sandro ricaldone
webpage PIERO SIMONDO INTERVISTA SULLA PITTURA a cura di Sandro Ricaldone S.R. - Benché nato a Cosio d'Arroscia, nel
Ponente ligure, hai vissuto soprattutto in Piemonte, ad Alba e a Torino. SIMONDO - A Torino sono venuto per
l'Università, nel 1948. E adesso, ironia della sorte, sono qui per lo stesso
motivo. M'ero iscritto a Chimica (e questo è indizio di un interesse per la
scienza che ho mantenuto e che traspare nel mio lavoro più propriamente
artistico, sia a livello di impostazione generale, sia anche in certe soluzioni
tecniche di cui mi sono avvalso). S.R. - Contemporaneamente, però ... SIMONDO - Sì, frequentavo i corsi
dell'Accademia Albertina. S.R. - Sei stato allievo di Casorati, mi
pare. SIMONDO - Ero nella sua classe, anche se
non posso dire di averne tratto grandi cose. Casorati si teneva sulle sue
posizioni, ormai consolidate. I miei interessi, invece, s'indirizzavano in
maniera forse ingenua verso le avanguardie che allora si andavano scoprendo, in
specie verso Klee e Kandinskij che in quegli anni erano esposti a Torino dalla
Bussola. Curiosamente, potrei dire che ad Alba sono approdato per il tramite
dell'Espressionismo tedesco. S.R. - All'origine del trasferimento è
stata, mi sembra, una tua mostra di ceramiche. SIMONDO - Prima ancora, una conferenza che
avevo tenuto con un mio compagno di corso (nel 1950-51, dopo aver sostenuto un
buon numero di esami, avevo lasciato Chimica per Filosofia, dove avevo
incontrato Elena Verrone, che è poi divenuta mia moglie). Ero stato invitato da
un letterato amico di Arpino, Campanella, a parlare di avanguardie storiche al
"Circolo dei Signori". Con un altro studente, Lo Sacco, che si
occupava di teatro e di musica, abbiamo tentato di tracciare un panorama delle
tendenze espressioniste. E' stato allora che ho incontrato Gallizio. La mostra
di ceramiche l'ho tenuta dopo - sempre nel 1952, comunque, e sempre al Circolo
- con un collega dell'Accademia, Catti. S.R. - Che tipo di lavoro facevi, allora? SIMONDO - Un lavoro abbastanza fortunoso,
direi. M'ero procurato delle terraglie da una fornace vicino a Mondovì e per i
colori mi ero servito di campioni ottenuti scrivendo alle fabbriche. Vivevo in
modo abbastanza bohèmien. L'impronta stilistica era, una volta ancora, derivata
dall'Espressionismo. S.R. - E' abbastanza eccentrica questa tua
predilezione nel clima torinese dei primi anni '50 in cui era prevalente, sul
fronte dell'apertura al nuovo, l'astrattismo geometrico legato al M.A.C. ... SIMONDO - Certo. Ma con il gruppo che
ruotava attorno a Galvano allora non avevo rapporti. Nelle mie ricerche,
peraltro, acuni aspetti matematici e geometrici sono presenti. Non solo con
riferimento alla grafica computerizzata, di cui mi sono occupato in questi
ultimi anni, dove la funzione dell'algoritmo, per quanto celata, è preminente,
ma nelle "Topologie" dei primi anni '60, che testimoniavano, con la
loro tridimensionalità, la rottura dell'ordine frontale e - insieme - una sorta
di mediazione fra geometria e informale. S.R. - D'altronde anche Galvano, anche
Parisot, avranno una svolta informale fra il '54 e il '55. Torniamo però alle
ceramiche ... SIMONDO - Ho già accennato all'incontro
con Gallizio. Negli sviluppi che ne sono seguiti e che hanno contribuito al mio
trasferimento d Alba, non l'Espressionismo ma la ceramica ha contato parecchio.
Gallizio all'epoca, sulla scia del ritrovamento di reperti del Neolitico nelle
argille estratte nei dintorni di Alba per la fabbricazione di laterizi, raccoglieva
utensili primitivi e frammenti di vasellame in terracotta che gli procuravano i
fornaciai. Studiava le forme peculiari di questi reperti "liguri":
vasi a bcca quadrata, con pomoli e piedini, che voleva - per così dire -
riportare in auge, con la mia collaborazione. Un vecchio fornaciaio, Rigaglia, comunista
del '21, aveva costruito nel cortile di casa Gallizio un forno circolare per
cuocere i pezzi. Ne uscivano lavori che ricordarono a Siri venuto ad Alba con
Sciutto e Caldanzano per una mostra di ceramiche che avevamo organizzato per
loro in occasione della Fiera del Tartufo, nel '54, le cose di Jorn. S.R. - Con Jorn, quindi, esisteva - anche
sul piano formale - una consonanza significativa. SIMONDO - Direi di sì, benché l'incontro
con lui sia avvenuto soprattutto sul piano delle problematiche: la sua
concezione del rapporto arte-scienza, la polemica contro il funzionalismo, la
mia critica del professionismo artistico, che saranno alla base del Laboratorio
di Alba. Ad ogni modo se per Jorn, come più in generale per Cobra, la lezione
dell'Espressionismo è stata fondamentale, credo che proprio la componente
"primitivista", che lui desumeva dal folklore scandinavo e in me
nasceva anche dagli interessi archeologici di Gallizio, abbia potuto rappresentare
un reale punto di contatto, sotto il profilo formale. S.R. - Ad Albisola, nel '55, esponevi con
Gallizio quadri realizzati con la pece. Com'erano? SIMONDO - Le varie imprese di Gallizio,
che era chimico e farmacista, includevano certe lavorazioni con la pece per
cerotti antireumatici. Cominciammo a utilizzarla per produrre vasi e
constatammo che le si potevano mischiare colori ad olio e in polvere. Non ho
idea di dove siano finiti i lavori che mostrammo allora ad Albisola. Un paio li
prese Jorn e dovrebbero trovarsi al Museo di Silkeborg. Ad ogni modo, per le
caratteristiche del materiale, erano cose di notevole consistenza, con una
connotazione decisamente informale. S.R. - A quell'epoca avevi inziato a
produrre la serie dei "Monotipi" che rivelano invece affioramenti
figurali. SIMONDO - Ne ho fatti molti, una quantità
davvero quasi infinita, di monotipi. Anche - al solito - per questioni
economiche. La carta, fogli 50 x 70, me la regalava una tipografia. Carta
comune, grossolana, e qualche avanzo d'inchiostro, Come solvente usavo la nafta.
