puoi cambiare il mondo, cambia te stesso.
di FRANCESCO ALBERONI
Per affrontare la vita e i suoi problemi
occorre possedere due virtù opposte. La prima è la capacità
di modificare il mondo esterno in modo che risponda alle nostre esigenze.
La seconda è la capacità di adattarci all’ambiente, cambiando
noi stessi, i nostri programmi, il nostro modo di pensare.
Incominciamo dalla prima. Per modificare
il mondo esterno bisogna mettercela tutta, inventare,
escogitare sempre nuove soluzioni, perché
la realtà è dura, imprevedibile. Ce ne accorgiamo anche nel
più semplice lavoro manuale come cucinare. Non basta buttare nella
pentola quello che abbiamo sottomano, dobbiamo avere gli ingredienti adatti,
metterli nelle dosi giuste, al momento opportuno, alla temperatura richiesta.
Se ci manca anche solo il sale, è come se ci mancasse tutto, dobbiamo
procurarcelo.
Figuriamoci allora l’enorme massa di problemi
che ci aspetta quando decidiamo di sposarci e di avere dei figli. Dovremo
occuparci di loro, ogni giorno, della loro salute, dello studio, degli
amici, dei giochi, dei dolori, delle ansie, delle loro difficoltà.
Questo finché viviamo. O l’enorme impegno che richiede fare bene
il proprio lavoro, anche quello che sembra così semplice come il
venditore.
Per modificare il mondo esterno dobbiamo
avere fiducia in noi stessi e ottimismo. Tutte le persone che hanno realizzato
grandi opere avevano fede e sono riuscite a trasmetterla ai propri collaboratori.
Dobbiamo perciò sempre mettercela tutta, fino in fondo. Eppure ci
sono sempre dei momenti in cui dobbiamo cambiare atteggiamento. Rinunciare,
accettare le circostanze, adattarci all’ambiente.
E' sempre molto difficile capire quando
passare da un atteggiamento all’altro. Quando dobbiamo continuare ad agire
sul mondo con tutte le nostre forze, senza farci afferrare dal dubbio,
e quando, invece, è venuto il momento di rinunciare, di adattarci.
In quale momento Napoleone avrebbe dovuto capire che non poteva più
resistere a Mosca ma ritirarsi su posizioni sicure?
Molta gente oscilla tra la fede cieca e
la disperazione, fra una certezza senza fondamento e una sfiducia immotivata.
Si salva solo chi, pur sapendo alimentare una fede ardente, è pronto,
nel suo cuore, ad accettare una sorte diversa, un diverso modo dl essere.
Ciascuno dl noi deve operare come un imprenditore,
che ce la mette tutta per affermare il suo prodotto. Però sa che
il mercato è volubile, che sono possibili i rovesci di fortuna e
vi si prepara. Questo non gli impedisce di battersi con tutte le sue forze.
Ma stando attento ai segnali di pericolo. E, quando questi diventano troppo
minacciosi, ridimensiona i suoi piani. Se si è esposto troppo, cede
una parte delle sue azioni, riduce perfino il suo tenore di vita. Nel frattempo,
inventa nuovi prodotti e nuovi modi di parlare al pubblico.
L’adattamento è un lavoro su noi
stessi, sulla nostra mente, sui nostri sentimenti. Quando cadiamo ammalati
dobbiamo accettare l’immobilità, subire operazioni dolorose, ma
anche resistere alla paura e conservare il nostro animo sereno. Quando
cambiamo lavoro, città, Paese, dobbiamo capire il mondo che ci circonda,
imparame la lingua, adeguarci alla sua diversità, con pazienza e
tenacia. Se ci sentiamo smarriti dobbiamo resistere allo sconforto. L’adattamento
perciò richiede altrettanta tenacia, altrettanta forza d’animo,
altrettanta fede che trasformare la realtà esterna.
Umiliati e offesi, ecco quali sono i tre modi di reagire
di FRANCESCO ALBERONI
Se irritate un gatto, vi graffia con i suoi
artigli. Se irritate un cane, si rivolta e vi morde. L’animale risponde
a ciò che percepisce come pericolo aggredendo. E noi uomini tendiamo
a fare lo stesso. Quando qualcuno ci ostacola, o ci insulta, o ci umilia,
o ci tradisce, o ci offende, tendiamo a rispondere nello stesso modo, immediatamente,
occhio per occhio, dente per dente.
Però gli esseri umani, a differenza
degli animali, sono capaci di controllare i propri impulsi. Se non altro
sotto lo stimolo della paura. Tutti noi abbiamo visto un cagnolino piccolissimo
lanciarsi abbaiando contro uno dieci volte più grosso di lui. Un
uomo non lo fa perché valuta il pericolo e controlla il proprio
impulso. Il debole, quando è intelligente, anche se offeso, sorride
e cerca un’altra strada. Restano però grandi differenze di carattere,
di educazione, di abitudine.
Ci sono persone che, provocate o offese,
reagiscono d’impulso. Non vuol dire che sono più aggressive delle
altre. Ma solo che percepiscono l’offesa come qualcosa di intollerabile,
che merita una risposta immediata, un no deciso, anche a costo di mettere
in pericolo le mete più importanti. Queste persone sanno resistere
con grande tenacia a coloro che vogliono imporre loro un’idea o una linea
diversa. Più l’altro insiste, più si irrigidiscono. Però,
oltre una certa soglia, perdono le staffe. Quando si scontrano con uno
del loro stesso tipo, allora finisce in rissa, a cui segue, spesso, un
prolungato rancore.
