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Il campetto di periferia aveva delle dimensioni instabili, almeno per ciò che concerneva i confini definiti dalle linee del fallo laterale, e, comunque, subiva personalizzazioni direttamente proporzionali alla prepotenza dei più grandi. I pali delle porte erano costituiti da un paio di mattoni di tufo o, nei casi più sfortunati, da due grosse pietre, distanziate l’una dall’altra da circa sette metri, pardon, circa sette passi. Durante la partita, poi, il portiere, di nascosto e con grande maestria, provvedeva a diminuire tale larghezza spostando uno dei due pali, quasi sempre quello alla sua sinistra. La traversa, chiaramente, non c’era e i tiri angolati e un po’ alti che riuscivano a superare la linea venivano decretati gol alla maggioranza o discrezionalmente da colui dotato di maggior robustezza fisica. Altrimenti finiva in rissa o il proprietario del pallone, se era in disaccordo con la decisione, poneva fine al match con la solita frase:"Il pallone è il mio!" Un pallone di cuoio all’epoca era molto costoso e non tutti ne erano in possesso. Averne uno infondeva molto potere e molta sicurezza. E quando lo si portava dal benzinaio per gonfiarlo con un apposito spinotto, lo si sfoggiava a testa alta, lo si ostentava. Il benzinaio, il più delle volte, per l’uso "carbonaro" della sua pompa, s’incazzava. I più erano in possesso di leggerissimi palloni di gomma che andavano "a vento". Il "Super Tele" e il "Super Santos", quest’ultimo un po’ più pesante, erano i modelli più frequenti. Quando un pallone del genere si bucava, cosa non certo difficile, qualcuno lo tagliava in due e una delle due calotte se la metteva spiritosamente in testa e simulava una precoce calvizie. Per alcuni di noi tale gag ha costituito un terribile presagio. Nel 1978, dopo i mondiali di calcio d’Argentina, fu messo in commercio una versione in gomma dura del noto "Tango". Con "sole" cinquemila lire si potevano dare dei calci seri.

Il campetto di periferia era sito in un punto abbastanza scomodo. Costeggiava sempre una trafficatissima strada e la partita veniva costantemente interrotta perché il pallone, con qualche calcio indecente, vi finiva, mettendo a duro repentaglio la vita dello sfortunato tiratore, incaricato, quasi a mo’ di punizione, del recupero. A nulla serviva gridare:"Pallaaaaaa!!!…" per attirare l’attenzione di qualche passante. Quando da bambini viene a determinarsi una situazione di pericolo risulta alquanto difficile la probabilità di un aiuto esterno. Era anche possibile, comunque, che il campetto fosse in cima a una scarpata e allora il recupero avveniva in mezzo a rovi, ortica, cespugli e rifiuti di ogni genere. Quando si giocava per la strada, invece, questo vuole essere un piccolo inciso, il pallone andava sistematicamente a finire:

a) in un giardino con un cane da guardia ferocissimo, un vero e proprio cerbero;

b) nel giardino di un condomino misantropo e dall’infanzia travagliatissima, che lo requisiva e, talvolta, lo bucava davanti a tutti con estremo sadismo;

c) nel giardino di un edificio attiguo, disabitato, dalla recinzione altissima, con sbarre affilatissime, appuntitissime, dove l’addetto al recupero, nel tentativo di scavalcarla, si strappava qualche indumento rimediando una sonora lezione dalla madre;

d) sotto a una macchina, incastrandosi perfettamente al centro. In questo caso l’incaricato, con capacità superiori a quelle di uno speleologo, dopo aver provato ad allungarsi e a tirarlo via con un calcio, si infilava anch’egli sotto all’auto e riemergeva più sporco di un meccanico.

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