Quanto al discorso della figura, sì, c'era, ma in modo indiretto. In un'ottica
che potremmo definire leonardiana, per cui si scopre la figura nella nuvola o
nella macchia sui muri. S.R. - Imprimendo il colore sulla carta
... SIMONDO - Esattamente. E qui troviamo
un aspetto che m'interessava molto: la casualità o, almeno, la non
intenzionalità del segno. Nel monotipo ciò che vien fuori sulla carta è
abbastanza diverso dalla stesura che si opera sul vetro. In superficie appare
uno strato pittorico che in origine era coperto. Un solo granello di polvere
crea un alone imprevisto. La traccia manuale si ammorbidisce, si prosciuga,
scompare. E, infine, il monotipo è una tecnica che permette di
"scoprire" la figura, come dicevo, di inseguire l'idea che si
rinviene in un'immagine, riprendendo e modificando nel vetro masse e contorni. E' una strada che ho seguito anche negli
anni '60 quando dipingevo una tela a partire da un'impianto realizzato a
partire dalla tecnica del monotipo. S.R. - In fondo si tratta dello stesso
modus operandi che si riscontra nelle "Pitture-manifesto" del
decennio seguente. SIMONDO - Per certi aspetti, sì. Anche se
con il decalco d'immagini già mediatizzate, di foto estratte da riviste, si
entra in un ordine di problemi diverso, per quanto attiene ai contenuti. S.R. - S'introduce una componente retorica
... SIMONDO - Ho giocato sul dispiegamento
sincronico degli stereotipi, alternativamente per banalizzare o drammatizzare
determinati messaggi. Ma nello stesso tempo per riciclare, recuperare un
deposito disperso di figure. Per ripittoricizzare l'inquadratura asettica
dell'indossatrice accosciata che mima inconsapevolmente la posa di un quadro
pompier. Al di là di questo, però, anche nel caso della
"Pitture-manifesto" viene in campo, con il trasferimento, un problema
di mutazione dell'immagine in cui si ha a che fare con la perdita di
definizione (d'informazione se si vuole), con l'alterazione del colore, con
l'insorgere d'incidenti che ne modificano alcuni tratti non soltanto esteriori. S.R. - Un'operazione rovesciata, quindi,
rispetto alle "peintures detournées" di Jorn, ove la banalità
oleografica dell'immagine di base è annichilita, e non riciclata,
dall'intervento pittorico. In taluni casi, poi, sembra sia la cancellazione,
più del riporto, ad assumere un ruolo centrale. SIMONDO - La cancellatura, sì ... E' una
cosa che, con il "gioco del rovescio" (nei primi tempi ho prodotto
anche tele in cui la pittura era stesa sul verso del quadro e filtrava, per dir
così, in superficie, per gl'interstizi della trama), mi ha interessato
profondamente. Quasi tutta la fase delle "Ipo-pitture" è basata su
questa idea. S.R. - Nel senso che operavi cancellando
una stesura originaria? SIMONDO - Non precisamente. Potrei
affermare, piuttosto, che ogni stesura cancellava e si fondeva nella
precedente. Avevo riscontrato che - con l'impiego, ancora una volta, di
materiali non ortodossi (In questo caso le nitropitture per carrozzeria
miscelate con una forte quantità di solventi) - si poteva ottenere una pittura
in buona parte autoprodotta, nel senso che i vari strati, sotto l'azione del
solvente, si compenetravano, si addensavano o, più facimente, scomparivano. Io
mi limitavo a spruzzare - rigorosamente a macchina - queste misture e a
constatare i risultati. S.R. - Nei "Nitroraschiati" che,
sempre negli anni '80, seguono le "Ipo-pitture", al contrario,
l'intervento manuale è presente. SIMONDO - E' così, sebbene si tratti,
nuovamente, di un intervento attuato con strumenti o almeno con
modalità improprie. Da ultimo, d'altra parte, mi sono concesso una sorta di
vacanza, riprendendo ad utilizzare il pennello, dando spazio a certe
suggestioni, a risvolti anche naturalistici, nei dittici o nei trittici dpinti
alle soglie del decennio in corso. Dopo tanto dibattere attraverso il M.I.B.I.
il Laboratorio sperimentale ed il CIRA (un'esperienza di gruppo sviluppata
negli anni '60 fra microsociologia e teoria dei giochi, happening e progetto)
l'angoscia da avanguardia si è attenuata ... (intervista realizzata a Torino il 15
maggio 1993) >>> TORNA ALLA PAGINA
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