Ci sono invece persone capaci di un ferreo
autocontrollo. Anche quando vengono offese, provocate, non muovono un muscolo
del viso e rispondono sorridendo. Però, nello stesso tempo, giurano
di vendicarsi. Tutta l’aggressività che non manifestano sul momento
la conservano come in un accumulatore. E preparano pazientemente il momento
in cui potranno colpire e ferire mortalmente colui che considerano il nemico.
Sempre
freddi, sempre sorridenti, sempre calcolatori. Nello scontro con una persona
impulsiva vincono la partita. Perché la irritano volutamente, la
provocano, le tendono imboscate in cui finisce, prima o poi, per cadere.
Alla fine abbiamo un terzo tipo di persone
che reagiscono aggressivamente quando sono offese, ma sanno controllarsi.
Sul momento pensano anche di vendicarsi, di fargliela pagare. Ma poi, con
il passare del tempo, questo proposito svanisce. Perché sono incapaci
di portare rancore, di odiare veramente qualcuno. Esse agiscono in questo
modo perché hanno un animo generoso, o perché si sentono
tanto superiori agli altri da concedersi il lusso di esserlo. Hanno un
vantaggio sugli impulsivi perché sono più duttili. Prevalgono
su quelli del secondo tipo perché sanno circondarsi di amici sinceri.
Ma solo per un certo tempo, perché, fidandosi troppo, cadono vittime
di coloro che tramano la vendetta.
Nella storia romana un personaggio del primo
tipo è ben rappresentato da Mario, che fu feroce con i nemici solo
quando si sentiva in pericolo. Chi rappresenta bene il secondo tipo è
il suo aiutante e poi avversario Silla, che fu spietato con i vinti. Apparteneva
al terzo tipo Cesare, che perdonò sempre i nemici sconfitti e li
richiamò accanto a sé. Ma proprio costoro, in una congiura,
lo uccisero. Anche per questa sua qualità Cesare fu il più
amato, il più rimpianto, e considerato il più grande dei
romani.
Un popolo che rinuncia alla sua lingua perde anche l’anima
di FRANCESCO ALBERONI
Le lingue prendono continuamente parole dalle
società dominanti e creative. Quando la musica era italiana, abbiamo
diffuso dovunque espressioni come "opera", "piano", "andante", "allegro".
Oggi, che la cultura prevalente è anglosassone, noi assimiliamo
parole inglesi o americane.
Ma, in questa fase della globalizzazione,
la potenza dominante è tale che alcuni popoli, come l’italiano,
perdono la fiducia nella propria lingua. Non fanno più lo sforzo
di creare e di conservare. La lasciano imbastardire, e adottano passivamente
la lingua dei dominatori. Prendete il titolo del film Shakespeare in love.
Nessuno ha cercato di tradurlo. Eppure era facilissimo Shakespeare innamorato.
Nella nostra letteratura c è L’Orlando innamorato, di Boiardo. invece
è stato lasciato in inglese, come se nell’inglese ci fosse qualcosa
di più. Fra poco, qualcuno italianizzerà l’inglese e non
dirà più che "è innamorato", ma che è "in amore",
come i gatti. Molte famiglie della buona borghesia mandano i figli all’asilo
e alla scuola elementare inglese o americana. E quelle più ricche
li fanno poi proseguire negli studi in Inghilterra o in America. Perché
vi sono delle ottime scuole ma, soprattutto, perché si impadroniscono
della lingua.
Parlare l’inglese o l’americano come fosse
la propria lingua materna, sta diventando indispensabile per salire socialmente,
per fare carriera a livello internazionale.
È sempre successo così. Dopo
le conquiste di Alessandro Magno, il greco diventò la lingua dominante
dalla Grecia all’india e tutti, assolutamente tutti coloro che volevano
emergere, o anche solo esprimere le proprie idee, dovevano parlare greco.
Per indicare il Messia, i cristiani usarono una parola greca, Cristos.
Però il Cristianesimo scelse come propria lingua il latino. Lo decisero
i padri della Chiesa di Roma e il latino rimase la lingua dei dotti, dei
filosofi medioevali fino ai grandi scienziati del Rinascimento. È
il latino che ha plasmato la visione del mondo di tutto l’Occidente.
Solo in seguito si sono affermate le lingue
nazionali, l’italiano, il francese, il castigliano, il tedesco, con la
loro splendida letteratura e, più recentemente, con il loro cinema.
Ma oggi torna a prevalere una lingua sola, quella della potenza dominante
che penetra, a poco a poco, in tutti i settori.
Una lingua non è solo un insieme
di parole o una grammatica. È un insieme di modi di vivere, di sentire,
di pensare, di concepire le relazioni fra le persone, i rapporti giuridici,
economici, sociali, i sogni, i progetti di vita, il bene ed il male. I
valori. Tutti i pensieri, i sentimenti, le emozioni, le idee, espresse
in un’altra lingua, risultano distorte, snaturate. Ricevono l’impronta
dello stampo in cui sono state calate.
Per questo tutte le grandi religioni hanno
usato una propria lingua. Il Cristianesimo il latino, l’islam l’arabo.
È per questo motivo che Lutero ha tradotto la Bibbia in tedesco.
Per questo gli ebrei hanno fatto rinascere l’ebraico, per essere autenticamente
se stessi. Chi perde la propria lingua perde la propria anima.
Nel mondo della globalizzazione, che schiaccia
e annulla ogni differenza, i popoli più piccoli, anche se ricchi
di storia e di cultura, rischiano di venir sommersi, cancellati per sempre.
La difesa della lingua, il suo uso e la
sua continua creazione, sono perciò indispensabili per continuare
ad esistere.